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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

sabato 27 marzo 2021

L'immagine di Cristo, vista dagli occhi di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




L'immagine di Cristo
vista dagli occhi di Pier Paolo Pasolini


.
cadrà la pioggia/ e li farà lucenti,/ come la luce/ delle sue parole;/ penserà
la ‹‹spalliera››/ a darci ancora/ la fede e la speranza/ in Cristo povero.
E. De Filippo, O’ penziero e altre poesie di Eduardo, Einaudi, 1975


Premessa
Pasolini è un ingegno composito


La macchina da presa è solo uno dei numerosi mezzi con cui Pier Paolo Pasolini dava espressione al suo ingegno. E nonostante il suo lavoro cinematografico non sia forse il più rilevante nel complesso della sua attività, esso occupa un posto di sicura importanza all'interno della storia del cinema.
La formulazione teorica di un “cinema di poesia” (da contrapporsi al“cinema di prosa”) trova riscontro e attuazione in un linguaggio cinematografico nuovo e sempre capace di rinnovarsi, moderno e sperimentatore, incapace, questo sì, di adagiarsi su se stesso, fermarsi e compiacersi in una forma acquisita. Teoria e

pratica si fondono pertanto in una impressionante miscela, la sua filmografia, opera di una macchina da presa davvero capace di portare il nuovo nella storia della cinematografia.

Il cinema di Pasolini è stato in febbrile movimento e perenne trasformazione. Si è fatto realista portavoce del dramma del sottoproletariato romano (Accattone, 1961 e Mamma Roma, 1962), ha rivisitato i terreni della tragedia greca (Edipo re, 1967, Appunti per un'Orestiade africana, 1968-69 e Medea, 1969-70) e della grande tradizione scritta e orale popolare (Il Decameron, 1970-71, I racconti di Canterbury, 1971-72 e Il Fiore delle mille e una notte, 1973-74), si è avvicinato al comico e al grottesco in alcuni cortometraggi e film a episodi ( La terra vista dalla luna, 1966, Che cosa sono le nuvole, 1967 e La sequenza del fiore di carta, 1968) e si è fatto ostico interprete di un'ideologia elaborata e complessa (Teorema, 1968, Porcile,1968-69 e Salò o le centoventi giornate di Sodoma, 1975) . Ed è stato anche cinema documentario e saggistico (La rabbia, 1963, Comizi d'amore, 1963-64, Appunti per un film sull'India, 1967-68, Appunti per un'Orestiade africana, 1968-69e Le mura di Sana'a, 1970-71). Questo ingegno composito si è rivolto cinematograficamente alla storia e al mito e con essi ha guardato a Gesù Cristo e ne ha proposto nuove forme visive. La ricotta (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964), insieme alla ricerca della sua location, che è Sopralluoghi in Palestina (1963-64) portano in scena la figura di Gesù Cristo. Le straordinarie immagini che di lui ci lascia Pasolini sono veramente originali, frutto di una ingegnosa, unica e appassionata idea artistico-politica.

La ricotta (1963)
Il sacro è dentro il profano e non lo rinnega

La ricotta, in origine fu progettato per essere un lungometraggio. In seguito dovette far parte di un film a episodi dal titolo La vita è bella. Pasolini lo propose al produttore Roberto Amoruso, il quale non solo rifiutò, giudicandolo offensivo, ma chiese addirittura i danni. Infine, costituì parte del film RoGoPaG, il cui titolo comprende le iniziali dei registi Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti, ognuno autore di un episodio; ma dopo il sequestro e i tagli censori  venne rimesso in circolazione con il titolo di Laviamoci il cervello.
Sorprendono le reazioni all'uscita della pellicola: da un lato l'indifferenza lasciapassare della società cattolica, dall'altro l'accanimento persecutorio della società civile. La censura è infatti spietata. L'imputazione è di vilipendio alla religione di Stato, la pellicola verrà sequestrata e i dialoghi saranno “aggiustati” in almeno cinque punti e perfino la didascalia iniziale non rimarrà uguale. In essa Pasolini già prevedeva le sicure critiche e la direzione dell'attacco censorio. Le parole originali della didascalia recitavano infatti così:
  • "Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sentiranno colpiti infatti cercheranno di fare credere che l'oggetto della mia polemica sono quella Storia e quei Testi di cui essi ipocritamente si ritengono difensori"
  • La versione definitiva sarà epurata dalla verve accusatoria: "Non è difficile prevedere per questo mio racconto dei giudizi interessati, ambigui, scandalizzati"
  • Rimarrà invece pressoché inalterato il suo attestato di stima verso il valore letterario dei Vangeli: "Ebbene, io voglio qui dichiarare che, comunque si prenda La ricotta, la storia della Passione, che indirettamente La ricotta rievoca, è la più grande che io conosca, e i Testi che la raccontano i più sublimi che siano mai stati scritti"

Le vicende giudiziarie furono lunghe e penose: ad una condanna di primo grado seguì l'assoluzione in appello e successivamente l'annullamento della sentenza, dopo che un'amnistia aveva cancellato il reato. Ma il dissequestro della versione originale del film fu ordinato soltanto nel 1968. Per la società italiana degli anni sessanta, storicamente in bilico fra laicismo e clericalismo (e spesso inevitabilmente propensa a difendere ciecamente quest'ultimo) le preoccupanti somiglianze fra un individuo rozzo e volgare, come il protagonista Stracci, e Gesù Cristo, non possono che essere interpretate come segni blasfemi e offensivi. In realtà l'autore, trattato come un pericoloso eretico e impune dissacratore, riserva i suoi strali più acuminati proprio a quella società, che stava completando il suo storico processo di imborghesimento. Essa è ben identificabile all'interno del film, con la troupe cinematografica, che è caricata di pesanti simbologie negative. Si trasforma ora in una grottesca parodia della società che ha crocefisso Cristo, "Siete peggio di quelli che giocavano ai dadi ai piedi della croce, voi!" urla la voce dalla regia, ora in quella dei nuovi scribi e farisei e Ponzio Pilato dell'Italia benpensante. E' incapace di cogliere il messaggio autentico del nuovo messia sottoproletario, Cristo-Stracci, che muore ancora una volta in croce, nell'indifferenza generale. L'attacco è sferrato, e non lascia nessuna possibilità di equivoci.

Serie di fotogrammi, film La ricotta

Stracci-Cristo-Cipriani

Mario Cipriani interpreta il ruolo del povero Stracci, che è scritturato per fare la parte del ladrone buono, in un film sulla Passione di Cristo. Un regista marxista dirige gli attori su un prato della periferia romana: è Orson Welles in persona.
I piani della rappresentazione sono numerosi e, se a prima vista, questo mediometraggio di soli trentacinque minuti, può sembrare quasi un divertissement d'autore, ad una prima analisi, invece, risulta ben evidente la sua curiosa e intricata architettura. Si intrecciano infatti, più livelli di finzione: quella di Mario Cipriani, il Balilla di Accattone e uno dei coatti di Mamma Roma, che interpreta la parte del sottoproletario Stracci; quella di Stracci che interpreta il ladrone buono, che dovrà essere crocefisso di fianco a Gesù Cristo; e quello degli attori della troupe, che in un film nel film, fanno la parte delle figure di due celebri dipinti. Ma l'espediente della finzione nella finzione è scavalcato, e il gioco delle parti si rompe, perché sarà proprio lo stesso Stracci a fare la parte di Gesù, ripercorrendo grottescamente e disordinatamente alcune tappe della Via Crucis: tra l'indifferenza dei presenti, compirà il suo ultimo fatale pasto, prima di morire schernito in croce.
Pasolini si serve di uno dei simboli del cristianesimo, la passione di Cristo, per rappresentare, attraverso l'immoralità della troupe di quel set cinematografico, il vero Cristo: Stracci. Stracci ha una duplice funzione: rappresenta il sottoproletario sacrificato al vuoto borghese, e rappresenta l'incarnazione reale e contemporanea del Cristo. Stracci viene sacrificato, condannato a morte dalla ferocia di un mondo gretto e teso al consumo a tutti i costi.
Stracci-Cristo-Cipriani: questo nuovo messia pasoliniano non è, però, destinato alla resurrezione; a risorgere dovrà essere l'intero sottoproletariato, che abita i palazzoni dei sobborghi di periferia, ben visibili sullo sfondo del film, l'umile umanità da questo suo cinema e dai suoi personaggi riscattata e, in qualche modo, redenta. L'utopia pasoliniana ha qui una delle sue forti realizzazioni visive.
Ma c'è nel film anche il Gesù Cristo storico e tradizionale: è quello con i capelli lunghi biondi, che appare nei tableaux vivants, appena tratteggiato, in evidenza con un solo primo piano, lieve e non rilevante nella sua morbida forma visiva. 
Stracci rappresenta, dunque, il nuovo Cristo, anche fisicamente. La sua fisionomia di borgataro si oppone con fermezza a quella del “solito” Cristo, che è immagine piacente, tramandata e alterata, per lo più, da opere di commissione di generazioni di artisti ossequiosi. I tratti fisionomici di Stracci, lo rendono come una macchia in un dipinto classico; il suo corpo si fa veicolo del suo messaggio, che non è di consolazione, ma di aggressione. Così come consolare non è lo scopo della parola di Cristo, dirà
nel 1971 Pasolini a Enzo Biagi nel corso della trasmissione televisiva III B, Facciamo l'appello. E aggredire è quello che fa (e farà con Il Vangelo) Pasolini con secoli di tradizione iconografica del Cristo.
Egli realizza così, forse ne La ricotta più che altrove, il suo Vangelo antiborghese e marxista.


