Tratto da:
In the Theater of my Mind:
Authorship, Personae, and the Making of Pier Paolo Pasolini’s Work
Gian-Maria Annovi
Submitted in partial fulfillment of the
requirements for the degree of
Doctor of Philosophy
in the Graduate School of Arts and Sciences
COLUMBIA UNIVERSITY
2011
© 2011
Gian-Maria Annovi
Pasolini tra d’Annunzio e Pound
Una delle costanti negli studi sull’opera di Pasolini è il parallelo tra la sua figura e quella di Gabriele d’Annunzio, tanto frequente quanto scarsamente approfondito. Le ragioni di questo parallelo sono molteplici e riguardano in buona parte il modello autoriale che Pasolini è arrivato a incarnare e la sua ingombrante presenza nella cultura italiana del secondo Novecento, pari, appunto, solo a quella dell’“immaginifico”(1) tra fine Ottocento e inizio secolo, uno “scrittore-divo che fa parlare di sé in un crescendo di visibilità.”(2)
Nonostante d’Annunzio sia certamente uno degli autori fondamentali del secolo scorso, nel caso di Pasolini la sua figura autoriale viene impiegata, salvo rare eccezioni, come termine di confronto negativo. Se Alberto Moravia, ad esempio, vede Pasolini come “un grande manierista, forse il maggiore della nostra letteratura dopo d’Annunzio,”(3) Giorgio Bàrberi Squarotti, come Franco Fortini prima di lui, ricorre in vari interventi al nome del vate italiano per antonomasia come esempio negativo del tipo di estetismo decadente rinvenibile anche nella poesia pasoliniana.(4)
Chi ha assunto il termine estetismo nella sua accezione negativa, muove dalla posizione di supposta superiorità del tipo di discorso che – a partire dalla fine dell’Ottocento – ha cercato di emancipare la poesia dall’io poetico. Per d’Annunzio, infatti, come ha scritto Ezio Raimondi, che pure ha collocato lo scrittore nell’ampio movimento del Simbolismo europeo, la letteratura resta essenzialmente “rito narcisistico, una celebrazione dell’io assoluto.”(5 )Da questa prospettiva, raccolte come La religione del mio tempo, L’usignolo della Chiesa cattolica, o Le ceneri di Gramsci, dominate come sono dalla presenza ingombrante dell’io pasoliniano, un io-autore-personaggio che ingloba a sé e alla propria esperienza biografica e psicologica la realtà, sia essa sociale o politica, coinvolgendo il lettore in una lettura del reale che non può prescindere dalla propria figura, non possono che giustificare il paragone con d’Annunzio. L’estetismo che accomuna i due autori si esplicherebbe dunque in opere solo apparentemente differenti, che in realtà costituiscono un unico continuum poetico, dove mutano “solo le forme, non i messaggi.”(6)
Si tratta di una notevole semplificazione critica che certo meriterebbe attenzione.
Qui basti però notare che anche Pasolini se ne serve nella sua rappresentazione di d’Annunzio, ritratto come un “amanuense dedito a una interminabile e pedante copia di un suo libro ideale.”(7) Nel leggere l’esperienza poetica dannunziana in questi termini, termini che falsano un’opera in realtà assai complessa e variegata (si pensi solo all’esperienza parafuturista del Notturno), Pasolini mostra però anche una decisa presa di distanza dal modello cui la critica vorrebbe farlo rientrare: “la famosa abilità artigiana di d’Annunzio non consiste in realtà in nient’altro che nel saper creare oggetti in serie tutti uguali, tratti da un unico modello originario.”(8) Lo scrittore-regista evidenzia così un aspetto che lo colloca ad estrema distanza dalla poetica dannunziana, vale a dire il culto della forma, che può esercitarsi solo con una fiducia totale nell’istituzione letteraria.
