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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

mercoledì 14 aprile 2021

Prefazione di Alberto Asor Rosa - Passione e Ideologia di Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

  
 
 
Prefazione di Alberto  Asor  Rosa
Passione e Ideologia di Pasolini

Al lettore che s’accosti per la prima volta a questo libro di Pier Paolo Pasolini non potrà sfuggire la singolarità del titolo da cui esso è fregiato: Passione e ideologia. Ce ne spiega il senso l’autore in una Nota discretamente inserita nell’ultima pagina del volume: «‘Passione e ideologia’: questo e non vuole costituire un’endiadi (passione ideologica o appassionata ideologia), se non come significato appena secondario. Né una concomitanza, ossia: ‘Passione e nel tempo stesso

ideologia’. Vuol essere invece, se non proprio avversativo, almeno disgiuntivo: nel senso che pone una graduazione cronologica: ‘Prima passione e poi ideologia’, o meglio ‘Prima passione, ma poi ideologia’…». E poco più avanti egli precisa: «La passione, per sua natura analitica, lascia il posto all’ideologia, per sua natura sintetica…».

Potremmo aggiungere alle parole del poeta questo ulteriore cenno esplicativo: in Pasolini il primo movimento d’interesse verso un oggetto, anche culturale, è di natura sempre passionale, quasi fisica; l’intelligenza, che del resto in lui è vivissima, segue: nei casi peggiori, resta ancillare rispetto alla suggestione sensuale da cui è stata mossa; nei casi migliori, essa si assume il compito di sistemare i risultati di quel primo approccio in quadri definiti e sensati, che arrivano fino a dare una sistemazione storica di quel fenomeno o gruppo di fenomeni (Pasolini rivela in questi saggi anche l’implicito gusto per la storia letteraria, per le periodizzazioni, i raggruppamenti, i grandi quadri sinottici, ecc.).
Da ciò il tono assolutamente peculiare di questa prosa saggistica: sotto la quale pullula un fervore di slanci, di accensioni, di tremori e di abbandoni, perfino in qualche momento eccessivo, ma di un’indiscutibile autenticità e forza inventiva; mentre in superficie corre al tempo stesso il filo d’un ragionamento netto, semplice e vigoroso, come un volo d’uccelli sopra una terra appena lavorata. Se una formula potesse servire in apertura a chiarire l’orientamento del nostro discorso, saremmo tentati di definire Pasolini un «illuminista carnale»: tanto è forte e pesante la pulsione che gli proviene dai recessi più segreti dell’essere, quanto lucida, rigorosa, brillante, perfino in certi momenti sofistica, la forza della sua argomentazione.

Il volume Passione e ideologia apparve la prima volta nel 1960, già in edizione garzantiana; ovviamente gli sta dietro la lunga e per il poeta estremamente feconda stagione degli anni Cinquanta, e in particolare l’esperienza della rivista «Officina» (1955-59), da cui del resto sono tratti parecchi fra i saggi più importanti del libro.1 Se volessimo storicizzare, diremmo che Pasolini, abbandonata anche fisicamente l’aurorale primavera friulana e, volente o nolente, costretto a ri-collocarsi entro un orizzonte enormemente più vasto (non automaticamente più fecondo, come sovente accade in fenomeni del genere), inaugura proprio in quel decennio un doppio binario di ricerca, che prevede da una parte un’intensa produzione creativa in prosa e in versi, dall’altra una concomitante ricerca storico-letteraria e teoretico-letteraria, che funga da supporto e da stimolo all’altra. Forse soltanto Calvino e Fortini hanno come Pasolini, e press’a poco nel medesimo arco cronologico, così strettamente coniugato attività teorica e ricerca creativa, al punto da configurare con l’insieme dei loro scritti, dell’uno come dell’altro versante, un vero e proprio passaggio d’epoca, la cui portata è ancora da approfondire e descrivere. Un’analisi di questo genere su Pasolini porterebbe a vedere che quel che in lui si presenta in maniera voluta e appariscente come un’evoluzione e come un intero complesso di superamenti, meglio andrebbe considerato come un intreccio nel quale i vari momenti si corrispondono e spesso si confondono quasi senza soluzioni di continuità. Uno sguardo alle date confermerebbe questa opinione.