Un Cristo morto di fame

Stracci-Cristo-Cipriani, dopo la keatoniana corsa alla ricotta, si ripara in una grotta e si appresta finalmente al sospirato pasto. Egli scarta la ricotta avvolta nelle carte dei giornali, quando un megafono (inquadrato al centro di un banchetto ricco di ogni ben di Dio) lo richiama al dovere di ladrone buono.
Ecchime. Da', forza schiavi, inchiodateme!
Un'inquadratura in campo medio ci mostra le tre croci appoggiate a terra e Stracci-Cristo-Cipriani che si spoglia in fretta per prendere posto su una di esse. Subito un gruppo di componenti della troupe si affretta a “inchiodarlo” .
Essi incominciano a dileggiarlo, chiedendogli se è riuscito a consumare il pasto, poi un personaggio con un cappello si fa avanti e, dopo averlo scartato, gli avvicina un panino alla bocca, per poi ritirarlo e addentarlo egli stesso. Si avvicina un altro, che gli porge una bottiglietta con dell'aranciata, ma anche questa volta viene ritirata in fretta e bevuta a grandi sorsate davanti ai suoi occhi.
A Natalina, senti: viè qua!
E' l'invito allo strip-tease. Natalina inscena lo spogliarello, messo su per prendersi beffa di lui, ai piedi della croce. Due primi piani di Stracci-Cristo-Cipriani crocefisso, che alza la testa e guarda il grottesco spettacolino, finché, esausto, la fa ricadere all'indietro sulla base di legno della croce, si alternano alle immagini della truppa festante. E' questa un'inquadratura dal taglio particolare, che Pasolini ripropone più volte nei suoi film e che sembra voler riproporre il punto di vista di chi è ai piedi della croce.
Ettore morente, costretto su un letto di prigionia, Accattone morente, caduto sul selciato, ora Stracci, crocefisso in orizzontale: gli “ultimi” dei suoi film sono fisicamente schiacciati a terra e la macchina da presa prova a conferire loro l'onore di un punto di vista solenne.
Portate su le croci!: è il nuovo ordine della regia. La processione si avvia lentamente al “Calvario”, dove i tre crocefissi vengono depositati. Dopo il campo lungo che ha ripreso la salita, l'autore insiste con le inquadrature ravvicinate di Stracci-Cristo-Cipriani, in croce, a terra, ripreso leggermente dall'alto, di taglio. Egli singhiozza. In controcampo una zoomata all'indietro a partire dal volto della sfacciataggine di Laura Betti, inquadrata sotto un tavolo ricco di vivande e affiancata da due angeli. Accompagnata da Ettore Garofolo (l'Ettore martire di Mamma Roma) si presenta dal regista Welles e minaccia: Si può sapere che scena prepari? Senti un po', darling, o giri me o me la batto. Mi pare giusto.
Un nuovo ordine parte così dalla regia: Fare l'altra scena!  Ma la dicitura della sceneggiatura originale era diversa e recitava: Via i crocefissi. Fu uno degli aggiustamenti apportati dalla censura. In ogni caso le croci vengono portate via.
Lasciateli inchiodati!: le beffe per Stracci-Cristo-Cipriani si sommano.
Di nuovo l'inquadratura ai piedi della croce.
C'ho fame, ch'ho fame, mannaggia, mo' bestemmio. I suoi pensieri, non vanno all'aldilà, e invece di un "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno", una sola cosa lo preoccupa e assorbe tutte le sue energie, il bisogno primario per eccellenza: la fame.
Il dialogo del ladrone buono con Cristo in croce segna l'amara presa di coscienza della sua vocazione: C'è chi nasce co 'na vocazione e chi co n'altra. Io sarò nato con la vocazione di morirme de fame.

Le citazioni illustri

La pittura è sempre stata la fonte di ispirazione per quello che riguarda i colori e le sorgenti dell’immagine.
Pasolini prima che regista fu pittore, e di una certa rilevanza. Le modalità di  composizione dell'immagine cinematografica pasoliniana sono fortemente debitrici dell'origine e della dichiarata vocazione pittorica dell'autore.
"Il mio gusto cinematografico, non è di origine cinematografica, ma figurativa [...] E non riesco a concepire immagini, paesaggi composizione di figura, al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica [...] Quindi quando le immagini sono in movimento, sono in movimento un po' come se l'obbiettivo si muovesse su loro come sopra un quadro." 
Ecco allora una reale e forte volontà di commistione fra i due mondi generatori d'immagini: il suo cinema, non dimentica e non ignora la pittura come arte figurativa prima, la richiama, ne è attratto, e tenta addirittura di inglobarla.

Particolare interesse ha suscitato ne La ricotta il tentativo di riproposizione di due opere del manierismo toscano: la Deposizione di Cristo di Rosso Fiorentino e la Deposizione di Pontormo. 
Tableaux vivants in "La ricotta": a sinistra,Giovan Battista di Jacopo, detto il  Rosso Fiorentino
(1494.1540), "Deposizione", 1521, Volterra, Pinacoteca Civica - Museo Guarnacci; a destra "La ricotta"

Tableaux vivants in "La ricotta": a sinistra,Jacopo Carrucci detto il Pontormo (1494-1557),
"Deposizione" (1525-28), Firenze, Chiesa di Santa Felicita, Cappella Capponi; a destra "La ricotta"

La ricostituzione delle figure dei dipinti avviene tramite dei tableaux vivants, ossia delle vere e proprie messe in scena di un'opera pittorica, perfettamente inserite all'interno della diegesi, e dotate anche di una sorta di reale valore di teoria e pratica artistica. Le citazioni vengono sottolineate dall'uso, attento e preciso nel confronto con gli originali, del colore: vengono così, in qualche modo isolate, dal resto del film che è in bianco e nero. Il tableau vivant è attuazione di quel “ricostruire, ripensare, reinventare” che si può indicare come gene costitutivo del processo creativo del poeta. E' la riproposizione della genesi di un'opera, che in un'altra chiave, in un altro contesto, ma soprattutto con un altro mezzo, viene fatta rivivere. Le finzioni nella finzione si sommano e l'inquadratura si fa dipinto, è dipinto essa stessa; e così il cinema assimila la pittura, la ingloba dentro di sé. Ma questo inquietante tentativo di suprema unione delle arti è guastato dalla sciocchezza degli attori e dalla loro distrazione. O meglio, da esse è reso ancora più sublime.