L’ambizione di d’Annunzio, autoproclamatosi “ultimo figlio degli Elleni,”(9) è infatti quella di creare, nel suo studio-officina in cui figurano copie scultoree dei cavalli di Fidia, opere perfette, che ambiscono a divenire dei classici, mentre Pasolini – soprattutto da un certo momento in poi della sua carriera – mostra una sempre crescente ostilità per la forma compiuta e soprattutto per lo stile, come dimostrano le pagine “illeggibili” di Petrolio e opere quali La divina mimesis, Poesia in forma di rosa, ma soprattutto Trasumanar e organizzar, letto proprio dall’autore, nella sua auto-recensione, come “accettazione totale della letteratura – rifiuto totale della letteratura.”(10) In Trasumanar, infatti, Pasolini mette in scena il senso di sconfitta dell’istituzione letteraria rispetto al presente e denuncia in particolare la mancanza di funzione della poesia, percepita come puramente autoreferenziale: “io conosco, e ormai voglio, l’inutilità di ogni parola.”(11) Siamo insomma agli antipodi di quanto d’Annunzio dichiara nei versi de L’Isotteo (“O Poeta, divina è la Parola; / ne la pura Bellezza il ciel ripose / ogni nostra letizia; e il Verso è tutto”),(12) fatti poi pronunciare, tramite una pratica transtestuale del tutto simile a quella pasoliniana, dal protagonista de Il piacere, Andrea Sperelli, uno degli alter ego dell’autore.(13) Anche in un’intervista con Marco Blaser, realizzata per la televisione svizzera nel 1969, alla domanda sulla funzione dello scrittore, Pasolini risponde che “scrivere è una cosa completamente priva di senso” e che essere scrittore è di per sé ormai inutile, al di là del valore “esistenzialistico.”(14) Come ha scritto Siti in un saggio del 1989, è dunque fuorviante considerare Pasolini come uno scrittore esteta sul modello dannunziano, poiché “mentre l’esteta cerca di realizzare nella propria vita l’infinito possibile dell’arte, Pasolini sente piuttosto l’impotenza dell’arte, di fronte a una realtà che si ricompone compatta, micidiale.”(15)
Ciononostante, anche Umberto Eco, in una trasmissione radiofonica della BBC del 1984, ha riproposto il parallelo d’Annunzio-Pasolini all’insegna di un estetismo totalizzante:
what was common to both was the total aestheticism – the identification of their private life with their poetry and their source of inspiration. Even there, the difference is blatent: d’Annunzio lived in beautiful houses – made Egyptian monuments to himself and Pasolini loved, on the contrary, the cabins and the shabby houses of the proletariat. But there was this same sense of global aestheticism.(16)
Lungi dall’indagare nello specifico testuale i legami certamente profondi tra i due autori, tanto profondi che – come ha scritto Paolo Valesio – Le ceneri di Gramsci “is unthinkable without d’Annunzio’s Laudi in general, and in particolar, without the precedent constituted by the great sequence of poems Le città del silenzio,”(17) il suo presunto dannunzianesimo, invece di rivelare un grande “authorial palimpsest,”(18) assume piuttosto, e più di frequente, il carattere dell’accusa, un’accusa che si rivela però come una conferma del tipo di dispositivo autoriale delineato in questa ricerca: “lo spettro di d’Annunzio,” infatti, diventa l’immagine “dell’indissolubilità di autore e opera.”(19)
Quando Fortini sostiene che Pasolini “ha recitato la parte di d’Annunzio,”(20) di fatto non si riferisce tanto al suo utilizzo di un modello letterario, ma autoriale.
