"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
L'Unità Sabato 2 marzo 1963
Il Gesù di Stracci
(Tomaso Subini, Pier Paolo Pasolini. La ricotta,
Torino, Lindau, 2009, pp.221, ISBN 978-88-7180-814-7)
di Nicoletta Vallorani
Tutto inizia il 7 marzo 1962, quando Pasolini conclude con i produttori Giuseppe Amato e Roberto Amoroso un accordo che lo impegna a scrivere e a dirigere uno dei quattro episodi del film collettivo La vita è bella. Pasolini esita, fa proposte che non vengono ritenute accettabili e alla fine consegna uno scritto. Ma il testo arriva de facto in ritardo e con questo pretesto – ma con ogni probabilità a causa del carattere scandaloso della storia – viene rifiutato. La sceneggiatura viene rilevata da Alfredo Bini, già produttore di Accattone e Mamma Roma, ma il 2 ottobre 1962 Amoroso rivendica la proprietà del soggetto. Quando cominciano le riprese, il 10 novembre 1962, la diatriba legale tra Bini e Amoroso è in corso. Naturalmente questa circostanza risveglia l’interesse della stampa, che avvia e sostiene un acceso dibattito sulla sceneggiatura di Pasolini come blasfema.
In questo garbuglio legale e di opinione pubblica, si addentra con piglio da studioso serio e accurato Tomaso Subini, scegliendo una prospettiva capace di combinare una attenta analisi testuale con una precisa contestualizzazione storico sociale. Subini ha già al suo attivo un periodo di intensa ricerca sul senso religioso in Pasolini e una monografia del 2007, pubblicata da EDS e intitolata La necessità del morire.
Il cinema di Pierpaolo Pasolini e il sacro. Dunque la tematica gli è familiare, e il pregio principale dello studio realizzato in questa sede è l’individuazione convincente del modo in cui una personalità complessa come quella pasoliniana si relaziona a un contesto nel quale la questione della religiosità, centrale e molto dibattuta dalla stampa dell’epoca e in tribunale, invade la recezione dei prodotti culturali e ne condiziona il successo critico e di pubblico. E di fatto anche Pasolini deve sentire il problema con considerevole urgenza, in questi anni in particolare, se tra le varie stesure di La ricotta si e il 4 ottobre 1962, nel corso del quale Pasolini viene folgorato dall’idea di trarre un film dal Vangelo di Matteo”.
La sentenza con la quale si conclude il primo grado del processo a Pasolini per La ricotta chiarisce la posizione pubblica dell’establishment culturale italiano di questi anni, e Subini ne riporta un estratto significativo:
Ora, se è vero che la libertà di opinione e di creazione è garantita dalla costituzione, per cui Pasolini è liberissimo di pensarla come crede in materia religiosa, anche perché questo fatto della coscienza individuale è indifferente al mondo esterno, al medesimo è però assolutamente interdetto di vilipendere la religione cattolica. La libertà di pensiero incontra infatti dei limiti nella sua manifestazione e tra questi il diritto positivo ha posto in divieto di schernire e dileggiare la religione dello Stato, proprio in quanto, quale patrimonio della maggioranza degli italiani, rispecchia un sentimento collettivo meritevole da parte di chicchessia del più alto e rilevante rispetto.
La posizione presa dal tribunale cozza con la percezione pasoliniana: il regista afferma appunto che il suo è un film “profondamente religioso, di quella religiosità che non ammette compromessi e che si esaurisce solo nel più totale rigore”. Dunque, lo scontro implica sfumature delicate e non facili da dipanare, in parte già analizzate con una chiave culturalista – rileva Subini – nell’ambito dei religious studies anglofoni, e tuttavia ancora ampiamente aperta. D’altro canto, almeno nel caso specifico di La ricotta, anche Pasolini stesso deve essere ben consapevole della complessità del messaggio che intende proporre. Lo rivela la densità di paratesti che precedono il film, in uno dei quali è il regista stesso a formulare una scoperta interpellazione agli spettatori per renderli consapevoli della problematicità di quello che verrà loro mostrato.
