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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

lunedì 17 febbraio 2014

Le vie nuove della Macciocchi e Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Le vie nuove della Macciocchi

di PIERSANDRO VANZAN 
      
  


Giornalista con una grande esperienza alle spalle, spiega perché è nato il premio "Pimentel", che quest’anno andrà alla memoria di Maria Grazia Cutuli. In Europa le donne sono «trattate come una ricchezza», mentre in Italia «non è stato e non è così». Tra i suoi ricordi affiora la presentazione del "Vangelo" di Pasolini a Parigi, con l’aiuto di Sartre.
Il premio "Eleonora Fonseca Pimentel" per il giornalismo femminile europeo verrà assegnato l’8 marzo prossimo alla memoria di Maria Grazia Cutuli, trucidata in Afghanistan. Per l’occasione abbiamo intervistato Maria Antonietta Macciocchi, che del premio è presidente. Il discorso si è ampliato sulla sua lunga esperienza in campo giornalistico e culturale.

 
Come mai proprio lei, che è stata giornalista per tanti anni, è rimasta così sbigottita per la morte di Maria Grazia Cutuli?
«Perché ricordo la mia vita, praticamente tutta un’esistenza, come giornalista. Un’esperienza molto dura, con soddisfazioni poche, lotte e gelosie molte, rivalità accanite da parte dei giornalisti, tante sopraffazioni. Ho diretto due giornali, dove ho formato al giornalismo due eccellenti donne: Lietta Tornabuoni a Noi donne e Miriam Mafai a Vie Nuove. In Italia si considera la giornalista come una variante al femminile dell’uomo. In Francia è talmente diverso che Françoise Giroud ha diretto L’Express e dominato la stampa con le sue opinioni per decenni. A Parigi, il direttore di Le Monde, André Fontaine, mi incitava a scrivere, chiedeva la mia opinione. Anche a Madrid, Juan Luis Cebrian, direttore di El Paìs, mi fece un contratto per un commento politico nella pagina degli editoriali: Opinion. Il rispetto era stimolante, esaltante: le donne trattate come una ricchezza delicata e unica. In Italia, non è stato e non è così. Anche nei due giornali che ho diretto si contava sulla generosità della mia dedizione. La passione personale era così intensa che tutto accettavo e niente esigevo, anche nella retribuzione. Il che non valeva per gli uomini, né era apprezzato dai dirigenti».

Nella sua lunga attività ha avuto missioni in prima linea. Si è mai sentito il nemico addosso, come la povera Maria Grazia?

«Ho compiuto missioni difficili. Nell’Algeria in guerra contro i francesi, dove arrivai pericolosamente attraversando la frontiera tunisina. Allora partii, ricordo, perché tutti gli inviati uomini – era agosto – erano in ferie, e io ero la sola disponibile per raggiungere Algeri. Lì trovai il leader Ben Bella, appena uscito dalle carceri francesi. Mi accordò un’intervista che fece il giro del mondo. Ero già stata in Iran, che era in guerra contro gli inglesi per il possesso del petrolio, allora nelle mani dell’Anglo-Iranian Company. Sparatorie e violenta repressione delle manifestazioni. Sull’avventura persiana scrissi il mio primo libro: Persia in lotta. Rientrata a Roma dall’Algeria, mi spedirono a Parigi, profittando dell’entusiasmo che avevano suscitato nella sinistra francese il mio incontro con Ben Bella e la mia azione nella guerra algerina anticolonialista. Con il lavoro a Parigi persi la direzione di Vie Nuove. Quando espressi qualche perplessità nell’abbandonare Roma e la famiglia, il direttore mi disse una frase che non ho mai dimenticato: "Le giornaliste non hanno famiglia". Il che è triste ma vero, almeno da noi. Stavo a Berlino nelle ore in cui i sovietici tiravano su il Muro. Sola in un alberghetto. Da Parigi, su iniziativa di Simone de Beauvoir, partii per l’Iran, dove Khomeini si era impadronito del potere, imponendo alle donne un’autorità religiosa feroce, che le obbligava a rimettere il velo e ad abbandonare i posti pubblici, la televisione per prima. Poi mi recai a Qom, la città sacra, per incontrare Khomeini: sfidando le sue furie, gli portai il messaggio di condanna delle donne francesi. A Qom, due giorni prima, erano state lapidate dalla folla due giornaliste inglesi».

Ritmi incredibili! Come riusciva a farcela?