L’obiettivo della critica di Fortini è l’autorialità spettacolare di Pasolini, la sua figura pubblica, la sua presenza all’interno della società italiana e in particolare il suo intenso rapporto con l’industria culturale e i mezzi di comunicazione. Secondo lo scrittore, Pasolini ha creduto, come d’Annunzio, “di poter cavalcare una dopo l’altra tutte le tigri del potere comunicativo,”(21) un’accusa mossagli da più parti e contro la quale Pasolini ha sempre dovuto misurarsi, problematizzando – come già s’è visto – il proprio ruolo ma anche la propria funzione d’intellettuale. Sia d’Annunzio che Pasolini sono andati all’assalto di media, mercato editoriale, palcoscenico e schermo; sono stati entrambi abilissimi sperimentatori di generi e forme letterarie e extraletterarie: la loro attività non si è mai limitata al romanzo e alla poesia, ma ha incluso – ad esempio – anche il teatro, affrontato con piglio innovatore.(22)
Secondo il regista Luca Ronconi, cui si deve la prima messa in scena di Calderòn, pur con le dovute differenze legate soprattutto alla concezione della scena, “il teatro di tutt’e due [d’Annunzio e Pasolini] è un teatro in cui il parlato non è fatto per stabilire un rapporto intersoggettivo tra i personaggi, ma è fatto per arrivare direttamente all’orecchio dello spettatore in platea.”(23) Non a caso, l’unico modello italiano moderno a cui Pasolini poteva rivolgersi per il suo teatro borghese in versi, non poteva che essere d’Annunzio, sotto il cui magistero scrive – già nel 1938 – un dramma intitolato La sua gloria, “una rilettura polemica”(24) della tragedia dannunziana La gloria (1899). Nonostante il giovanissimo Pasolini si mostri già parecchio critico rispetto al vitalismo espresso in quella tragedia, la gloria del titolo rappresenta il desiderio del protagonista – ennesima proiezione autobiografica dell’autore, tanto che il suo nome è quello del fratello Guido – di diventare poeta e patriota. Pasolini, insomma, nemmeno ventenne, non è lontano dall’ideale dannunziano di poeta vate, interprete e profeta del proprio tempo, cui la sua figura sarebbe poi stata indissolubilmente legata nell’immaginario comune dopo la sua morte.(25)
Anche Enzo Siciliano ha sottolineato come prima di Pasolini proprio “d’Annunzio seppe utilizzare i mezzi di comunicazione di massa allo scopo di divulgare la propria immagine di scrittore, anche facendo oltraggio al galateo dei tempi suoi.”(26) D’annunzio è infatti il primo scrittore italiano che vede le sue tragedie trasposte sul grande schermo (La Gioconda, La Nave, La fiaccola sotto il moggio, La figlia di Jorio), e nel 1914 partecipa direttamente alla realizzazione del kolossal Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, un successo internazione senza precedenti per l’Italia d’allora. Come dimostra la sua corrispondenza, pur considerando il cinema come un’industria al servizio dell’“esecrabile” gusto del pubblico, d’Annunzio ne intuisce subito le possibilità creative e soprattutto le potenzialità per la diffusione internazionale della propria immagine,(27) un’immagine che non esita a sfruttare anche in senso commerciale. Crea infatti una propria linea di profumi, Acqua Nunzia, fa da testimonial per l’Amaro Montenegro e l’Amaretto di Saronno, e conia il nome Saiwa per un’ancora oggi nota marca di biscotti, gli stessi che – intervistato durante le riprese di Salò – Pasolini definisce “merda,” esprimendo la sua feroce critica al sistema dei consumi, dove appunto i produttori costringono consumatori – come i libertini del suo film – a mangiare escrementi.(28)
Nonostante Pasolini non abbia mai associato alla propria immagine, come d’Annunzio, la cultura del consumismo e anzi, tramite l’identificazione con Marylin Monroe, abbia denunciato le insidie della celebrità, entrambi hanno saputo sfruttare per fini promozionali i divi dell’epoca: così come Pasolini sceglie Welles, Magnani e Callas per dare rilievo internazionale ai propri film, d’Annunzio attira l’attenzione del pubblico europeo grazie a Eleonora Duse e Ida Rubinstein. È forse però nella loro presenza costante su giornali e rotocalchi e nell’abilità estrema nell’utilizzare lo spazio concessogli per divulgare una ben confezionata immagine di sé e allo stesso tempo per elaborare forme d’intervento pubblico uniche nel loro genere che si ritrova la maggiore affinità.