Si può allora ritornare alla composizione buñueliana de L'Ultima Cena in Viridiana (ma l'autore spagnolo aveva fissato il “quadro” fermando il tempo).
Pasolini esercita il diritto di copia, cerca e progetta la riproduzione accurata e fedele dell'opera pittorica; nel film di Buñuel il quadro è il punto di convergenza delle forze interne di tutta la sequenza, il risultato di un magistrale crescendo, ma è anche visione improvvisa, dotata di una tale forza propria, incontrollabile persino all'autore, che non l'aveva prevista; la materia filmica mostra la sua forza vivente, si presenta da sola, si fa da sè, il regista la leva dalla materia indefinita, come Michelangelo con la statua. L'originale è richiamato dalla posizione delle figure, ma è sconvolto dai volti e dai corpi ricoperti di stracci dei derelitti e dei barboni, nuove figure del sacro, ora anche mostruoso, dipinto di Leonardo.
Pasolini dà volto e corpo a un nuovo Cristo. Egli è macchia sgradevole nella realtà in bianco e nero, un altro messia non riconosciuto da chi cerca la piacevole voluttuosità del compiacimento nei i colori, nei tratti e nelle morbide figure dei dipinti manieristi. 
Altre illustri citazioni pittoriche avevano segnato i primi lavori di Pasolini. Ettore, il figlio di Mamma Roma, nel finale dell'omonimo film è martire sul letto del reparto psichiatrico del carcere, dove è stato rinchiuso per un furtarello in un ospedale. L'inquadratura ricorda il punto di vista del Cristo morto (datato intorno al 1480) di Andrea Mantegna effetto suscitato dalla più che cinematografica soluzione estetica della trasformazione del letto di contenzione in una vera e propria scena di crocifissione, attraverso un reiterato movimento di macchina che parte dal volto del ragazzo e termina ai suoi piedi.


A sinistra, particolare del Cristo morto (1480?) di Andrea Mantegna, Pinacoteca di Brera, Milano.
A destra, particolare dell'inquadratura di Ettore morente, in Mamma Roma (1962)


Nel dipinto del Mantegna la figura del corpo del Cristo è distesa sulla pietra dell'unzione ed è affiancata da quelle della Madonna e di San Giovanni Evangelista. Il quadro è celebre soprattutto per l'audace soluzione del punto di vista. Esso è scorciato, ai piedi del Cristo, dall'alto verso il basso, dando l'impressione di voler trasportare lo spettatore ai piedi di un'invisibile croce.
"Mentre il Mantegna non c'entra affatto, affatto!" L'indignazione di Pasolini si fa sentire puntuale (ed è rafforzata dal doppio avverbio). Egli si appella al più celebre degli storici dell'arte: "Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca!".
La precisazione diventa poi l'occasione per una sferzata all'inerme conformismo della critica: "Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero così essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore (canottiera bianca e faccia scura) è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantegna? O che se mai si potrebbe parlare di un'assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio?... Ma lasciamo perdere; figuriamoci se certe 'mistioni' toccano la sensibilità di gente che ogni giorno deve buttar giù il suo pezzo, preoccupata solo di non sbagliare troppo, e quindi di seguire, soprattutto, quello che dicono gli altri..
(E l'avversione verso il giornalismo e la critica, intesi come mostruoso qualunquismo dell'uomo medio, sono il contenuto della magistrale prova attoriale del regista-marxista-Welles-Pasolini ne La ricotta). In ogni caso, al di là della disputa citazionistica, si può notare la straordinaria mistione fra la miseria del mondo dei personaggi pasoliniani e la nobiltà dell'arte che viene richiamata. Nel finale del suo primo film, Accattone, il protagonista interpretato da Franco Citti, viene colto durante il furto di alcuni salami dalla polizia: fugge, rubando una motocicletta, ma un incidente stradale lo uccide dopo poco. Citti-Accattone è al suo ultimo respiro, sul selciato, mentre il regista gli tributa una morte onorevole: la Passione secondo San Matteo di Bach è la colonna sonora della sua liberatoria fine.
L'aperta provocazione di utilizzare uno dei capisaldi della tradizione musicale religiosa, La Passione Secondo San Matteo di Bach, come leitmotiv per le gesta disperate dell'Accattone senza Dio, a enfatizzarne la condizione di povero Cristo che porta su di sé i peccati di tutto un mondo senza neppure il beneficio religioso della redenzione.
Accattone, Ettore e Stracci: il Gesù di Pasolini non ha nobili origini, si muove fra questi disperati e si differenzia chiaramente da quelli della tradizione storico-pittorica.
Ciò che all'epoca spingeva Pasolini a dipingere l'epos del sottoproletariato romano era l'utopia, di origine marxiana, del supporre in chi fosse intatto dalla logica dominante il germe di una storia futura, di là da venire, basata sui valori di una spontaneità anche vicina a quella predicata da Cristo nel Vangelo. I primi “Cristo” pasoliniani hanno fatto le loro mosse, fra gli scenari delle disastrate periferie di Roma.



Il Vangelo secondo Matteo (1964)

Il Vangelo secondo Matteo venne presentato alla XXV mostra del cinema di Venezia, il 4 settembre 1964. Alla proiezione fu fischiato dai fascisti. Nel racconto di Enrique Irazoqui, l'interprete del Cristo del Vangelo pasoliniano, "Io stesso e Pier Paolo Pasolini fummo protetti da un cordone di polizia".  
Il film vinse  il premio speciale della giuria e, in seguito, il Gran Prix dell'Office Catholique International du Cinéma (OCIC), con queste entusiastiche motivazioni: [Pasolini] ha trovato una chiave per illustrare il Vangelo e restituirci la sua realtà senza caricarla con ricostruzioni storiche. Per la prima volta un autore ha optato per una ragguardevole fedeltà al testo sacro. Le immagini spesso realistiche contribuiscono a prolungare il messaggio fino ai nostri giorni.
Gli unici veri scandali che generò furono quelli all'interno di certa critica di sinistra, che ottusamente non poteva acclamare un film sulla vita di Gesù Cristo. In ogni caso, i molti che si erano spaventati durante la lavorazione risultarono spiazzati, dopo la visione del film.
Il produttore Alfredo Bini ricorda il paradosso di coloro che ora osannano Il Vangelo, gli stessi che solo un anno prima accusavano l'autore di vilipendio alla religione.
  • "Banche, ministero, distributori mi dicevano che ero matto a voler fare un film commerciale tratto dal Vangelo, e per di più diretto da Pasolini, appena condannato a quattro mesi per vilipendio alla religione". 


Ora tutti dicono che sei religioso. Strano. Quando hai fatto La ricotta e Il Vangelo non se n'era accorto nessuno
  • "Ed è proprio il pubblico religioso il primo ad applaudire entusiasticamente. Nemmeno quando organizzai la proiezione del film per i padri conciliari: avevamo avuto il permesso per avere l'Auditorium di via della Conciliazione, ma la mattina alle 10 tutti quei cardinali, bianchi, gialli, neri, con i loro berrettini e i mantelli rossi si accalcavano davanti alla porta sbarrata su cui c'era scritto 'lavori in corso'. Una bella idea dettata dalla paura notturna. Ma la proiezione l'abbiamo fatta lo stesso. Mille cardinali portati con trenta taxi che facevano la spola tra S. Pietro e piazza Cavour, al cinema Ariston. Venti minuti esatti di applausi hanno fatto, quando è apparsa la dedica a Giovanni XXIII. A Parigi, la proiezione dentro la cattedrale di Notre Dame, andata ancora meglio: niente lavori improvvisi. La presenza di Susanna Pasolini, nella parte della Madonna anziana, è stata una delle suggestioni che ha legittimato certa critica a supporre che se ne La ricotta Stracci diventa Cristo, ne Il Vangelo Cristo diventa una trasposizione dell'intellettuale organico della tradizione marxista, ovvero Pasolini stesso. Ma la possibile identificazione dell'autore con Cristo, non va oltre lo slancio provocatorio e le evidenti forzature della critica".

L'ispirazione
  • "E' quest'altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un'opera di poesia che io voglio fare. Non un'opera religiosa nel senso corrente del termine, né un'opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l'umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell'umanità. Per questo dico 'poesia': strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento razionale per Cristo."