Prendiamo come base dell’elenco i saggi di Passione e ideologia: La poesia dialettale del Novecento, del 1952, è pressoché contemporanea del Romancero (1953) e de La meglio gioventù (1954), raccolte poetiche in lingua friulana, dei poemetti in lingua L’Appennino (1951) e Il canto popolare (1952-53), del romanzo in lingua ma di argomento friulano Il sogno di una cosa (1949-50, apparso soltanto nel 1962); Osservazioni sull’evoluzione del Novecento (1954), La poesia popolare italiana (1955), Pascoli (1955) s’accompagnano strettamente a L’umile Italia (1954), Le ceneri di Gramsci (1954), Quadri friulani (1955), e a Ragazzi di vita (1955); i quattro saggi fondamentali La posizione (apparso nel 1956 in «Officina», non ripubblicato in Passione e ideologia), Il Neosperimentalismo (1956), La confusione degli stili (1957), La libertà stilistica (1957), vengono scritti contemporaneamente a Recit, Il pianto della scavatrice, Una polemica in versi, Terra di lavoro (tutti del 1956) e preludono direttamente ai versi de La religione del mio tempo (1957-59) e de La ricchezza (1955-59).

Più sinteticamente si potrebbe dire che Pier Paolo Pasolini nel corso degli anni Cinquanta, e prescindendo dalla prosecuzione degli esperimenti in lingua friulana, più tipici di un periodo precedente, scrive contemporaneamente ben cinque libri: i versi delle raccolte poetiche Le ceneri di Gramsci (1957) e La religione del mio tempo (1961), le prose romanzesche-romanesche di Ragazzi di vita (1955) e di Una vita violenta (1959), i saggi poi compresi in Passione e ideologia (1960). Successivamente, con le «poesie incivili» (La rabbia. Il glicine, 1960) e soprattutto con l’insorgenza della passione per il cinema (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962), comincia un’altra stagione, contraddistinta da caratteristiche alquanto diverse, ma comunque anch’esse relazionabili con quelle
precedenti.

Naturalmente, poste le cose in questo modo, forte potrebbe essere la tentazione di considerare i saggi di Passione e ideologia l’asse portante di tutta questa ricca e complessa ricerca pasoliniana degli anni Cinquanta. Le relazioni ovviamente esistono, e una loro considerazione globale consentirebbe di cogliere in maniera molto precisa tutte le caratteristiche di un vero e proprio «sistema» in movimento. Si tratterebbe tuttavia di una lettura riduttiva dei saggi raccolti nel volume, e questo per due motivi: innanzi tutto, perché non è detto che tutta la produzione creativa contemporanea dello scrittore sia motivabile e spiegabile con analoga ricchezza di argomenti in base alle riflessioni teoriche ed estetiche contenute in Passione e ideologia (è il caso, mi pare, dei due romanzi romaneschi, Ragazzi di vita e Una vita violenta, concepiti un po’ lateralmente rispetto al discorso saggistico così incisivo e brillante); ma, in secondo luogo e soprattutto, perché i saggi di Passione e ideologia hanno una valenza così autonoma, sono così liberamente e creativamente scritti da non aver alcun bisogno d’essere appoggiati ad altro per poter essere letti con il felice godimento che produce un esperimento intellettuale in sé riuscito. Certo, le due letture di Passione e ideologia – una più relazionistico-storicistica e l’altra più autonoma, più attenta al valore saggistico in sé dei testi in questione – non si escludono reciprocamente. Ma se si dovesse mettere l’accento più sull’una che sull’altra, io
suggerirei senz’altro la seconda.