Come scrive Schwartz, nella sua imponente biografia pasoliniana, confermando quando il parallelo tra i due scrittori abbia fatto presa nell’immaginario collettivo, gli articoli di Pasolini pubblicati su il “Corriere della Sera” diventano ben presto “il fenomeno più chiacchierato del giornalismo italiano dai tempi di quelli di d’Annunzio che nel 1915, per lo stesso quotidiano, invitavano all’interventismo nella Grande Guerra.”(29)
Certamente, mentre d’Annunzio poteva contare – nonostante una notevole quota di anticonformismo – sul generale appoggio da parte della società dell’epoca, tanto da inspirare in seguito anche un certo timore in Mussolini, che lo relega all’esilio dorato del Vittoriale, gli interventi di Pasolini, pur pubblicati sul più grande giornale della borghesia italiana, sono gli interventi di un poeta senza mandato sociale, che vuole scandalizzare e provocare i suoi destinatari, e che assume il ruolo che mai d’Annunzio ha voluto rivestire: quello della vittima della cultura dei suoi stessi lettori. Tuttavia, come ha abilmente sintetizzato Tricomi, sia d’Annunzio che Pasolini utilizzano la propria presenza mediatica nel “tentativo di imporre al pubblico e di sovrapporre alle opere, anche a scapito di queste […] la propria figura di autore e di vate, se non addirittura di profeta. Il tentativo, quindi, di farsi personaggio e anzi icona.”(30) Un’icona con cui il
pubblico s’identifica, fino all’idolatria, nel caso di d’Annunzio; un personaggio scomodo, contestato e attaccato persino dagli amici in quello di Pasolini.
Quanto quest’ultimo abbia però saputo giocare in pubblico con la propria immagine, inglobando anche le critiche che gli venivano rivolte, lo dimostra molto bene un brano pubblicato proprio sul “Corriere” all’inizio di quello straordinario “trattatello pedagogico”(31) – poi inserito in Lettere luterane – rivolto a un giovane napoletano immaginario chiamato Gennariello:
Ciò che attraverso la gente hai saputo di me si riassume eufemisticamente in poche parole: un scrittoreregista, molto “discusso e discutibile”, un comunista “poco ortodosso che guadagna dei soldi col cinema”, un uomo “poco di buono, un po’ come d’Annunzio.”(32)
Questo riferimento a d’Annunzio merita davvero attenzione nell’ambito di questa ricerca, perché nonostante la critica insista nel ricercare affinità tra le due figure, Pasolini non lo ha mai in realtà considerato come un modello autoriale su cui modellare la propria immagine, come invece nel caso di Dante, Boccaccio o Chaucer. Al contrario, in quel “poco di buono,” si legge un malcelato disprezzo. Il giudizio pasoliniano su d’Annunzio, infatti, non è tanto estetico-letterario, ma morale, e chi lo accusa di essere come lui, lo fa con una simile pregiudiziale ideologica.
Nell’Italia degli anni ’60 e ’70, percorsa da una fortissima contrapposizione tra le forze politiche, il nome di d’Annunzio è ancora associato primariamente alla sua adesione al fascismo.(33) Per questa ragione, lo stesso Pasolini, nel 1960, gli riserva giudizi durissimi sulle pagine di “Vie nuove,” rispondendo alla lettera di un lettore che gli chiede solidarietà in merito a una petizione contro la realizzazione di un monumento a d’Annunzio in Friuli. Se tutta la sua opera, incluso quel museo delle muse e del genio individuale che è il Vittoriale, era stata in fondo il tentativo di costruire un gigantesco monumento d’autore, il giudizio di Pasolini, che ritiene l’iniziativa “una cosa mostruosa,” non può che assumere una rilevanza simbolica. Per Pasolini, ben lungi dall’essere un modello cui ispirarsi, infatti, “d’Annunzio è stato un pessimo poeta, oltre che un pessimo cittadino,” un caso di “decadentismo provinciale,” e l’impresa di Fiume una “pagliacciata narcissica.”(34)