«Era la grande passione! E la mia dedizione a quell’ideale: conoscere e far conoscere; dire le cose come stanno. Quando tornai a Parigi, da Qom, fu il tempo delle Br, che mi minacciarono di morte per l’articolo scritto su Le Monde contro il rapimento di Moro. La dissidenza, idea luminosa nel secolo delle ideologie sedotte dai totalitarismi, mi guidò, dopo il crollo del Muro, in Albania, dove mi aveva inviato il direttore del Corriere della Sera, Stille, e dove scrissi della rovina che si era abbattuta sul Paese. Quindi tornai a Pechino dove, già molto giovane, nel 1954, ero riuscita a incontrare Mao. Aveva appena liberato la Cina e, affermando che "la donna è l’altra metà del cielo", mi aveva augurato "Duemila anni di felicità". Da quell’augurio, mai dimenticato, ho tratto il titolo per l’autobiografia».

Tornando a Maria Grazia, quali idee l’hanno più colpita nei commenti di quei giorni?

«"Verrà insidiosa la sfida della verità e della memoria", ha detto De Bortoli nel suo discorso commemorativo per Maria Grazia, nella cattedrale di Catania. "Senza la verità la memoria si affievolisce". È la considerazione giusta, da cui parte anche la mia esperienza. Quindi non tanto per parlare di me stessa, quanto per illuminare il percorso che mi ha spinta a guardare Maria Grazia come l’emblema di un giornalismo femminile libero. La sua morte mi ha sconvolta, e così sono stata costretta a tornare indietro nella mia vita attraverso tutti gli agguati che vive un’inviata del giornale, non solo quello della morte, ma della messa ai margini e delle costanti difficoltà, talora insormontabili, quelle da cui Maria Grazia era uscita trionfalmente, ma ahimè, per andare verso la fine, nel coraggio e nello spirito di servizio per un grande giornale di cui portava fieramente le insegne. Ora le cose cambiano. Giovani donne sfidano le insidie della guerra in Afghanistan parlando alle televisioni, come scrive Lucia Annunziata su L’Espresso, a proposito delle "giornaliste di confine", "sempre più numerose in prima linea per conquistare a caro prezzo la stessa dignità dei colleghi maschi". Tiziana Ferrario, Giovanna Botteri, Anna Migotto. È la nuova stagione del giornalismo delle donne. Maria Grazia lascerà una traccia destinata a incidere nella storia femminile. Non solo la piango, ma la esalto come una ragazza eroica. Ecco perché ho deciso, come presidente del premio, di farle assegnare dalla giuria il prestigioso riconoscimento».
 
Qual è l’ispirazione del premio e in che cosa consiste?

«Il premio nacque a Napoli, per opera mia e di altre donne dell’associazione "Comitato Donne ’99" , per celebrare la rivoluzione napoletana del 1799 contro un potere feroce che mise a morte Eleonora Fonseca Pimentel, impiccandola a piazza Mercato. Il suo giornale, Il Monitore napoletano, è stato il primo foglio storico a essere ideato e diretto da una donna, nella grande stagione rivoluzionaria di Napoli che aprì all’Italia la via dell’unità. L’8 marzo del 2000, rompendo il silenzio che circondava i massacri di civili nella Cecenia, il premio venne attribuito a tre giornaliste francesi: due di Le Monde e una di Libération, per i coraggiosi reportage di guerra. Si tratta ora di onorare Maria Grazia, una luminosa creatura che esalta il coraggio e la sua missione di giornalista per la libertà degli altri. A Napoli, città della Pimentel, due secoli dopo il suo sacrificio, mi sembra giusto assegnare, il prossimo 8 marzo, alla memoria di Maria Grazia questo premio unico al mondo, facendola ascendere dagli onori dei giornali a quelli di una città e di un popolo intero». 

Lei ha collaborato con grandi personalità, come Malaparte o Pasolini, che scriveva una rubrica di dialogo con i lettori sul settimanale Vie Nuove.

«Sì, è così. Ma oggi non è facile parlarne, perché la guerra contro il terrorismo in Afghanistan e la tragedia israelo-palestinese hanno un effetto devastante nella vita intellettuale, da noi e in tutto il mondo. Voglio dire che le sovrastrutture culturali sono schiacciate dai bombardamenti contro il feroce nemico terrorista. Anche la fede, secondo me, vive un periodo di turbamento, nel senso che il mondo s’interroga, impaurito e perplesso, sulla nostra impotenza a vincere un avversario tanto criminale e ispirato da un’interpretazione perversa del Corano».
 
Tornando alla cultura, non le sembra che dai giornali siano scomparse le cronache culturali, le recensioni di polso e i momenti culturali alti?