Alla densità tematica si aggiungono anche, rileva giustamente Subini, complessità strutturali non trascurabili: “Il nodo centrale che ogni analisi testuale de La ricotta si trova a dover sciogliere è il funzionamento della sua struttura portante in mise en abime. La ricotta è infatti una rappresentazione che duplica se stessa al suo interno, adottando un procedimento tipicamente manierista, quello della citazione”. Il discorso meta-cinematografico prende corpo – e un corpo ben noto – nel ruolo di regista affidato a Orson Welles, che “non è chiamato infatti a interpretare se stesso, ma un personaggio fortemente caratterizzato come alter ego di Pasolini e in quanto tale ‘da recitare’”.
Infine, persino la collocazione del film di Pasolini all’interno dell’opera collettiva cui appartiene è controversa. Nella presentazione promozionale del suo film, il produttore Alfredo Bini dichiara di aver costruito l’opera collettiva presentandola come “4 racconti per 4 autori (Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti)”. La scelta di affiancare Pasolini a registi tutto sommato meno problematici viene motivata con la volontà di creare un utile contrasto:
“mentre gli episodi di Rossellini, Godard e Gregoretti trattano esplicitamente alcuni aspetti della modernità (…), quello di Pasolini – che ha per protagonisti un sottoproletario, per statuto ‘fuori dalla storia’, e un regista borghese, nostalgico del passato – prenderebbe in considerazione ‘uomini non ancora in tale stato di condizionamento’”.
Pasolini, in realtà, crea un personaggio potentissimo, della cui intensità pare del tutto consapevole, stando a una dichiarazione che egli stesso fa durante il processo e che Subini riporta in due varianti, pubblicate da diversi giornali:
“Stracci morirà ed è questa la sua unica possibile ribellione e l’unico modo per farsi capire, per dimostrare la propria esistenza” e “Stracci (…) esprime l’unica forma di protesta possibile, ricorrendo alla morte per ricordare che esiste”. Quel che è indubbio è che la vera, profondissima beffa di cui è vittima il povero Stracci sta nel recitare la sua propria morte, morendo davvero, sulla croce che dovrebbe accogliere la replica funzionale di una morte divina.
Tuttavia è proprio questa morte che in qualche modo “disturba” la collocazione del testo pasoliniano all’interno dell’opera collettiva. Come scrive Subini, sulla base dell’acronimo Rogopag, il film di Pasolini dovrebbe essere il terzo, dopo quello di Godard e prima di quello di Gregoretti, ed è spesso come terzo film che la stampa d’epoca lo recensisce. In realtà tale collocazione è tutt’altro che priva di problemi, perché in tutte le copie note i titoli di coda di Rogopag scorrono sull’ultima inquadratura de La ricotta che si configura pertanto anche come l’ultima inquadratura di Rogopag nella sua interezza. Da qui la bizzarra soluzione adottata dal DVD distribuito nel 2006 da Medusa Video, che da un lato segue l’ordine dettato dall’acronimo, mentre dall’altro monta l’ultima inquadratura de La ricotta non alla fine de La ricotta bensì alla fine di Rogopag, dopo, cioè, il film di Gregoretti. Parrebbe più corretto (nonostante sia in contraddizione con l’acronimo) ricongiungere La ricotta con la sua ultima inquadratura in coda al film.
Da questo garbuglio che si dipana a vari livelli, Subini riesce a trarre un’analisi che, lavorando sulla versione de La ricotta originariamente licenziata dal regista e virtualmente ricostruita in questo volume, dipinge un quadro convincente di anni difficili, riepilogando la posizione pasoliniana sul cinema e sulla cultura coeva. E mostrando come essa non sia isolata, alla fine; quanto meno, appare monolitica la posizione della legge su questo tipo di cultura, se “i giudici che condannano Pasolini in prima istanza sono gli stessi che qualche mese prima hanno condannato Franco Citti”.
Nicoletta Vallorani
Università degli Studi di Milano
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