"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Le vie nuove della
Macciocchi
di PIERSANDRO
VANZAN
Giornalista con una grande esperienza
alle spalle, spiega perché è nato il premio "Pimentel", che quest’anno andrà
alla memoria di Maria Grazia Cutuli. In Europa le donne sono «trattate come una
ricchezza», mentre in Italia «non è stato e non è così». Tra i suoi ricordi
affiora la presentazione del "Vangelo" di Pasolini a Parigi, con l’aiuto di
Sartre.
Nella sua lunga attività ha avuto missioni in prima linea. Si è mai sentito il nemico addosso, come la povera Maria Grazia?
«Ho compiuto missioni difficili. Nell’Algeria in guerra contro i francesi, dove arrivai pericolosamente attraversando la frontiera tunisina. Allora partii, ricordo, perché tutti gli inviati uomini – era agosto – erano in ferie, e io ero la sola disponibile per raggiungere Algeri. Lì trovai il leader Ben Bella, appena uscito dalle carceri francesi. Mi accordò un’intervista che fece il giro del mondo. Ero già stata in Iran, che era in guerra contro gli inglesi per il possesso del petrolio, allora nelle mani dell’Anglo-Iranian Company. Sparatorie e violenta repressione delle manifestazioni. Sull’avventura persiana scrissi il mio primo libro: Persia in lotta. Rientrata a Roma dall’Algeria, mi spedirono a Parigi, profittando dell’entusiasmo che avevano suscitato nella sinistra francese il mio incontro con Ben Bella e la mia azione nella guerra algerina anticolonialista. Con il lavoro a Parigi persi la direzione di Vie Nuove. Quando espressi qualche perplessità nell’abbandonare Roma e la famiglia, il direttore mi disse una frase che non ho mai dimenticato: "Le giornaliste non hanno famiglia". Il che è triste ma vero, almeno da noi. Stavo a Berlino nelle ore in cui i sovietici tiravano su il Muro. Sola in un alberghetto. Da Parigi, su iniziativa di Simone de Beauvoir, partii per l’Iran, dove Khomeini si era impadronito del potere, imponendo alle donne un’autorità religiosa feroce, che le obbligava a rimettere il velo e ad abbandonare i posti pubblici, la televisione per prima. Poi mi recai a Qom, la città sacra, per incontrare Khomeini: sfidando le sue furie, gli portai il messaggio di condanna delle donne francesi. A Qom, due giorni prima, erano state lapidate dalla folla due giornaliste inglesi».
Ritmi incredibili! Come riusciva a farcela?
«Era la grande passione! E la mia dedizione a quell’ideale: conoscere e far conoscere; dire le cose come stanno. Quando tornai a Parigi, da Qom, fu il tempo delle Br, che mi minacciarono di morte per l’articolo scritto su Le Monde contro il rapimento di Moro. La dissidenza, idea luminosa nel secolo delle ideologie sedotte dai totalitarismi, mi guidò, dopo il crollo del Muro, in Albania, dove mi aveva inviato il direttore del Corriere della Sera, Stille, e dove scrissi della rovina che si era abbattuta sul Paese. Quindi tornai a Pechino dove, già molto giovane, nel 1954, ero riuscita a incontrare Mao. Aveva appena liberato la Cina e, affermando che "la donna è l’altra metà del cielo", mi aveva augurato "Duemila anni di felicità". Da quell’augurio, mai dimenticato, ho tratto il titolo per l’autobiografia».
Tornando a Maria Grazia, quali idee l’hanno più colpita nei commenti di quei giorni?
«"Verrà insidiosa la sfida della verità e della
memoria", ha detto De Bortoli nel suo discorso commemorativo per Maria Grazia,
nella cattedrale di Catania. "Senza la verità la memoria si affievolisce". È la
considerazione giusta, da cui parte anche la mia esperienza. Quindi non tanto
per parlare di me stessa, quanto per illuminare il percorso che mi ha spinta a
guardare Maria Grazia come l’emblema di un giornalismo femminile libero. La sua
morte mi ha sconvolta, e così sono stata costretta a tornare indietro nella mia
vita attraverso tutti gli agguati che vive un’inviata del giornale, non solo
quello della morte, ma della messa ai margini e delle costanti difficoltà,
talora insormontabili, quelle da cui Maria Grazia era uscita trionfalmente, ma
ahimè, per andare verso la fine, nel coraggio e nello spirito di servizio per un
grande giornale di cui portava fieramente le insegne. Ora le cose cambiano.