Aggiungerò ora un argomento a sostegno di questa preferenza, che è al tempo stesso un primo accesso alla tematica e alle caratteristiche più significative di questo libro. Con maggiore oggettività filologica e documentaria nei primi due grandi saggi (La poesia dialettale del Novecento, La poesia popolare italiana) e con maggiore evidenza in tutti gli altri, Pasolini scrive testi in cui il discorso storico e critico, rigoroso fino alla pignoleria, e la dichiarazione di personale poetica si presentano costantemente come le due facce della medesima medaglia, o meglio sono forse, miracolosamente, la stessa cosa. Pur non essendoci infatti mai o quasi mai nessuna tendenziosa torsione del discorso analitico in favore di quello propositivo e progettuale, tuttavia si direbbe che non c’è un solo punto di questi saggi in cui il Pasolini scrittore e poeta e quello critico e filologo non siano contemporaneamente presenti: effetto, a sua volta, di una precisa posizione di metodo.

Per il Pasolini di questi anni, infatti, è un puro e semplice dogma che la posizione di uno scrittore, e dunque anche la sua ideologia – quella reale, effettuale, anche se non sempre quella intenzionale e presunta – coincidano con la sua lingua e con il suo stile. Dunque, non solo a parte obiecti ma anche a parte subiecti, è vero per lui che non può esserci né innovazione né verità poetica, senza che queste si siano incarnate in una adeguata innovazione e verità linguistica. Nella prospettiva lunga marxismo e stilkritik, economia politica e analisi testuale sono destinate a incontrarsi e reciprocamente a illuminarsi delle loro rispettive e in sé parziali visioni del mondo. In pratica, però, Pasolini critico e poeta è tanto lontano da qualsiasi forma di sociologismo e di «prospettivismo tattico» quanto vicino e attento alle suggestioni di tutti i maggiori critici stilistici e linguistici contemporanei, da Auerbach a Devoto, da Spitzer a Curtius (un po’ disinvoltamente assimilato agli altri della lista) a, ovviamente, Gianfranco Contini, vero nume tutelare del giovane filologo e teorico non meno che, qualche anno indietro, del giovanissimo poeta. Continuamente ricorrenti in questi saggi pasoliniani i termini e i concetti di un loro tipico gergo – il «discorso indiretto libero», la koinè, il clic e lo Zirken im Verstehen di spitzeriana memoria, la separazione degli stili, l’espressionismo, la dilatazione semantica, il concreto-sensibile, ecc. ecc.

Molto più indiretta e lontana appare invece nei saggi di Passione e ideologia la lezione dell’altro grande maestro di metodo e di gusto del poeta negli anni giovanili, e cioè Roberto Longhi; lezione che riemergerà con tutta la sua forza ai tempi dell’esperienza cinematografica dello scrittore. Siamo qui di fronte, soprattutto, ad un Pasolini intellettuale e puro letterato, attentissimo agli artifici
della lingua e dello stile.