Basta questo per capire come la posizione pasoliniana sia profondamente moralistica, e dettata proprio dall’associazione di d’Annunzio con il regime di Mussolini, con la sua retorica e la sua ideologia. Non ne fa per altro alcun mistero anche quando, nel 1974, recensisce l’antologia dannunziana curata da Roberto Ducci e intitolata D’Annunzio vivente. In quell’occasione ripete che il suo giudizio sullo scrittore “è un giudizio del tutto negativo”(35) e che in esso agiscono “la direttrice politico-ideologica e la direttrice moralistica.”(36) Secondo la prima, d’Annunzio “ha fatto propria acriticamente e faziosamente la peggior ‘ideologia inconscia’ del mondo borghese italiano,” ossia il fascismo, per la seconda la sua psicologia sarebbe caratterizzata da “aridità, cinismo, superficialità, faciloneria, ipocrisia, prepotenza, eccetera.”(37) Sembrano giudizi tanto faziosi quanto irremovibili, non certo dettati da una volontà di considerare il valore storico-letterario dell’opera dannunziana. Colpisce allora che nello stesso articolo, Pasolini si lanci inaspettatamente nella lode sperticata di un passo di appena trenta righe da Allegoria dell’Autunno (1895), il discorso inaugurale preparato da d’Annunzio per la prima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, l’attuale Biennale, un testo fondamentale per la successiva scrittura de Il fuoco, dove Allegoria è trasposta nel discorso di Stelio Effrena nella Sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale.(38) Il passo che cattura l’attenzione di Pasolini è una descrizione del Concerto di Vittore Carpaccio:
“sarebbe poco dire che esse sono le più belle [trenta righe] di D’Annunzio. Bisogna dire che sono sublimi, e solo Sandro Penna ne ha scritte di uguali.”(39)
Poiché considerava Penna come “il più grande poeta”(40) italiano, il giudizio espresso sul passo di d’Annunzio risulta ancor più sorprendente, una sorpresa mitigata solo dal fatto che il brano è antologizzato in un capitolo dedicato alla presunta omosessualità dannunziana. Il questo capitolo il curatore raccoglie alcuni testi come Invocazione, che Pasolini vede come rappresentazione “travesti” di un coito orale, e altri testi al cui centro si trovano “semplici fanciulli […] sotto forma di pastorelli non del tutto irrealistici.”(41) Secondo il recensore, “in tutte le pagine dannunziane il lettore indovina sempre dove l’autore vuole andare a parare: tutto è subito scontato […] Nelle poesie erotiche omosessuali il lettore invece, per la prima e unica volta, si trova a non sapere dove d’Annunzio voglia andare a parare.”(42) È l’omosessualità a interessarlo, qualcosa che lo riguarda da vicino. Non sono però i pastorelli a colpirlo, ma piuttosto il “ragazzetto vero, in carne e ossa, che – nel frammento di Allegoria dell’autunno – oppone se stesso, con tutta la grazia e la violenza della sua età, ai due altri personaggi, uno vecchio e uno non più giovanissimo.”(43) È facile riconoscere in questo ragazzetto lo spettro della miriade di giovani che s’incontrano nell’opera pasoliniana.(44) Spettro in quanto, nel ’74, per Pasolini ormai “la ‘realtà’ dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico” fino al punto da dichiarare, nella sua “Abiura dalla ‘Trilogia della vita’,” scritta a pochi mesi di distanza dalla recensione dannunziana, il suo odio per i corpi “dei nuovi giovani e ragazzi italiani, degli organi sessuali dei nuovi giovani e ragazzi italiani.”(45)
Nel corpo del “ragazzetto vero” di d’Annunzio, Pasolini ritrova insomma l’ideale perduto di quella Meglio gioventù al centro della sua raccolta friulana, riscritta e pubblicata come Nuova gioventù quello stesso anno, quando ormai “non si trova più un ragazzo con la guancia liscia e il bel ciuffo spettinato.”(46) Che Pasolini stia qui per la prima volta stabilendo un rapporto in qualche modo proiettivo tra d’Annunzio e sé stesso, lo prova anche il riferimento al fatto che l’omoerotia dannunziana si eserciterebbe “su bellissimi (e realisticamente bellissimi) giovani morti – morti di una morte violenta,”(47) proprio come nel caso de Il nini muàrt (Il fanciullo morto), che rappresenta la figura generante di tutta la poesia friulana di Pasolini, e immagine stessa di un eros vissuto con difficoltà e senso di colpa.
L’omosessualità repressa di d’Annunzio, la sua “omoerotia inconscia,”(48) è il dato che secondo Pasolini inficia la portata realmente scandalosa della sua opera e proprio questa rimozione ne avrebbe decretato anche l’indirizzo politico. Pasolini non sta insomma solo confermando nuovamente quanto aveva già sostenuto ne “Il cinema impopolare,” vale a dire la sua convinzione che il compito dell’autore sia quello di scandalizzare, e che l’esibizione di sé sia sempre di per sé un atto anti-conservatore, ma anche quanto in questo disegno assuma valore la propria omosessualità, vista non più come qualcosa da indagare o da nascondere, come era avvenuto anni prima con Comizi d’amore, ma come parte integrante della propria poetica autoriale e della propria posizione politica.