Giovani donne sfidano le insidie della guerra in Afghanistan parlando alle
televisioni, come scrive Lucia Annunziata su L’Espresso, a proposito
delle "giornaliste di confine", "sempre più numerose in prima linea per
conquistare a caro prezzo la stessa dignità dei colleghi maschi". Tiziana
Ferrario, Giovanna Botteri, Anna Migotto. È la nuova stagione del giornalismo
delle donne. Maria Grazia lascerà una traccia destinata a incidere nella storia
femminile. Non solo la piango, ma la esalto come una ragazza eroica. Ecco perché
ho deciso, come presidente del premio, di farle assegnare dalla giuria il
prestigioso riconoscimento».
Qual è l’ispirazione del premio e in che cosa consiste? «Il premio nacque a Napoli, per opera mia e di altre donne dell’associazione "Comitato Donne ’99" , per celebrare la rivoluzione napoletana del 1799 contro un potere feroce che mise a morte Eleonora Fonseca Pimentel, impiccandola a piazza Mercato. Il suo giornale, Il Monitore napoletano, è stato il primo foglio storico a essere ideato e diretto da una donna, nella grande stagione rivoluzionaria di Napoli che aprì all’Italia la via dell’unità. L’8 marzo del 2000, rompendo il silenzio che circondava i massacri di civili nella Cecenia, il premio venne attribuito a tre giornaliste francesi: due di Le Monde e una di Libération, per i coraggiosi reportage di guerra. Si tratta ora di onorare Maria Grazia, una luminosa creatura che esalta il coraggio e la sua missione di giornalista per la libertà degli altri. A Napoli, città della Pimentel, due secoli dopo il suo sacrificio, mi sembra giusto assegnare, il prossimo 8 marzo, alla memoria di Maria Grazia questo premio unico al mondo, facendola ascendere dagli onori dei giornali a quelli di una città e di un popolo intero».
Lei ha collaborato con grandi personalità, come Malaparte o Pasolini, che scriveva una rubrica di dialogo con i lettori sul settimanale Vie Nuove.
«Sì, è così. Ma oggi non è facile parlarne, perché la guerra
contro il terrorismo in Afghanistan e la tragedia israelo-palestinese hanno un
effetto devastante nella vita intellettuale, da noi e in tutto il mondo. Voglio
dire che le sovrastrutture culturali sono schiacciate dai bombardamenti contro
il feroce nemico terrorista. Anche la fede, secondo me, vive un periodo di
turbamento, nel senso che il mondo s’interroga, impaurito e perplesso, sulla
nostra impotenza a vincere un avversario tanto criminale e ispirato da
un’interpretazione perversa del Corano».
«È così. Tutto lo spazio disponibile va alle cronache, agli
articoli, ai servizi sulla guerra, peraltro necessari. Ma c’è un impoverimento
fatale nella cultura, che pagheremo caro in futuro. Così nel 26° anniversario
della morte di Pasolini, nostro vate per il ventesimo secolo, c’è stato ben
poco. Io avrei avuto tante cose da dire...».