Ogni grande operazione poetica fa i conti, più o meno dichiaratamente, con una propria, personale questione della lingua. In Pasolini questo è talmente evidente da rendere possibile cogliere la travatura portante del suo esperimento quasi senza bisogno di ricorrere ad un qualsiasi supplemento d’indagine. E questo non soltanto perché egli cita un ben noto passo di Gramsci in forma esplicita («Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi»). Ma soprattutto perché per lui una nuova letteratura non può nascere in nessun modo con una vecchia lingua, come contemporaneamente cercavano invece di fare quei teorici e quegli scrittori del nazionalpopolare, i quali, in nome di un principio di facile comunicabilità, si adattavano ad utilizzare un italiano inteso «come lingua franca, koinè strumentale di uno stato ancora senza tradizione linguistica se non limitata alle élites aristocratiche», insomma «l’italiano della piccola borghesia che va al potere, della burocrazia…» (La confusione degli stili).
Quel che i saggi di Passione e ideologia ci fanno capire è dunque questa cosa, che riguarda la personalità e l’opera di Pasolini ben al di là del decennio Cinquanta, e cioè che per lui la questione della lingua è assai più che un mero problema di stile inteso in senso eminentemente calligrafico e letterario. Quando egli individua nella situazione italiana presente una rinascita di «bilinguismo» (o, meglio, «trilinguismo: dialetti negli strati popolari, koinè nella borghesia di recente formazione, gergo letterario nelle élites» [La confusione degli stili]), egli descrive in tal modo, con gli strumenti propri dell’analisi linguistica, una condizione peculiare, storica e profonda al tempo stesso, della nazione italiana nel suo complesso, e cioè la sua imperfetta e manchevole unità politica, e le crepe sociali non mai rimarginate, da cui essa è stata ed è tradizionalmente contraddistinta. Il «bilinguismo», dunque, prima che una teoria è un dato di fatto, una componente essenziale del vissuto, e come dato di fatto esplicita nella maniera più coerente un trauma storico e sociale, orizzontale e verticale, che fa dell’Italia, e della sua borghesia, qualcosa di diverso da tutte le altre nazioni e borghesie europee moderne. Se non se ne prende atto, e si parla o si scrive una lingua rappresentativa della fittizia unità conseguita da un piccolo gruppo dominante, anche se si è progressisti ci si comporta da reazionari.

Ma, al tempo stesso, il «bilinguismo» e/o la conseguente «confusione degli stili» è la rappresentazione più efficace e in qualche modo la verità più autentica di una realtà profonda, che il poeta si porta dentro e che lo spinge dolorosamente nella condizione «di scelta non compiuta, di dramma irrisolto per ipocrisia o per debolezza». Il «bilinguismo», cioè, è anche la forma espressiva più giusta e adeguata di una scissione interiore, viva anche sul piano sessuale, tra etica e piacere, volontà intellettuale e pulsione passionale. Il trauma, dunque, che si esprime attraverso la moltiplicazione delle lingue e degli stili, non è solo storico e sociale, è anche psichico e intellettuale, e comunque perfettamente individuale e personale. Pasolini «parla» due o tre o quattro lingue, alternativamente o confondendole nello stesso momento tra loro, perché è il suo essere che non si è risolto, non sa e non può risolversi (e identificarsi) in una sola voce.

Cerchiamo di vedere alcune delle conseguenze che scaturiscono da questa posizione.
È ovvio che l’attenzione al dialetto vi occupi tanta parte. Ma non tanto o non soltanto, come si crede, quale effetto di una esigenza di riproduzione fedelmente mimetica di quella parte della realtà italiana di cui l’imperfetta koinè nazionale non avrebbe potuto dare una rappresentazione veritiera. La riflessione pasoliniana sul dialetto, come del resto la sua pratica poetica in questo campo, hanno inteso mettere in rilievo soprattutto le autonome capacità espressive di questi rami «bassi» della lingua. È sempre sbagliato pronunciare giudizi troppo sicuri e risolutivi: ma a me pare che dopo Pasolini la situazione letteraria e poetica del dialetto non sia più stata in Italia quella che era prima, nel senso che i dialetti hanno potuto assurgere soprattutto per merito suo e sul suo esempio al ruolo di vera e propria «lingua poetica», fino al punto di non aver più bisogno del tradizionale circuito oralità-scrittura per potersi legittimare al livello più alto.

Il fenomeno recente e recentissimo (Loi, Scataglini, Giacomini), per cui alcune lingue poetiche dialettali sopravvivono e s’impongono con rilievo nazionale, pur in presenza di una progressiva decadenza delle corrispondenti comunità dei parlanti in dialetto, non sarebbe stato possibile senza l’altissima coscienza culturale indotta nei suoi principali protagonisti dell’esperimento pasoliniano e
dalla sua riflessione teorica.