Nonostante la parziale simpatia per il d’Annunzio omoerotico, la pregiudiziale ideologica sembra non poter che precludere il rapporto con un autore considerato come espressione della cultura conservatrice di Destra. Questa rigidità pasoliniana è in realtà solo apparente. Il suo rapporto con un altro importante poeta, a sua volta associato al fascismo, Ezra Pound, mostra come Pasolini sia in realtà capace di scavalcare determinate barriere ideologiche e sfruttare la figura del poeta americano per un complesso processo di proiezione autoriale, fondata proprio sulla ‘scandalosa’ posizione ideologica da lui incarnata.
Note
1 È il termine che D’Annunzio attribuisce a uno dei suoi alter ego, Stelio Effrena, il protagonista del romanzo Il fuoco (1900).
2 Annamaria Andreoli, D’Annunzio (Bologna: Il Mulino, 2004), 93.
3 Alberto Moravia, Al cinema (Milano: Bompiani, 1975), 210.
4 Giorgio Barberi Squarotti, Poesia e narrativa nel secondo Novecento (Milano: Mursia, 1978); "L’anima e la letteratura: il teatro di Pasolini," Critia Letteraria, VIII 29 (1980); "La poesia e il viaggio a ritroso nell’Io," Pier Paolo Pasolini. L’opera e il suo tempo, a cura di G. Santato (Padova: Cleup, 1983).
5 Ezio Raimondi, Il silenzio della Gorgone (Bologna: Zannichelli, 1980), 87.
6 Squarotti, "La poesia e il viaggio a ritroso nell’Io," 219.
7 Pasolini, "D’annunzio vivente," SLA, Vol. II,1987.
8 Ivi, 1986.
9 "Io son l’ultimo figlio degli Elleni: / m’abbeverai alla mammella antica; / ma d’un igneo dèmone son
ebro," D’Annunzio, ‘La Vittoria Navale,’ Versi d’amore e di gloria, Vol. II, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini (Milano: Mondadori, 1982), 576.
10 Pasolini, "Pasolini recensisce Pasolini," SLA, Vol. II, 2579.
11 Pasolini,"Il Gracco," Trasumanar e organizzar, TP, Vol. II, 61.
12 Gabriele D’Annunzio, "Epodo," Versi d’amore e di gloria, Vol. I, , 454.
13 Abilissimo creatore della propria immagine pubblica, d’Annunzio è stato pioneristico anche nell’utilizzo della fotografia, tanto da farsi ritrarre in veste di Andrea Sperelli, con la caratteristica gardenia all’occhiello, nell’atto di leggere Il piacere. Recentemente, Bazzocchi ha collegato le foto di Pedriali che ritraggono Pasolini nudo al celebre ritratto naturista di d’Annunzio sulle spiagge della Versilia (Cfr. Marco Antonio Bazzocchi, "Pasolini ritratto da Pedriali," Doppiozero,
http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/pasolini-ritratto-da-dino-pedriali)
14La trascrizione della trasmissione Lavori in corso, realizzata da Marco Blaser nel 1969 per la RTSI Svizzera italiana, si trova presso il Fondo Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna.
15 Walter Siti, "Il sole vero e il sole della pellicola, o sull’espressionismo di Pasolini," Rivista di letteratura italiana, 1 (1989): 127.
16 Anche la trascrizione della trasmissione A Desperate Vitality, realizzata da BBC-Radio 3 il 26 Agosto 1984 è conservata presso il Fondo Pier Paolo Pasolini.
17 Paolo Valesio, "Pasolini as Sympton," Gabriele D'Annunzio: The Dark Flame (New Haven, Conn.: Yale University Press, 1992), 171.