«È così. Tutto lo spazio disponibile va alle cronache, agli articoli, ai servizi sulla guerra, peraltro necessari. Ma c’è un impoverimento fatale nella cultura, che pagheremo caro in futuro. Così nel 26° anniversario della morte di Pasolini, nostro vate per il ventesimo secolo, c’è stato ben poco. Io avrei avuto tante cose da dire...».
 
Può dire qualcosa adesso?

«In tempi in cui Bin Laden è stato considerato da una certa intellighentia come un intellettuale, non sarà mai sufficiente occuparsi di Pasolini e scrivere di questo vero intellettuale del 2000. Ho ritrovato la fotografia che suggella il nostro incontro a Parigi e che è ben curiosa. Siamo nella cattedrale di Notre Dame, fianco a fianco, in piedi davanti a una statua in pietra di Giovanna d’Arco, con la bandiera della Francia stretta sulla corazza. Abbiamo l’aria di due complici, il viso chino di Pasolini che mi parla piano e il mio volto di profilo che guarda altrove, preoccupato. Pasolini era venuto a presentare a Parigi Il vangelo secondo Matteo. Non parlava francese. Era spaurito con la sua faccia ossuta, come quella di un sottoproletario romano, mi ispirava voglia di aiutarlo ma lui non voleva piacere, voleva essere compreso. L’impresa mi apparve difficile in quella società che aveva rifiutato di fare i conti con la cristologia. Il critico del Nouvel Observateur mi aveva telefonato di mattina presto per dirmi che Pasolini era una scimmia, un mistificatore diabolico che si beffava di tutto. Dissi a Pasolini la verità e lui mi chiese di rompere l’accerchiamento rivolgendoci a Sartre».
 
Com’è andata con Sartre?

«Telefonai a Sartre, che fu subito d’accordo e ci fissò un appuntamento per il giorno seguente, al caffé di Pont Royal. Pasolini era contento e mi disse che sicuramente il caffé era sul Pont; chiamammo un taxi e ci fermammo in una decina di caffé, perché Pasolini credeva che Sartre volesse mostrargli i sottoproletari sotto i ponti di Parigi. Così arrivammo con due ore di ritardo al bar del Pont Royal, in pieno quartiere Latino. Pasolini era un po’ deluso, ma Sartre fu ammirevole: attendeva ancora, malgrado le due ore di ritardo, fumando la centesima Gitane. Era di buon umore. Pasolini gli raccontò della polemica sul Vangelo e anche della sua rabbia. "Se fossi stato francese – gli disse Pasolini – avrei girato il Vangelo in Algeria e questo avrebbe traumatizzato i francesi. L’idea nacque quando lei mi descrisse la storia di una ragazzina algerina, una prostituta schiava di uno sfruttatore, un francese, un europeo". Sartre gli rispose: "Lei deve ripeterlo a tutti che avrebbe fatto il suo Vangelo in Algeria, tra i sottoproletari. Ma la posizione della sinistra razionalista è comprensibile nel senso che la storia di Cristo è un punto di scontro. C’è il timore che i temi religiosi favoriscano le idee conservatrici; il razionalismo francese manca di una critica del razionalismo. Il problema del rapporto con la propria tradizione profonda non può essere cancellato nel nostro orizzonte culturale, senza una chiusura orgogliosa, aristocratica del nostro pensiero". Pasolini gli chiese: "In tutti i dibattiti italiani i giovani mi chiedono perché lei ha rifiutato il premio Nobel, mentre io ho accettato il premio dell’Ufficio Cattolico del Cinema". "E lei cosa risponde?". "Che io mi esercito al combattimento aperto, come lei al tempo della guerra di Algeria, quando nessuno dava premi"».
 
Cosa avvenne dopo?

«Tornai con Pasolini nella mia casa, in rue de Varenne. Seduto al mio pesante tavolo di noce, volle scrivere una lettera per ringraziare Sartre. Lavorò un’ora, mentre io preparavo il mio articolo per l’Italia. Tra noi c’era una sorta di intimità serena. Pasolini è l’unico intellettuale che mi ha lasciato questo senso di amicizia profonda verso una donna. Tutti dimenticano che Pasolini accettò come naturale il suo trasporto verso le donne, un femminista: Elsa Morante, Maria Callas, Dacia Maraini e Laura Betti accesero la sua passionale ammirazione. Quando gli dissi che volevo tornare a Roma, mi rispose con la sua voce roca e implacabile: "Resta qui. Sei al centro del mondo, mentre Roma è una provincia". Quando finì di scrivere a Sartre, si alzò d’impeto dicendomi: "Non gli ho scritto una lettera, gli ho scritto una poesia"».
 