L’altro discorso importante, che emerge dai saggi di Passione e ideologia, riguarda la tradizione poetica italiana in lingua del Novecento. Qui il discorso di Pasolini è nettissimo, e ben chiaro sia nelle sue sollecitanti indicazioni sia nelle sue altrettanto evidenti antipatie. Il suo collocarsi nel punto focale della più tipica frattura italiana (alto-basso, lingua-dialetto, centro-periferia), lo sollecita a respingere, da una parte, l’accomodamento (anche linguistico, come abbiamo visto) dei progressisti, dei nazionalpopolari orientati dal «posizionalismo tattico» bistrattato già da G. Lukács, dall’altra una poesia motivata da pura «elezione estetica», «frutto di un egoismo non più necessario» (Osservazioni sull’evoluzione del Novecento). Oltre il «novecentismo», oltre l’aristocraticismo ermetico – che cosa si poteva trovare per riprendere il discorso in forma nuova?

Per un certo verso, e quasi ovviamente, Carlo Emilio Gadda; ma per un altro, più inaspettatamente, e tuttavia con una ricchezza di motivazioni anche maggiori, Giovanni Pascoli. La recente ripubblicazione della sua tesi di laurea su questo poeta3 consente di seguire ancora meglio il suo percorso interpretativo. Del resto il saggio su Pascoli inaugura significativamente la prima serie di «Officina» (I, 1, 1955) ed ha pressoché il valore di un manifesto. Di Pascoli il giovane Pasolini coglie così bene il valore di profonda novità rispetto alla tradizione poetica italiana precedente da darne un ritratto che è quasi un autoritratto. Nel Pascoli, infatti, secondo lui «coesistono, con apparente contraddizione di termini, una ossessione, tendente patologicamente a mantenerlo sempre identico a se stesso, immobile, monotono e spesso stucchevole, e uno sperimentalismo che, quasi a compenso di quella ipoteca psicologica, tende a variarlo e a rinnovarlo incessantemente. In altri termini coesistono in lui, per quanto meglio ci riguarda, una forza irrazionale che lo costringe alla fissità stilistica e una forza intenzionale che lo porta alle tendenze stilistiche più disparate» (Pascoli). Pascoli, dunque, costituisce un ineliminabile punto di riferimento per una poesia che assuma su di sé, nuovamente, il peso del conflitto tra «forza irrazionale» e «forza intenzionale», tra «fissità stilistica» e «pluristilismo», tra l’«ossessione» che si pone comunque alla base e l’immensa pluralità delle sperimentazioni, che la varia e trasforma.

Il discorso di Pasolini su Pascoli, anche sul piano storico, si delinea con grande forza persuasiva. Non solo, infatti, la lezione pascoliana viene da lui colta ancora in atto in quasi tutti i fenomeni di maggior rilievo dell’esperienza poetica italiana del Novecento (si veda, ad esempio, il giudizio su Montale nel saggio del ’57). Ma, al tempo stesso, essa si presenta come il primo e fondamentale punto d’appoggio per quanti, scavalcando all’indietro il «novecentismo», vogliano recuperare in pieno il senso e la possibilità di una poesia al tempo stesso consapevolmente «decadent» e altamente «civile».
In vista di questo fine non sarà neanche da temere, secondo Pasolini, un provvisorio e forse rischioso passo all’indietro rispetto alle esperienze ultime.