Pasolini, come già per l'avvertenza in apertura della Ricotta, (e come farà Scorsese nella didascalia di The last temptation of Christ) cerca di dissolvere le possibili preoccupazioni per il suo interessamento al Vangelo di Matteo. Con questa dichiarazione vuole fare chiarezza da sé, eliminando una grande quantità di interrogativi, ambiguità e incomprensioni che nascono avvicinandosi a un'opera così unica come Il Vangelo Secondo Matteo. Le sue parole testimoniano un sincero interesse verso la storia di Cristo e risuonano forte per chi cerca, si adagia fra gli scandali e i contrasti, che nascono dall'incontro di un autore ateo, comunista e la materia evangelica.
E' interessante ripercorre la storia di questa “ansiosa” ispirazione. Il 4 ottobre 1962 è una data storica: è la prima volta, dopo l'autoreclusione successiva alla breccia di Porta Pia, che un Papa esce dalle residenze del Vaticano. Papa Giovanni quel giorno, si reca in preghiera sulla tomba di San Francesco e va a visitare la Basilica e i suoi celebri affreschi, presunti di Giotto e Cimabue. Quello stesso giorno, ospite in una camera della Cittadella di Assisi, c'è Pier Paolo Pasolini. Per un singolare rimbalzo di eventi egli è giunto alla Pro Civitate Christiana di Assisi, per discutere di un eventuale progetto sulla vita di Gesù Cristo con don Giovanni Rossi. E in un cassetto di queste stanze si trovava il Vangelo di Matteo, di cui Pasolini inizia la lettura.
Sappiamo da alcune dichiarazioni dell'autore che per lui trascorreva un periodo di particolare inquietudine spirituale.
  • "Quindi un tema lontanissimo nella mia vita che ho ripreso, e l'ho ripreso in un momento di regressione irrazionalistica in cui quello che avevo fatto fino a quel punto non m'accontentava, mi sembrava in crisi e mi sono attaccato a questo fatto concreto di fare il Vangelo". 


Il racconto di Renzo Salvi, attuale dirigente e capo progetto di Rai Educational, autore di Vita di Cristo, storie di poveri è fondamentale per ripercorrere la storia che ha portato Pasolini ad interessarsi al Vangelo di MatteoMentre il treno di papa Roncalli rientrava a Roma, Pier Paolo Pasolini dirà a don Rossi ed ai Volontari della P.C.C. di essere stato “intrigato”, quel giorno dal Vangelo di Matteo. Anche il titolo dell’opera pasoliniana nasce in quelle ore. Il regista annoterà poi - scrivendo Le regole di un’illusione
  • “D’istinto allungai la mano al comodino, presi il libro dei Vangeli che c’è in tutte le camere e cominciai a leggerlo dall’inizio, cioè dal primo dei quattro vangeli, quello secondo Matteo. E dalla prima pagina giunsi all’ultima - lo ricordo bene - quasi difendendomi, ma con gioia, dal clamore della città in festa. Alla fine, deponendo il libro, scoprii che fra il primo brusio e le ultime campane che salutavano la partenza del Papa pellegrino, avevo letto intero quel duro ma anche tenero, così ebraico e iracondo testo che è appunto quello di Matteo". 


Duro, tenero, ebraico e iracondo: da subito Pasolini qualifica inequivocabilmente la materia evangelica.
  • "L’idea di un film sui Vangeli m’era venuta altre volte, ma quel film nacque lì, quel giorno, in quelle ore. E mi resi conto che, oltre alla doppia suggestione - della lettura e della colonna sonora, di quelle voci e di quelle campane - già c’era nella mia testa anche un vero nucleo e abbozzo di sceneggiatura. L’unico, dunque al quale potevo dedicare quel film non poteva essere che lui, papa Giovanni. E a quella cara “ombra” l’ho dedicato. L’ombra che è la regale povertà della fede, non il suo contrario".


Serie di fotogrammi, di Sopralluoghi in Palestina



Sopralluoghi in Palestina (1964)


Innanzitutto Pasolini non voleva girare nei teatri di posa. Non voleva ricostruire ma adattare la realtà, trovare i posti veri e renderli pittorici, magari spogliandoli degli orpelli, perché un pittore è già un filtro della realtà, attraverso la pittura. 
Nel giugno del 1963 il produttore Alfredo Bini richiese a Pasolini di procurargli dei materiali che potessero documentare il suo progetto di un film sul Vangelo. L'autore si recò così nei luoghi della Terrasanta, insieme con l'esperto biblista don Andrea Carraro, della Pro Civitate, e con un operatore cinematografico. Il loro percorso toccò la Galilea, il lago di Tiberiade, il Monte Tabor, Nazareth, Baram, Gerusalemme, Bersabea, Betlemme e Damasco.
Dalle immagini girate e appena montate sequenzialmente, nascerà Sopralluoghi in Palestina, un filmato di 52 minuti, con il commento dell'autore in voce-over, improvvisato in sala di doppiaggio. Il film non verrà mai distribuito nei circuiti cinematografici, eppure nella sua incompiutezza formale Sopralluoghi in Palestina, da semplice abbozzo, diviene in qualche modo, in perfetta continuità con la prima fase del suo cinema "gramsciano", un inno alla purezza delle "solite facce, tetre, belle, dolci, dolcezza animalesca precristiana" dei poveri arabi: volti comuni, nella loro espressione spaurita e perennemente allegra, al sottoproletariato di tutto il mondo.
Il film si configura come un viaggio alla ricerca di luoghi e personaggi possibili, che possano rispecchiare un'idea, che sembra già essersi molto ben delineata nella sua mente e rendere così attuabile il progetto del Vangelo. Ma Pasolini fin dalla partenza si dimostrava perplesso sulla possibilità di realizzare il Vangelo nei luoghi dove si erano svolte le vicende della vita di Cristo e questa esperienza non servirà a fargli cambiare opinione.
La cinepresa immortala il lavoro di un vecchio contadino, impegnato a separare i chicchi dalla pula: "Siamo, credo, qui, a una cinquantina di chilometri da Tel Aviv. Era tutta una mattina che correvamo per una campagna molto simile a quella italiana, molto moderna, industrializzata. Ed ecco improvvisamente questa visione". E' questa l'immagine chiave di Sopralluoghi in Palestina. L'autore appare sinceramente entusiasta e colpito: "Ecco, in fondo era quello che cercavo, con grande speranza di trovare: un mondo biblico aracaico", dice commentando le riprese; e don Andrea sottolinea (in presa diretta) che San Giovanni Battista fa riferimento proprio a quella scena che si sta svolgendo davanti ai loro occhi, quando inveisce contro gli scribi e i farisei, saranno presi come frumento e gettati in aria; la pula si disperde, e sarà bruciata, e rimane il grano buono: è questa scena.
Dopo aver visto la cittadina di Cafarnao e i dintorni, Pasolini si mostra preoccupato per “l'assoluta mancanza di ogni scenografia”. La risposta di Don Andrea sorprende per la grande consapevolezza e prefigurazione del processo artistico che si sta per compiere. Importante è "assorbire lo spirito di una situazione" e la viva possibilità di "ricostruirla, ripensarla, reinventarla". “Non si può parlare di fotografia dei posti” dirà don Andrea, spiegando dunque la
non necessità di una reale aderenza scenografica ai luoghi originari della vita di Cristo.
E mentre le terre del Medio Oriente scorrono dal finestrino dell'auto su cui viaggiano, riprese in camera-car, si chiarisce ogni cosa: “il troppo moderno, troppo industriale” è tutto ciò che si deve evitare, per perseguire ad ogni costo l'idea di autenticità da ritrovare nelle cose modeste, piccole e arcaiche.
“L'arcaicità si riflette nei visi oltrechè nei costumi” è la forte idea pasoliniana di un corpo che assorbe, riflette la storia e la realtà circostante.
Sulle facce “animalesche, pagane, indifferenti, allegre” degli arabi “non è passata assolutamente la parola di Cristo” nota l'autore di fronte a un gruppo di giovani drusi.
Sopralluoghi in Palestina è segnato dal concetto dell' “usabilità” ai fini della realizzazione del Vangelo. Inusabile sarà Nazareth che emerge con i suoi palazzoni, e Betlemme, dall'enorme espansione edilizia, e così le facce dei giovani israeliani, che tradiscono a prima vista la condizione di benessere e, secondo l'autore, non si presterebbero neanche a fare le comparse.
Pasolini nota delle somiglianze fra alcuni di quei luoghi e certe zone desolate della Calabria, e in particolare alle montagne fra Cutro e Cutone, sulle rive dello Ionio e che gli uliveti sono simili a quelli della Puglia. Il piano di ambientazione de Il Vangelo Secondo Matteo nel Sud Italia trova man mano conferma. Le riprese verranno infatti effettuate fra Orte, Montecavo, Tivoli, Potenza, Matera, Barile, Bari, Gioia del Colle, Massafra, Catanzaro, Crotone e la Valle dell'Etna.
Sopralluoghi in Palestina è un documento importante per il suo valore di propedeuticità al Vangelo e per la testimonianza di un'arcaicità del mondo, che alla furia distruttrice della modernità è opposta in una dialettica dalla quale non si può prescindere. Un'idea artistico-politica che l'autore porterà avanti ostinatamente e uno scopo, quello di preservare le immagini di un mondo che viene aggredito e sta scomparendo, di cui il suo cinema si farà strumento.