Ricorda qualche verso almeno?

«Cominciava così: "Lei, Sartre non giudica male / che Notre-Dame sia stata illuminata dai suoi preti / per questo interlocutore anfibio? / No! / Il Peperizzo di Pressis Passe, se ne va. / Nel Café di Pont-Royal cala l’ombra delle due. / Sartre è seduto sulla poltrona come una stupenda cicala messaggera d’amore". Non so se Sartre la conobbe. In Francia fu pubblicata quando entrambi erano morti. In Italia fu pubblicata da Mondadori, nell’opera omnia di Pasolini».
 
Quali furono i suoi rapporti di lavoro, anche umanamente, con uno come Pasolini?

«Per Vie Nuove Pasolini scriveva una rubrica che si chiamava Dialogo con i lettori. Oltre alla rubrica settimanale, scriveva articoli sui soggetti più disparati. Parlava poco, non sollevava difficoltà, adorava come me non perdere tempo. Dopo i nostri incontri uscivamo insieme per via Sicilia – la sede del giornale era lì a fianco –, andavamo a sederci al tavolino smaltato di un caffè. E lì lo interrogavo sulla vita intellettuale italiana. Diventò il mio unico maestro. Con la sua voce bassa, un po’ afona, m’insegnò il disprezzo per la vigliaccheria intellettuale e l’amore per l’eresia. Non a caso ho messo, come sottotitolo al mio Duemila anni di felicità, "diario di un’eretica"».
 
Quali sono i tratti che più la emozionano ancora oggi, ricordandolo?

«Di lui ricordo la voce come ricordo la sua generosità. Andava dovunque lo chiamassero: nelle fabbriche, nelle università, nei cenacoli di cultura, nelle sezioni di partito. Non voleva un soldo per i suoi articoli su Vie Nuove, si sentiva apostolo, un predicatore come san Paolo in una perentoria esigenza di sacrificio. Lo ricordo a Parigi alla lezione all’università, quando insieme tenemmo testa ai contestatori che venivano a provocarlo, insultandolo. "Fascista" gli gridavano, ce l’avevano con lui per come aveva accolto con ironia il ’68. E lui rispondeva come Cristo: "Vi porto la guerra, non la pace". Lo ricordo entrare in redazione, vestito con i blue-jeans, stretti da un cinturone di cuoio con le borchie, la camicia aperta sul collo, l’aria un po’ canagliesca, il tutto contrastante con la sua gentilezza e timidezza, con l’impaccio di un giovanotto bene educato. Allora ci davamo del lei, senza l’obbligo ecclesiastico del tu, per concordare quella rubrica settimanale che poi sollevò le ire dei benpensanti di sinistra. Ci ritrovammo a Parigi, quando io avevo perso la direzione del giornale, proprio a causa di quella sua rubrica, che inaugurava il dissenso politico. Ci rivedemmo a Parigi, due anni dopo, e ci gettammo l’una tra le braccia dell’altro. Solo allora cominciammo a darci del tu».
 
È andata ultimamente sulla tomba di Pasolini, a Casarsa?

«Sì, il due novembre sono andata al cimitero di Casarsa, nel Friuli. La sua tomba era un orto polveroso e tra la sterpaglia intravvidi due nude lapidi. Su di esse svettavano due ulivi, uno per lui, il più alto, l’altro per Susanna, sua madre. Non c’era segno di vita, né fiori appassiti, né lumi cimiteriali. Appoggiai a terra i miei fiori rossi, contro la terra arida di Casarsa, da cui il poeta era partito giovanetto per mettere a soqquadro il mondo. È lui l’immenso artista che gli intellettuali italiani, come d’altronde gli intellettuali di tutto il mondo, farebbero bene a ricordare, soprattutto in questi nostri tempi di sciagurata follia terrorista».
 
Ma quale può essere l’antidoto alla follia terrorista?

«Ridare un posto di primo piano alla cultura e riscoprire il significato profondo della fede. In questo senso ho proposto l’assegnazione del premio "Pimentel" alla memoria di Maria Grazia Cutuli: per oppormi alla chiusura culturale e al silenzio dominanti. E anche la rievocazione della battaglia culturale di Pasolini e della sua fede anomala, espressa nell’emozionante Vangelo secondo Matteo, ha questo scopo. Sono due segnali che, secondo me, potrebbero farci uscire dalla morta gora in cui siamo finiti».
 
 
Piersandro Vanzan
 
Fonte:



  

Curatore, Bruno Esposito

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