Come scriverà un paio d’anni più tardi, in uno dei saggi più densi e più significativi dal punto di vista propositivo della raccolta, da questa predisposizione di fondo «deriva una, probabilmente imprevista, riadozione di modi stilistici pre-novecenteschi, o tradizionali nel senso corrente del termine, in quanto rientrati ormai naturalmente nei confini del linguaggio razionale, logico, storico, se non addirittura strumentale» (La libertà stilistica). Chi abbia presente il tono stilistico al tempo stesso alto e colloquiale, le soluzioni metriche tutte estranee al «paroliberismo novecentesco», il lessico spoglio ed essenziale, ma anche semplice e comunicativo, logorato dall’uso, dei poemetti de Le ceneri di Gramsci e de La religione del mio tempo, non avrà bisogno di molti esempi per capire il nesso esistente tra ricerca estetico-critica e produzione poetica nel Pasolini di questi anni.
In questa ricerca di nuovi nessi tra «logica» e «linguaggio», che stiano al di là del sublime novecentesco, consiste essenzialmente ciò che Pasolini chiama per sé «sperimentalismo», da non confondere con il «neo-sperimentalismo» dei più giovani (come è polemicamente sottolineato anche nella Nota conclusiva). È una posizione, dunque, in consonanza con quella pascoliana, – e al tempo stesso da questa ben distinta e polemicamente rinnovatrice. Capire bene questo punto consentirebbe di capire più esattamente la «posizione» pasoliniana, e al tempo stesso i suoi limiti.

Tornando indietro al Pascoli: «Il ‘plurilinguismo’ pascoliano… è di tipo rivoluzionario ma solo nel senso linguistico, o, per intenderci meglio, verbale: la figura umana e letteraria del Pascoli risulta dunque soltanto una variante moderna, o borghese nel senso moderno, dell’archetipo italiano, con incompleta coscienza della propria forza comunque innovativa» (Pascoli). In un’affermazione come questa c’è indubbiamente un aspetto contraddittorio rispetto all’affermazione dell’assoluta priorità del dato linguistico-stilistico, che pure occupa tanta parte della sua posizione in questi anni. Considerazioni analoghe si potrebbero fare, e forse ancor di più, a proposito di quello che Pasolini definisce il proprio «sperimentalismo». Infatti, una volta precisato il meccanismo in base al quale, come abbiamo visto, si rende necessaria «una… riadozione di modi stilistici pre-novecenteschi, tradizionali», Pasolini puntualizza che essi «si rendono mezzi di uno sperimentare che, nella coscienza ideologica, è assolutamente, invece, antitradizionalista: tale da mettere, con violenza, per definizione, in discussione la struttura e la sovrastruttura dello stato…» (La libertà stilistica). Lo «sperimentalismo» pasoliniano dunque «presuppone una lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura, nello spirito» (ib.), mentre, come abbiamo visto, «il ‘plurilinguismo’ pascoliano… è di tipo rivoluzionario ma solo in senso linguistico o, per intenderci meglio, verbale».

La differenza tra l’uno e l’altro sperimentalismo si colloca, dunque, sul terreno della «cultura», dello «spirito», e trova il suo epicentro nella persuasione che l’«istituzione linguistica», per poter essere radicalmente modificata, ha bisogno «in ultima analisi» di passare attraverso una catarsi ideologico-culturale (di cui lo schierarsi di Pasolini a favore della politica comunista, per quanto critico, costituisce la più appariscente manifestazione). Non dobbiamo avere nessuna riluttanza ad ammettere che in questo suo aspetto Pasolini riflette un dato costitutivo della cultura di sinistra e gramsciana di quegli anni: ben diverso discorso bisognerebbe fare, se si risalisse soltanto a qualche anno addietro, ai tempi del dispiegato, felicissimo, incondizionato esperimento poetico friulano.
 
Sarebbe fin troppo semplice ora rilevare la contraddizione presente nella posizione pasoliniana, il prezzo da lui pagato al «progressismo» dominante.