Modalità di realizzazione


Ecco che, fatto tesoro dell'esperienza in Palestina, quel ricostruire-ripensare-reinventare viene messo in atto e diviene il nucleo del processo creativo che è alla base della realizzazione del Vangelo.
La volontà programmatica di Pasolini è innanzitutto quella di perseguire un'aderenza totale al testo dell' evangelista, come raramente è accaduto per la riproposizione cinematografica di un'opera letteraria: "La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione".
Non si può così parlare né di riduzione, di adattamento, o di rifacimento, ma piuttosto di un vero e proprio intento illustrativo del Vangelo di Matteo. Il contenuto evangelico subisce così dei passaggi di stato: viene trasportato dalla pagina testuale al fotogramma, e la materia, da testuale viene trasformata in visiva. La traduzione fedele in immagini è dunque l'obiettivo primario dichiarato del film: "Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un'aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all'altezza poetica del testo".
Ma non sarà proprio così. I “passaggi di stato” comportano inevitabilmente la perdita di una certa quantità di materia e la necessità di alcuni adattamenti. Non sappiamo, quanto per difficoltà sopraggiunte e quanto per specifica volontà di apportare dei cambiamenti, questo proposito non sia stato del tutto seguito e dell'intento programmatico del poeta, è stata attuata solo l'assoluta fedeltà ai dialoghi. Nello sviluppo diegetico sono infatti rilevabili alcune omissioni e l'alterazione dell'ordine di alcuni episodi, che tuttavia non intaccano la certezza che Il Vangelo resti, a tutt'oggi, l'opera cinematografica sulla vita di Cristo più fedele ai testi originari.
La trasposizione fedele verrà messa in atto tramite il metodo “analogico”, indicato come linea guida, dallo stesso autore: "... Una specie di ricostruzioni per analogie. Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia operazione questo 
tema dell'analogia che sostituisce la ricostruzione".
Al procedere temporale del testo di Matteo vengono sostituiti stasi ed ellissi, che dilatano e concentrano la vita di Cristo-Irazoqui, e al respiro incalzante del Vangelo subentra lo spiazzante ritmo della materia filmica, la sua rabbiosa sproporzione.
Seguendo le "accelerazioni stilistiche", di Matteo alla lettera, la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto, l’abolizione dei tempi cronologici, i salti ellittici della storia con dentro le "sproporzioni" delle stasi didascaliche (lo stupendo interminabile discorso della montagna), la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione I volti semplici degli umili, la terra dura, ma "vera", del sud, e i poveri mezzi del suo cinema a riprendere la vita del suo Cristo-resistenza, immagine forte che si configura pertanto come violenta negazione dell'uomo moderno. Il Vangelo secondo Matteo è la piena realizzazione visiva dell'idea politico-storico-artistica del regista, l'unico modo per rappresentare il Cristo di Matteo.


Serie di fotogrammi, film Il Vangelo secondo Matteo


Il rapporto con il testo di Matteo


Il Cristo è fortemente radicato nel suo popolo, il film abbonda di questa materialità, vissuta nella realtà della civiltà contadina meridionale. Questo radicamento nel popolo e questo uso di strumenti intellettuali aiuta forse a capire perchè Pasolini ha scelto il Vangelo di Matteo e non quello di Luca. Il vangelo di Luca è quello dei pubblicani e delle prostitute, ma è anche il vangelo dell'ecumenismo, che non fa differenza fra gentili ed ebrei e in esso il concetto di popolo (nel quale Pasolini traspone il concetto di classe) si frantuma.
Il testo dell'evangelista Matteo viene convenzionalmente suddiviso in cinque grandi discorsi (della montagna, della missione, in parabole, escatologico ed eucaristico) che denotano il carattere più intellettuale del Gesù di questo Vangelo.
Il film invece si può dividere in quattro macrosintagmi narrativi: 
  1. l'annunciazione a Maria, la nascita, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti, la morte di Erode e il ritorno in Galilea (inquadrature 1-177)
  2. Il battesimo di Giovanni, le tentazioni nel deserto, la chiamata dei discepoli, le guarigioni, il discorso della montagna, i miracoli e la predicazione (inquadrature 178-632)
  3. l'ingresso in Gerusalemme, la cacciata dei mercanti dal tempio e l'incontro con i sacerdoti, le invettive contro i farisei e gli scribi (inquadrature 633-930)
  4. l'ultima cena, i processi, la crocefissione e la resurrezione (inquadrature 931-1129).
Il proposito iniziale era quello di non fare né omissioni né aggiunte, l'ordine degli episodi non viene però rigorosamente rispettato. Fino all'incontro con Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni c'è una corrispondenza con il testo di Matteo, poi la successione dei fatti viene alterata: la predicazione ai discepoli viene anticipata e condensata e il discorso della montagna riunisce vari capitoli del Vangelo. La precisa analisi dello studioso Francesco Crispino mette in evidenza le differenze fra il testo filmico e quello letterario. Una significativa aggiunta al testo di Matteo sono i drammi umani di Andrea e Maria, durante il calvario di Cristo.
Se, infatti, nel testo letterario il dramma di Pietro è in parte accennato e quello di Giuda solamente alluso, quelli di Andrea e quello di Maria non sono neppure evocati. Tutti di altissima liricità, i quattro drammi umani trovano una degna soluzione anche sul piano del linguaggio cinematografico. Su tutti, basti citare quello di Pietro, seguito da un’empatica partecipazione (costruita con la "macchina a mano" e piani ravvicinati) nel momento dello smarrimento e della contraddizione, e poi dignitosamente distanziato (con un movimento di allontanamento sempre "a mano" della macchina da presa) nel momento della vergogna e del dolore.
Mettendo in scena tali drammi, dando loro, anzi, un’importanza narrativa addirittura maggiore di quello "sacro" di Cristo, Pasolini sottolinea l’istanza che è alla base della sua trasposizione: mettere in evidenza il lato umano della vicenda.
Pasolini, infatti, sembra preoccupato di rappresentare non tanto le azioni (quelle "che trasformano la realtà in Storia"), quanto le ripercussioni che esse producono sugli uomini, sui loro destini cui, per incapacità o impossibilità, essi non riescono a sottrarsi.




