"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini La realtà dietro la macchina da presa
Franco Palmieri e Benedetta Neri
Tracce N. 10 > novembre 2005
La lotta all’omologazione. Questo accomuna Pasolini e don Giussani. Che citò il poeta friulano durante il convegno della Dc ad Assago nel 1987. E che ebbe il rammarico di non averlo conosciuto
«Spiegamelo te allora peché io nun so’ nessuna e te sei er re dei re». Con questa invocazione Anna Magnani, protagonista del secondo film di Pier Paolo Pasolini, dà voce alla struggente esigenza di un perché che dia le ragioni di quel senso di sconfitta e di impotenza che attraversano tutta l’opera del grande regista. A Pasolini poeta, regista e drammaturgo interessa restituire, attraverso la penna, la pellicola e la scena «questo contrasto insanabile, questo amore oppositorio, inconciliabile» nient’altro che la vibrante e dolorosa passione per la miseria e la gloria dell’umano. Non c’è nessuna forma d’arte che non nasca dal fattore umano, dalla vita, non c’è arte senza vita. Per Pasolini ciò significa affrontare la drammaticità del vivere e delle sue contraddizioni «cieche, continue, amorfe, indecifrabili, stupide e carismatiche come la realtà stessa... amo la vita così ferocemente, così disperatamente: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza:... e io divoro, divoro, divoro. Come andrà a finire, non lo so». Solo così si comprende come la macchina da presa sia per lui il prolungamento del suo occhio, la lente d’ingrandimento capace di «non demistificare quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo». Il suo linguaggio cinematografico diventa strumento di un’arte popolare, accessibile a tutti, depositaria di segni e di immagini che restano impressi nella nostra memoria e costituiscono la nostra vita. Nel Manifesto per un nuovo teatro del 1968 Pasolini afferma l’esigenza di una riscoperta del valore poetico della parola teatrale e del teatro come rito, ma sono proprio le sue produzioni cinematografiche a realizzare ciò che nel suo teatro si arresta ad un esito filosofico. Il Vangelo secondo Matteo, infatti, non è una ricerca storica, ma una ricostruzione per analogie dove il regista ha sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo con facce analoghe nel tentativo di restituire la "poesia" che c’è nel Vangelo senza una frase di spiegazione o di raccordo «perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo». La religiosità dell’arte di Pasolini deriva da una passione per le cose, per il mondo e per il proprio limite, in altri termini da una consapevolezza quotidiana ed eroica del dramma umano. In una intervista infatti afferma: «Evidentemente il mio sguardo verso le cose del mondo, verso gli oggetti, è uno sguardo non naturale, non laico. Vedo sempre le cose come un po’ miracolose. Ogni oggetto è per me miracoloso. Cioè ho una visione in un certo qual modo religiosa del mondo». Pasolini riteneva che tutte le cose, persone e oggetti avessero un qualcosa di sacro e il sacro è per sua natura molto semplice. Perciò la scelta di girare i film in modo semplice corrisponde a questa sua visione della vita, all’esigenza di difendere il sentimento del sacro radicato nel cuore della vita umana. Questa ricerca della naturalezza, della semplicità e sacralità originaria è ciò che spiega gli Appunti per un’Orestiade Africana.
Così come per il Decameron e le Mille e una notte, anche la rilettura dei miti della classicità corrisponde al recupero degli archetipi del nostro universo occidentale dove la cultura non è più citazione, ma la trama di un destino intessuto di tempo. Il mito d’Oreste funziona insomma come aveva funzionato quello di Edipo. Non a caso gli Appunti si connettono intimamente con la sua produzione contemporanea: da una parte il cinema, dall’altra il teatro. Analogicamente ai borgatari di Accattone e de La ricotta, alle plebi sottoproletarie de Il Vangelo, alle "coscienze infelici" di Edipo re, di Porcile, di Affabulazione, l’Oreste intravisto e immaginato nel film da fare è in tutto umanato di negritudine nello scontro-confronto tra tradizione e novità, tra utopia e inattualità.
Questo capolavoro ci restituisce una terra più misteriosa del mistero proprio dell’esistenza, coi suoi vasti paesaggi da preistoria e i suoi villaggi abitati da un’umanità contadina e primitiva. L’idea geniale è quella di costruire il film sulla sua costruzione, di nascondere e, dunque, esibire la messinscena facendo credere allo spettatore di guardare degli appunti per un film, per poi rendersi conto solo a visione terminata di aver visto il film vero e proprio. Ciò che colpisce è la poesia drammatica del testo filmico che sopraggiunge con naturalezza, senza predeterminazione attraverso l’occhio e la mano di Pasolini che sembra quasi un principiante della macchina da presa in un esplicito esercizio di costruzione. È diversità, alterità e attitudine fiduciosa e ottimistica da riconquistare nell’attesa di un futuro positivo che è già presente.
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