«In tempi in cui Bin Laden è stato considerato da una certa
intellighentia come un intellettuale, non sarà mai sufficiente occuparsi
di Pasolini e scrivere di questo vero intellettuale del 2000. Ho ritrovato la
fotografia che suggella il nostro incontro a Parigi e che è ben curiosa. Siamo
nella cattedrale di Notre Dame, fianco a fianco, in piedi davanti a una statua
in pietra di Giovanna d’Arco, con la bandiera della Francia stretta sulla
corazza. Abbiamo l’aria di due complici, il viso chino di Pasolini che mi parla
piano e il mio volto di profilo che guarda altrove, preoccupato. Pasolini era
venuto a presentare a Parigi Il vangelo secondo Matteo. Non parlava
francese. Era spaurito con la sua faccia ossuta, come quella di un
sottoproletario romano, mi ispirava voglia di aiutarlo ma lui non voleva
piacere, voleva essere compreso. L’impresa mi apparve difficile in quella
società che aveva rifiutato di fare i conti con la cristologia. Il critico del
Nouvel Observateur mi aveva telefonato di mattina presto per dirmi che
Pasolini era una scimmia, un mistificatore diabolico che si beffava di tutto.
Dissi a Pasolini la verità e lui mi chiese di rompere l’accerchiamento
rivolgendoci a Sartre».
«Telefonai a Sartre, che fu subito d’accordo e ci fissò un
appuntamento per il giorno seguente, al caffé di Pont Royal. Pasolini era
contento e mi disse che sicuramente il caffé era sul Pont; chiamammo un taxi e
ci fermammo in una decina di caffé, perché Pasolini credeva che Sartre volesse
mostrargli i sottoproletari sotto i ponti di Parigi. Così arrivammo con due ore
di ritardo al bar del Pont Royal, in pieno quartiere Latino. Pasolini era un po’
deluso, ma Sartre fu ammirevole: attendeva ancora, malgrado le due ore di
ritardo, fumando la centesima Gitane. Era di buon umore. Pasolini gli raccontò
della polemica sul Vangelo e anche della sua rabbia. "Se fossi stato
francese – gli disse Pasolini – avrei girato il Vangelo in Algeria e
questo avrebbe traumatizzato i francesi. L’idea nacque quando lei mi descrisse
la storia di una ragazzina algerina, una prostituta schiava di uno sfruttatore,
un francese, un europeo". Sartre gli rispose: "Lei deve ripeterlo a tutti che
avrebbe fatto il suo Vangelo in Algeria, tra i sottoproletari. Ma la
posizione della sinistra razionalista è comprensibile nel senso che la storia di
Cristo è un punto di scontro. C’è il timore che i temi religiosi favoriscano le
idee conservatrici; il razionalismo francese manca di una critica del
razionalismo. Il problema del rapporto con la propria tradizione profonda non
può essere cancellato nel nostro orizzonte culturale, senza una chiusura
orgogliosa, aristocratica del nostro pensiero". Pasolini gli chiese: "In tutti i
dibattiti italiani i giovani mi chiedono perché lei ha rifiutato il premio
Nobel, mentre io ho accettato il premio dell’Ufficio Cattolico del Cinema". "E
lei cosa risponde?". "Che io mi esercito al combattimento aperto, come lei al
tempo della guerra di Algeria, quando nessuno dava premi"».
«Tornai con Pasolini nella mia casa, in rue de Varenne. Seduto
al mio pesante tavolo di noce, volle scrivere una lettera per ringraziare
Sartre. Lavorò un’ora, mentre io preparavo il mio articolo per l’Italia. Tra noi
c’era una sorta di intimità serena. Pasolini è l’unico intellettuale che mi ha
lasciato questo senso di amicizia profonda verso una donna. Tutti dimenticano
che Pasolini accettò come naturale il suo trasporto verso le donne, un
femminista: Elsa Morante, Maria Callas, Dacia Maraini e Laura Betti accesero la
sua passionale ammirazione. Quando gli dissi che volevo tornare a Roma, mi
rispose con la sua voce roca e implacabile: "Resta qui. Sei al centro del mondo,
mentre Roma è una provincia". Quando finì di scrivere a Sartre, si alzò d’impeto
dicendomi: "Non gli ho scritto una lettera, gli ho scritto una
poesia"».