Lo stile


Pasolini “illustra” dunque il Vangelo in 1129 inquadrature che possono essere raggruppate in 81 sequenze, separate da dissolvenze in nero o incrociate, con prevalenza delle prime. La macchina da presa si muove diversamente rispetto ad Accattone e Mamma Roma, dove si poteva riscontrare una maggiore rudezza nell'uso del mezzo.
Lì i primi piani frontali, la mancanza di raccordi sugli sguardi, i forti contrasti di luce, le inquadrature che ricordano Dreyer, Ejzenstein e l’espressionismo del muto, erano non solo il modo di "reinventare" il cinema da parte di un poeta che non ne conosceva la tecnica, ma soprattutto una modalità espressiva che tendeva a sacralizzare le immagini di un mondo emarginato dalla storia.
E' lo stesso autore a confermare l'inadeguatezza degli obiettivi usati in quei film: "Cristo frontale, ripreso col 50 o 75, accompagnato da brevi e intense panoramiche, diventava pura enfasi: una riproduzione". Con Il Vangelo il suo stile non ha bisogno di sacralizzare le immagini. Il suo  effetto è, se mai, quello di risacralizzare (nel senso di sacralizzare un'altra volta e in modo nuovo) la materia sacra per eccellenza, indebolita dal susseguirsi di riproposizioni artistiche stereotipate. Pasolini creatore di immagini, plasma storia e religione, e conferisce una nuova vitalità alla materia.
Si riscontra meno rigidità, una maggiore consapevolezza tecnica e soprattutto l'uso dell'imperfezione si fa calcolato, in quanto mezzo da utilizzare con sapienza, ai fini della realizzazione del “cinema di poesia”.
La contaminazione degli stili, dei luoghi, dei costumi, della struttura delle immagini e della musica che le accompagna, dello stesso linguaggio cinematografico, che alterna i primi piani frontali dello stile "sacrale" di Pasolini dei primi film "romani" alle panoramiche incerte e ai campi lunghi e lunghissimi e alle facce "rubate" tra la folla; anziché una confusa disomogeneità, crea una sensazione di verità, di immediatezza e purezza originaria e insieme di sacralità, con un potere evocativo non comune.
Cinema-verità, primi piani imperfetti, macchina a mano e movimenti incerti, ma anche campi lunghi e piani fissi dalle ricercate geometrie, la tecnica pasoliniana è magma in fermento.
Qui, dopo le prime inquadrature frontali che richiamano quelle dei primi film e nello stesso tempo la cultura iconografica e i gusti pittorici dell’autore, lo stile cambia, la tecnica diviene "magmatica", i contrasti si fanno meno intensi, aumentano i campi lunghi e lunghissimi, la macchina da presa si muove in modo del tutto nuovo tra la folla, sui volti, sul paesaggio, con un risultato espressivo di grande intensità
L'uso innovativo del mezzo cinematografico e la narrazione evangelica, ovvero nuove tecniche di visione si muovono fra i binari della tradizione stilistica narrativa. Il Vangelo a livello stilistico, mantiene una fluidità di narrazione in cui predomina ancora una figura chiave vecchio stile, quella del Cristo appunto. E l'idea di “cinema di poesia” trova la sua realizzazione proprio qui.
Pasolini pensava che l'essenziale dell'immagine cinematografica non corrispondeva né a un discorso diretto né a un discorso indiretto, ma a un discorso libero indiretto Alcuni procedimenti adottati nelle riprese dall'autore sono esemplificatori di un modo di fare cinema. Le inquadrature, con camera a spalla, che seguono il Cristo proprio alle spalle, offrendo il punto di vista degli apostoli, sono un esempio delle famose soggettive libere indirette, teorizzate da Pasolini in Empirismo eretico e analizzate da Deleuze: "Nel cinema si possono vedere immagini che si pretendono oggettive, o soggettive. Si tratta di superare il soggettivo e l'oggettivo verso una Forma pura che si erge come visione autonoma del contenuto. Non si tratta di soggettive, in quanto lo sguardo dell'autore non si immedesima con nessuno dei presenti, né di oggettive perché la camera a mano offre il punto di vista di chi segue il Cristo e cammina dietro di lui. Questa soluzione stilistica fa sì che non si presentino più immagini soggettive o oggettive, o meglio, che la differenziazione netta fra le due venga sfumata, non si
comprenda più con quale immagine si ha a che fare".
E' un cinema molto particolare che ha acquisito il gusto di “far sentire la cinepresa”. I metodi che Pasolini individua che ben riflettono questo modo di procedere, sono “l'inquadratura insistente” o “ossessiva”, “l'alternanza di diversi obiettivi su una stessa immagine”, e “l'uso eccessivo dello zoom” e di quest'ultimo in particolare se ne può riscontrare l'utilizzo massiccio in questo film.
All’uso semplificato e rigoroso degli obiettivi 50 e 75, impiegati in AccattonePasolini aggiunge il pancinor o zum. Si tratta di un obiettivo, come si sa, che permette di passare (senza soluzione di continuità) dall’inquadratura di un dettaglio o di un primo piano fino a un totale o a un campo lungo.


Le musiche

Anche le musiche che costituiscono la colonna sonora della vita di Cristo, scelte in collaborazione con Elsa Morante, riflettono la volontà di uno stile sorprendente, che si muove fra eccletismo e contaminazione, nobiltà della tradizione e provocazione della modernità; si è ancora fra i due poli, classicismo e avanguardismo.
Si possono riconoscere:
- La Passione secondo Matteo di Bach (del quale sono presenti alcuni brani)
- Maurerische Trauermusik, K 477, ovvero Musica funebre massonica, di Mozart, che accompagna Cristo al Calvario
- Trascrizione per orchestra della Fuga dall’Offerta musicale di Bach di Webern
- il Gloria della Missa Luba congolese, che è la prima, straordinaria, messa rituale africana in latino
- canti rivoluzionari russi
- alcuni spirituals fra cui Sometimes I Feel Like a Motherless Child
- e, in omaggio a Alexander Nevskij di Ejzestein, l'omonimo pezzo di Prokofiev
Quasi tutte le musiche sono state scelte da Pasolini prima ancora di girare il film. L'intento è quello di conferire il giusto peso alla tradizione (Bach e Mozart), ma di non costringere lo spazio sonoro ad alcuna limitazione o possibilità. L'eterogeneità delle scelte musicali dimostrano ancora una volta la precisa volontà di universalizzare la parola di Cristo, e di liberarla e svincolarla da una tradizione che più non le appartiene, quella di essere rappresentata in luoghi ricostruiti, da attori professionisti, proferita dal corpo piacente di una star, con la solennità delle musiche religiose ottocentesche.
Già si è detto della tecnica di Pasolini di contrastare le immagini degli squallidi ambienti e personaggi dei suoi primi film con la musica colta.
  • "Questo aver contaminato una musica coltissima, raffinata come quella di Bach con queste immagini, corrisponde nei romanzi all’unire insieme il dialetto, il gergo della borgata, con un linguaggio letterario che per me è di derivazione proustiana o joissiana. È l’ultimo elemento di questa contaminazione che rimane così un po’ esteriore nel film. Quanto alla scelta, è una scelta molto irrazionale, perché prima ancora di pensare ad Accattone quando pensavo genericamente di fare un film, pensavo che non avrei potuto commentarlo altrimenti che con la musica di Bach: un po’ perché è l’autore che amo di più; e un po’ perché per me la musica di Bach è la musica a sé, la musica in assoluto".


Ne Il Vangelo, che è di per sé materia nobile, il contrasto, la dissonanza fra la  materia e la musica, avviene con le scelte di musiche ad esso completamente estranee, come i canti rivoluzionari russi e la messa congolese. L'effetto del procedimento è identico a quello usato in Accattone, ossia creare uno scarto, uno sbalzo fra l'universo sonoro e l'ambiente filmico.