Semplice, ma al tempo stesso erroneo, e sicuramente ingeneroso. Fu uno degli errori tipici della critica dogmatica e ideologica proprio degli anni Cinquanta pretendere che uno scrittore non dovesse essere quello che, per ragioni non sempre astrattamente buone, aveva scelto di essere. Quell’errore non andrebbe oggi ripetuto. Ciò che possiamo dire senza tema di sbagliare è che i saggi di Passione e ideologia segnano, sul piano teorico ed estetico, il passaggio dal Pasolini elegiaco e decadente delle Poesie a Casarsa al Pasolini decadente e civile delle Ceneri di Gramsci. Anch’io mi son sorpreso recentemente, sulla base anche di una più completa conoscenza del primo periodo della sua attività quale ci è stata resa possibile attraverso la pubblicazione di inediti e la ristampa di scritti poco noti, a pensare quale straordinario poeta formalistico, mistico ed estetizzante, sarebbe stato Pier Paolo Pasolini se non avesse incontrato ad un certo punto sul suo cammino la «figura» prorompente e «positiva» della Cultura Progressista e se non avesse voluto, da delizioso e sofferto scrittore di mitologie e linguaggi periferici e provinciali, farsi scrittore «nazionale», vate di eventi auspicabili e fustigatore di vizi italiani ben noti e tuttavia continuamente rinnovellantesi. Mi sono però chiesto al tempo stesso se anche questo non sia un modo un po’ astratto e velleitario di ragionare. Il «destino» di Pasolini fu quello di incontrare con il suo trepido lirismo e la sua incoercibile pulsione di morte il flusso della storia, il pullulare ricco, eroico e miserabile delle tante vicende umane che lo circondavano, mute o almeno silenziose, in attesa della voce del poeta che avrebbe dato anche a loro una voce. Ben lontano dal collocarsi nell’ambito della cultura progressista come uno dei tanti, egli tuttavia pretese (memorabile in questo senso una sua polemica con gli ideologi del Contemporaneo») che gli fosse riconosciuto un suo posto, autonomo e critico, in quel campo. Aver voluto, se non mettere d’accordo, far viaggiare consensualmente su questo duplice binario della sua ricerca intellettuale e poetica Antonio Gramsci e Gianfranco Contini, non può essere considerato una bizzarria: al massimo una scommessa assai impegnativa, nella quale il poeta, del resto, ebbe ad impegnare assai di più che la sua semplice vocazione professionale (o «professionistica»).

Se di «contraddizione», dunque, dovrà nel suo caso parlarsi, non la si dovrà intendere – un po’ naïvement – come discordanza, incoerenza, tra il suo mondo oscuro e quello luminoso e intellettuale, tra la sua passione e la sua ideologia: ma come consapevole, sofferta accettazione di una condizione di «non-scelta», di «una indipendenza che costa terribilmente cara» (La libertà stilistica), di una libertà «senza fine dolorosa, incerta, senza garanzie, angosciante» (ib.). È la medesima situazione che Pasolini rappresentò così bene nelle Ceneri di Gramsci (il poemetto): «… lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere…».

«Contraddizione» e «sperimentazione» non sono dunque nient’altro che le due facce, – l’una storico-ideologica, l’altra linguistico-stilistica, – della «posizione» pasoliniana, strettamente, anzi indissolubilmente congiunte fra loro.

Soprattutto bisogna capire che per lui la «sperimentazione» è l’arte di mettere in versi e in prosa la «contraddizione». Si potrebbe dire che, così facendo, Pasolini accetta fin da allora, fin dai lontani, operosi e tutto sommato «positivi» anni Cinquanta, di «mettere a rischio» la parte più delicata e indifesa della sua personalità. Invece di rinchiudersi nella rassicurante turris eburnea di un estetismo senza dubbi, il poeta sceglie di sperimentare tutta la durezza del contatto, del confronto, del conflitto, dell’aspra contesa con il mondo. Negli anni Cinquanta in prospettiva ancora positiva: in seguito, in maniera sempre più sconsolata, e poi sempre più disperata, fino alla tragica uscita di scena di vent’anni dopo. Ma le radici della contraddizione affondavano fin dall’inizio in quest’humus ricco e fecondo, in questa scommessa senza reti, che il poeta aveva accettato di giocare nel momento in cui era uscito – e sarebbe stato per sempre – dal suo guscio di ragazzo ingenuo e buono: in questa, per l’appunto, sofferente e vitale e scomodissima «passione – e – ideologia».

ALBERTO ASOR ROSA

(1964)


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Curatore, Bruno Esposito

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