«Cominciava così: "Lei, Sartre non giudica male / che Notre-Dame
sia stata illuminata dai suoi preti / per questo interlocutore anfibio? / No! /
Il Peperizzo di Pressis Passe, se ne va. / Nel Café di Pont-Royal cala l’ombra
delle due. / Sartre è seduto sulla poltrona come una stupenda cicala messaggera
d’amore". Non so se Sartre la conobbe. In Francia fu pubblicata quando entrambi
erano morti. In Italia fu pubblicata da Mondadori, nell’opera omnia di
Pasolini».
«Per Vie Nuove Pasolini scriveva una rubrica che si
chiamava Dialogo con i lettori. Oltre alla rubrica settimanale, scriveva
articoli sui soggetti più disparati. Parlava poco, non sollevava difficoltà,
adorava come me non perdere tempo. Dopo i nostri incontri uscivamo insieme per
via Sicilia – la sede del giornale era lì a fianco –, andavamo a sederci al
tavolino smaltato di un caffè. E lì lo interrogavo sulla vita intellettuale
italiana. Diventò il mio unico maestro. Con la sua voce bassa, un po’ afona,
m’insegnò il disprezzo per la vigliaccheria intellettuale e l’amore per
l’eresia. Non a caso ho messo, come sottotitolo al mio Duemila anni di
felicità, "diario di un’eretica"».
«Di lui ricordo la voce come ricordo la sua generosità. Andava
dovunque lo chiamassero: nelle fabbriche, nelle università, nei cenacoli di
cultura, nelle sezioni di partito. Non voleva un soldo per i suoi articoli su
Vie Nuove, si sentiva apostolo, un predicatore come san Paolo in una
perentoria esigenza di sacrificio. Lo ricordo a Parigi alla lezione
all’università, quando insieme tenemmo testa ai contestatori che venivano a
provocarlo, insultandolo. "Fascista" gli gridavano, ce l’avevano con lui per
come aveva accolto con ironia il ’68. E lui rispondeva come Cristo: "Vi porto la
guerra, non la pace". Lo ricordo entrare in redazione, vestito con i blue-jeans,
stretti da un cinturone di cuoio con le borchie, la camicia aperta sul collo,
l’aria un po’ canagliesca, il tutto contrastante con la sua gentilezza e
timidezza, con l’impaccio di un giovanotto bene educato. Allora ci davamo del
lei, senza l’obbligo ecclesiastico del tu, per concordare quella rubrica
settimanale che poi sollevò le ire dei benpensanti di sinistra. Ci ritrovammo a
Parigi, quando io avevo perso la direzione del giornale, proprio a causa di
quella sua rubrica, che inaugurava il dissenso politico. Ci rivedemmo a Parigi,
due anni dopo, e ci gettammo l’una tra le braccia dell’altro. Solo allora
cominciammo a darci del tu».
«Sì, il due novembre sono andata al cimitero di Casarsa, nel
Friuli. La sua tomba era un orto polveroso e tra la sterpaglia intravvidi due
nude lapidi. Su di esse svettavano due ulivi, uno per lui, il più alto, l’altro
per Susanna, sua madre. Non c’era segno di vita, né fiori appassiti, né lumi
cimiteriali. Appoggiai a terra i miei fiori rossi, contro la terra arida di
Casarsa, da cui il poeta era partito giovanetto per mettere a soqquadro il
mondo. È lui l’immenso artista che gli intellettuali italiani, come d’altronde
gli intellettuali di tutto il mondo, farebbero bene a ricordare, soprattutto in
questi nostri tempi di sciagurata follia terrorista».
«Ridare un posto di primo piano alla cultura e riscoprire il
significato profondo della fede. In questo senso ho proposto l’assegnazione del
premio "Pimentel" alla memoria di Maria Grazia Cutuli: per oppormi alla chiusura
culturale e al silenzio dominanti. E anche la rievocazione della battaglia
culturale di Pasolini e della sua fede anomala, espressa nell’emozionante
Vangelo secondo Matteo, ha questo scopo. Sono due segnali che, secondo
me, potrebbero farci uscire dalla morta gora in cui siamo finiti».
Piersandro Vanzan
Fonte:
Curatore, Bruno Esposito
Grazie per aver visitato il mio blog
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