18 Ivi, 169.
19 Carla Benedetti, Il tradimento dei critici (Torino: Bollati Boringhieri, 2002), 132.
20 Franco Fortini, Attraverso Pasolini (Torino: Einaudi, 1993), 43.21 Ivi, 41.
22 Se, nonostante il suo Manifesto per un nuovo teatro, Pasolini non ha impresso alcuna svolta significativa al teatro italiano, D’Annunzio "fu il primo a intuire la crisi del grande attore e a utilizzarla accortamente a suo vantaggio. Seppe allora far recitare il silenzio, mettere in scena le ombre, trasformare lo spazio in personaggio[…] montare spettacoli della durata di otto ore. Rivoluzionò le categorie della percezione teatrale, modernizzando il tragico e creando l’esigenza di un teatro riscritto per il palcoscenico," Granatella Laura, Arrestate l’autore! D'Annunzio in scena. Cronache, testimonianze, illustrazioni, documenti inediti e rari del primo grande spettacolo del '900 (Roma: Bulzoni, 1993), 11.
23 Luca Ronconi, "Un teatro borghese," Pasolini, TR, XVI.
24 Stefano Casi, "Prime considerazioni su La sua gloria," A.A.V.V., Su Pier Paolo Pasolini con il testo inedito La sua gloria (Bologna: Pendragon, 1996),74.
25 Si veda Achille Bonito Oliva, "Pasolini e la morte," P. P. Pasolini. Organizzar il trasumanar, a cura di G. Zigania e C. Steinle (Venezia: Marsilio, 1999).
26 Enzo Siciliano, Vita di Pasolini (Firenze: Giunti, 1995), 277.
27 Massimo Cardillo, "D’annunzio e il cinema," Tra le quinte del cinematografo: cinema, cultura e società in Italia 1900-1937 (Bari: Edizioni Dedalo, 1987), 47-60.
28 Pasolini, "De Sade e l’universo dei consumi," PC, Vol. II, 3021.
29B. D. Schwartz, Pasolini requiem (Venezia: Marsilio, 1995), 868.
30 Antonio Tricomi, Pasolini: gesto e maniera (Soveria Mannelli: Rubettino, 2005), 93. Sull’importanza del personaggio d’Annunzio, si veda D'Annunzio come personaggio nell'immaginario italiano ed europeo (1938-2008), a cura di Luciano Curreri (New York: Peter Lang, 2008).
31 Pasolini, "Paragrafo primo: come ti immagino," Lettere luterane, SPS, 551.
32 Pasolini, "Paragrafo secondo: come devi immaginarmi," ivi, 555.
33 Cfr. Raimondi, 88.
34 Pasolini, "Un monumento a d’Annunzio," SPS, 916-17,
35 Pasolini, "D’annunzio vivente," 1984.
36 Da questo punto di vista Pasolini si mostra assai meno intransigente della critica su d’Annunzio fiorita intorno alla metà degli anni Settanta grazie all’opera, tra gli altri, di Eurialo de Michelis, Emilio Mariano, Pier Vincenzo Mengaldo e Ezio Raimondi, autori che tendono a separare il giudizio circa lo sperimentalismo dannunziano e la sua figura storico-politica. Si tratta di una tendenza dominante tutt’oggi, discussa in una prospettiva di sintesi e superamento da Paolo Valesio nel suo The Dark Flame, cit.
37 Pasolini, "D’annunzio vivente," SLA, Vol. II, 1984.
38 Cfr. Gino Damerini, Venezia e d’Annunzio (Milano: Mondadori, 1943).
39 Pasolini, "D’annunzio vivente," SLA, Vol. II, 1988.
40 Pasolini, "Quasi un testamento," SPS, 855.
41 Pasolini, "D’annunzio vivente," SLA, Vol. II, 1987.
42 Ivi, 1986-87.
43 Ivi, 1990.
44 Per questa questione rimando al mio "Un raduno di altri," Altri corpi. Poesia e corporalità nella poesia degli anni Sessanta (Bologna: Gedit, 2008), 13-50, e al saggio di Dario Trento, "metamorfosi dei ragazzi pasoliniani," Desiderio di Pasolini. Omosessualità, arte e impegno intellettuale, a cura di Stefano Casi (Torino: Sonda, 1990), 61-98.
45 Pasolini, "Abiura dalla Trilogia della vita," SPS, 601.
46 Pasolini, "Variante," TP, Vol. II, 400.
47 Pasolini, "D’annunzio vivente," SLA, Vol. II, 1988.
48 Ivi, 1988.
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