I volti

L'immagine-affezione è il primo piano, e il primo piano è il volto. Il Vangelo si presenta come una vera e propria epopea del volto. Il piano ravvicinato è il tipo di inquadratura prevalente, ve ne sono infatti 588, più della metà delle inquadrature totali. Intere sequenze vengono risolte esclusivamente attraverso le inquadrature dei volti dei personaggi, che ci vengono presentati
con carrellate o più semplicemente alternati dal montaggio, senza punteggiatura.
L'episodio delle beatitudini, ad esempio, è risolto quasi interamente tramite il primo piano del volto di Gesù. Paesaggi montuosi, collinari, desertici e di mare si alternano come sfondo: l'espediente sottrae la parola di Cristo allo stretto contesto storico-geografico che le era proprio, la universalizza nello spazio e nel tempo e la rende “affetto puro”, il primo piano conserva sempre lo stesso potere, quello di strappare le immagini alle coordinate spazio-temporali per far sorgere l'affetto puro in quanto espresso. 
Il precedente è illustre, il soggetto è sempre quello di un martire, processato e condannato a morte proprio come Gesù: La Passione di Giovanna D'Arco (1928) di Carl Theodor Dreyer. Per Deleuze sarà “il film affettivo per eccellenza” e l'affetto è come l'espresso dello stato di cose, ma tale espresso non rinvia allo stato di cose, rinvia solo ai volti che lo esprimono e, componendosi e separandosi, gli danno una materia propria movente.
Curiosa è la storia che ha portato alla scelta del volto di Gesù. In un primo momento Pasolini pensava ad una scelta forte, con un autentico protagonista on the road come Jack Kerouac o Allen Ginsberg, o ad un nome rivoluzionario come quello del poeta Evtusenko. Dopo aver rinunciato a questa ipotesi, visionò centinaia di aspiranti, senza però riuscire a farsi impressionare da nessuno. La scelta ricadde, all'ultimo momento, sui tratti catalani dello studente Enrique Irazoqui, giunto a Roma per conoscere di persona il poeta. La voce di Gesù, invece, sarà affidata al doppiaggio di Enrico Maria Salerno.
I ruoli dei personaggi della narrazione evangelica sono assegnati ad attori non professionisti, in particolare a uomini e donne abitanti dei luoghi dove avvengono le riprese. Da segnalare è la collaborazione di amici e parenti come Enzo Siciliano nella parte di Simone, Natalia Ginzburg nella parte di Maria di Betania, e della madre Susanna Pasolini, per la prima e unica volta sullo schermo, nella parte di Maria anziana.
Pasolini rinuncia il più possibile all'artefatta e accademica finzione recitativa dell'attore professionista, nel tentativo di sfruttare le spontanee e primitive capacità attoriali dei ragazzi delle borgate.
  • "La ricerca dell'attore è la cosa che più mi prende perché in quel momento io verifico se le mie ipotesi sono state arbitrarie: cioè se ad una fisionomia che ho immaginato, corrisponde effettivamente il carattere che immagino debba avere. Quando ho bisogno di giovani attori, che siano scanzonati, furbi, smaliziati, ma ancora un po' incerti e un po' buffi, non cerco i giovani attori appena usciti dall'Accademia che rifacciano magari a stento il verso a quelli che invece vivono in una borgata di periferia e sono realmente così. Più semplicemente vado appunto in una borgata romana e cerco dei ragazzi che interpreteranno, in un certo senso, se stessi. Quando invece ho bisogno di qualcuno che reciti una parte più complessa allora faccio ricorso all'attore professionista, ma riduco questa scelta sempre al minimo indispensabile."


Il volto di Enrique Irazoqui è già di per sè un'esplicita rottura con la tradizione iconografica. E' un volto di una realtà quasi brutale, se lo si confronta con i precedenti volti cinematografici di Cristo. E' difficile trovare qualcosa di divino, fra i lineamenti di Irazoqui. E' la negazione del Cristo-star, il maestro carismatico, dal capello biondo, lungo e fluente con le braccia allargate e il mantello splendente, propostoci cinematograficamente dalla cultura visiva hollywoodiana, che ha interpretato il corpo di Cristo come il corpo di un divo. Pasolini gli dà un volto scuro, serio, spesso semicoperto da un velo, anch'esso nero. E' un Cristo che sembra cupo, arrabbiato; e la voce ferma, intensa, tagliente, a volte irata, di Enrico Maria Salerno conferma e aumenta il suo "caratteraccio".
Inoltre chiuso fra copricapo e tunica sembra spesso rattrappito. Il suo volto e la sua figura si staccano da quelli dei discepoli, dei contadini e dei sacerdoti per l'aggressività fisionomica. Pasolini riporta Cristo fra la sua gente: dopo anni di sfarzose, quanto false scenografie e attori compiacenti, il Vangelo ritrova una propria forza e una nuova e quasi brutale autenticità.
"Ma il Cristo barbuto e biondo al quale siamo abituati, non è l'ispido e mal rasato di Pasolini. Quello là lo detesto. La Vergine no, la Vergine è adorabile: ma non una Vergine vecchia e sdentata come mi proponevano, bensì con il suo velo e il suo mantello, nascoste persino le unghie dei piedi". Con queste parole di Luis Buñuel, ecco che viene fuori una profonda diversità fra i due registi nel concepire l'immagine dei componenti della Sacra Famiglia. E così si intende che, il pur surrealista e dissacratore Buñuel, rimane ancorato a un modello di rappresentazione sacra del tutto classica. Il suo Gesù ha i capelli lunghi, biondi, la barba ordinata e  corrisponde per lo più a un'immagine tradizionale-popolare, diciamo quasi da santino. E la Vergine secondo lui non deve mostrare nulla di umano, chiusa com'è da tutti i veli che ne nascondono le fattezze e lasciano intatta la sua pura aurea divina. L'iconografia buñueliana di Cristo è quella medioevale generata e impressa nei suoi occhi di fanciullo di Calanda.
Pasolini stravolge proprio il modello iconografico di Cristo, portando in scena “l'ispido e mal rasato” Enrique Irazoqui, e affidando alla sua vecchia e sdentata mamma il ruolo di interpretare la Madonna ai piedi della croce. La sua rivoluzione inizia dai corpi.




Alcuni riferimenti pittorici e lo stile bizantino


Pasolini ha avuto una sorta di folgorazione, dalla pittura antica, e quando ha approfondito questa sua, diciamo, curiosità ha trovato che la pittura antica può fornire una quantità enorme di spunti tipologici, formali, che lui ha tutti reinterpretato.
E così ripercorrendo il Vangelo alla ricerca di esplicite citazioni o semplici riferimenti pittorici si nota che la Via Crucis riproduce alcuni dettagli dalla rinascimentale Storia della Croce di Piero della Francesca, e sempre al pittore d'Urbino è ispirata la sequenza del Battesimo; che invece gli intensi attimi vissuti nell'orto del Getsemani sono debitori delle opere che Mantegna Bellini hanno dedicato a quel momento.  E che la Crocefissione de Il Vangelo può forse trovare più di un riferimento in quella dello spagnolo El Greco.
Nonostante Il Vangelo, costituisca un momento di rottura nella storia della rappresentazioni visive della vita di Cristo, i riferimenti alla storia della pittura e i richiami all'arte classica, sono disseminati un po' ovunque.
Come nello stile rappresentativo dell'arte iconografica bizantina, il rapporto delle figure con lo spazio è prevalentemente bidimesionale. Nei mosaici bizantini, il cui soggetto più rappresentato è quello del Cristo Pantocratore (Cristo benedicente), le forme si stagliano contro il fondale, sempre oro, senza profondità. L’arte bizantina non si propone la verosimiglianza, la rappresentazione del vero, ma ha una funzione prevalentemente didattica. Il
fedele, che molto spesso ha l’immagine come unico punto di riferimento comprensibile, deve ammirare la ricchezza della decorazione, la preziosità dei materiali (oro e lapislazzuli).
Sembra quasi ci sia la volontà - da parte del regista - di togliere all’immagine filmica l’impressione di tridimensionalità, di profondità di campo (dovuta soprattutto all’immagine in movimento, al movimento all’interno dell’inquadratura)  per ricondurla in un ambito figurativo e pittorico.
Anche le figure del Vangelo sembrano piatte, senza profondità, ma in questo caso la ricchezza dei materiali è quella dei volti popolari che animano il Vangelo, riappropriandosene e riportandolo a una dimensione umana.




L'annunciazione. Analisi di una sequenza

Pensate alla prima inquadratura, alla "F.I. di Maria, vicina a essere madre": non si può sfuggire alla suggestione della Madonna di Piero della Francesca a San Sepolcro. La sequenza iniziale dell'annunciazione è emblematica e rappresentativa dello stile pasoliniano.
Dopo le scritte in nero su sfondo bianco di dedica Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII ecco la prima inquadratura. E' il primo piano stretto, centrato ed equilibrato del
volto di Maria; sullo sfondo un arco di pietre, come un'aureola tutta umana, racchiude nella sua rotondità i lineamenti di Maria. La fotografia di Tonino Delli Colli mette in risalto il contrasto fra il pallore del volto e il velo nero, appena appoggiato sopra la testa, che le scende fin sulle spalle; gli occhi sono rivolti in alto a destra, ma l'espressione del volto è praticamente impassibile e la mancanza di sonoro le conferisce come un accenno di attesa. In controcampo è il volto di Giuseppe, con il sopracciglio leggermente aggrottato, su sfondo non distinguibile. Di nuovo inquadrata è Maria: questa volta abbassa gli occhi e china leggermente la testa. Ancora Giuseppe in controcampo: l'espressione è leggera, di chi non comprende qualcosa; compie un lieve movimento verso sinistra, le labbra forse tradiscono la volontà di parlare, ma tutto è silenzio. La quinta inquadratura riprende la figura intera di Maria, al centro, con il grembo che si scorge dai vestiti, davanti al muro di pietre che disegna sopra di lei l'archetto. Alla destra della figura di Maria sono appoggiati dei sassi, una scala, un rastrello e alcuni bastoni; sulla sinistra c'è un cesto. Il corrispettivo controcampo ci mostra Giuseppe in figura intera che, non appena viene inquadrato, si volta di lato e compie qualche passo, scende degli scalini verso una porta che evidentemente lo condurrà fuori dal cortile della casa di Maria con sullo sfondo l'ingresso completamente scuro della casa, e l'archetto di prima sulla sinistra. Maria fa dei passi in avanti verso la macchina da presa, mentre dall'uscio compaiono, due donne vestite di nero, una con un bambino in braccio. Giuseppe è ora in campo lungo, mentre si allontana per una strada assolata, fra arbusti e sterpaglie.
Nona inquadratura: sulla sinistra del quadro le donne fuori fuoco, sulla destra Maria in primo piano (fino alle spalle) alza questa volta gli occhi che vanno a seguire con un raccordo sullo sguardo i passi di Giuseppe sulla strada.
Undicesima: il volto di Maria nell'inquadratura fino a questo punto più ravvicinata lascia trapelare un sentimento di dispiacere per chi se ne va e allo stesso tempo di consapevolezza e imperturbabilità per quello che sta per accadere.
Giuseppe, entra in campo di spalle. Un altro raccordo sullo sguardo: è la città di Matera, arroccata sulla collina, che gli si staglia davanti. Con un movimento di macchina libero, che segue la strada che scende dalla città di Matera alta, il regista si sofferma su un gruppo di bambini che gioca. Sono figure non previste dalla sceneggiatura. Giuseppe li osserva, poi abbassa lo sguardo e si appoggia a una pietra e con la testa fra le braccia socchiude gli occhi. La sua espressione denota tradimento, incomprensione, sconsolatezza. E l'abilità registica consiste proprio nel tratteggiare con leggerezza e delicatezza i sentimenti, senza farsi mai prendere la mano e cedere così agli eccessi del pathos.
I bambini giocano davanti a lui, e il loro rumoreggiare costituisce il primo sonoro umano del film, che subito tace: Giuseppe ha chiuso gli occhi, e con le ciglia sempre aggrottate, muove leggermente la testa, forse già addormentato per la insopportabile calura estiva o per dimenticare quello che lui crede un tradimento.
All'improvviso si desta, i bambini non ci sono più e al loro posto una fanciulla vestita di bianco ripresa in figura intera. Con un rapido raccordo è in primo piano l'angelo, che con voce femminile sta annunciando: "Giuseppe figlio di Davide, prendi pure con te senza esitazione Maria tua sposa". 
La sequenza si conclude ciclicamente con il percorso a ritroso di Giuseppe e con una serie di inquadrature che sono compositivamente uguali alle prime.
Manca ancora la parola, ma le sottili trame delle espressioni sui volti di Giuseppe e Maria, lascia intendere che la comprensione è avvenuta e che la Storia Sacra può iniziare a compiersi.


 Un nuovo senso del Sacro e lo stile dell'incarnazione


Ciò che caratterizza il cinema di Pasolini è una coscienza poetica, che non sarebbe a dir vero né estetica , né tecnicistica, ma piuttosto mistica o sacra.
La teoria cinematografica si è sempre rivolta con particolare attenzione ad analizzare e interrogare i rapporti fra il sacro e il cinema. E' questa un'indubbia e fascinosa attrazione fra una categoria e un mezzo, che non cessa mai di destare curiosità e interrogativi per le modalità di attuazione di questa unione e per lo stile con cui il cinema rappresenta il sacro.
Paul Schrader, sceneggiatore di fiducia di Martin Scorsese, in una tesi di dottorato che porta la data del 1972, e che ha il titolo di Trascendental Style in Film, cerca di delinare i sistemi che possano rappresentare il Completamente Altro, ovvero il Divino, attraverso il mezzo cinematografico (che non sia quello del tutto fallimentare dell'effetto speciale hollywoodiano). Egli propone come modelli di uno stile Ozu, Bresson e Dreyer e fissa la sua attuazione in tre
categorie: quotidianità, scissione e stasi.
Trent'anni dopo, nell'introduzione all'edizione italiana dell'opera, Gabriele Pedullà afferma che lo stile trascendentale non ha seguito le aspettative di Schrader, e che i registi da lui presi a esempio, autori di forme d'arte troppo  astratte e stilizzate, e di un realismo di superficie, sono le prime vittime della diffusione di massa dei mezzi mediatici.
La quotidianità è esteticamente inerte perchè la piattezza delle immagini è ovunque Il sacro cinematografico ha trovato nuove vie in cui svelarsi. Pedullà individua un passaggio da una sacralità dell'ascesi a una sacralità dell'incarnazione.
"L'ascesi prevede il riconoscimento spettatoriale del Trascendente, di cui il mondo fenomenico non è che un riflesso superficiale; l'incarnazione invece capovolge i termini del discorso e rende l'uomo passivo di una realtà che diventa trascendentale. E' possibile dunque ravvivare un incontro, quello del sacro con il cinema, che si stava facendo raro, attraverso questa nuova via, che ha in letteratura un possibile antecedente e manifesto ne L'Ulisse di Joyce. Il Trascendente è tra noi; partecipa delle nostre esistenze miserevoli; alla lettera prende corpo nella sofferenza del mondo. Dio non si manifesta allora per mezzo della frontalità o della ieraticità predicate da Schrader sul modello dell'arte bizantina, ma nello sguardo degli emarginati che soffrono ai margini della società [...] Una lezione che, se è completamente differente da quella che si ricava dal cinema trascendentale (dissoluzione del soggetto in un Altro che comprende tutti gli esseri), non è tuttavia meno spiritualmente significativa (l'Altro è tra noi; in questo mondo apparentemente abbandonato da Dio è ancora viva una scintilla di intensità religiosa). Possibili esempi di questo nuovo modello sono il cinema di Dumont, Scorsese, Ferrara e Von Trier, ma rispetto all'uso primonovecentesco del mito, l'incarnazione della grande Storia non può più essere annunciata sin dall'inizio, pena la perdita di quell'effetto di sorpresa senza cui non potrà esservi reale commozione ed empatia".
Il cinema di Pasolini è la prima concreta messa in atto di questo nuovo modo di realizzare il sacro cinematografico. Egli ha concretizzato appieno la “sacralità dell'incarnazione”: la storia sacra viene incarnata nei volti degli abitanti di Matera, la macchina da presa rende trascendentali le loro rughe, i luoghi arsi e le case cadenti. Non c'è dissoluzione del soggetto nel trascendente, ma forse la volontà di dissolverlo nell'umano, con un cinema capace di avvicinare le due categorie fino a farle coincidere.

di Andrea Deaglio


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Curatore, Bruno Esposito

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