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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

venerdì 26 marzo 2021

Prefazione di Roberto Saviano al libro "Il Caos" di Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Prefazione di Roberto Saviano al libro 
"Il Caos" di Pasolini
.

Il caos è un capolavoro. A differenza di altre raccolte di interventi giornalistici di Pier Paolo Pasolini è stato per anni ai margini della sua infinita bibliografia, e raccoglie gli interventi che scrisse per la rivista «Tempo» in una rubrica chiamata proprio così: «Il caos».


«Tempo» (da non confondersi per nessuna ragione con il giornale reazionario «Il Tempo») era una rivista molto interessante in quegli anni, una sorta di risposta italiana a «Life». Al principio Pasolini è quasi imbarazzato a iniziare questa collaborazione perché «Tempo» era tra i giornali più finanziati dal regime fascista. Aveva certo cambiato completamente anima nel momento in cui Pasolini cominciò a scriverci, ma si percepisce tutta la pressione che l’uomo subiva nel dover giustificare, da comunista, ogni scelta che prendeva non direttamente determinata dalla militanza. Ciò che ad altri non sarebbe toccato di discutere, a lui doveva costare ore di giustificazioni e analisi profonde per dimostrare l’innocenza d’ogni sua azione. È il prezzo che paga chiunque voglia tentare di trasformare il mondo con la propria arte e non solo interpretare il presente o semplicemente intrattenere. C’è proprio, all’inizio di questo libro, una riflessione che bisognerebbe conservare, dentro di sé.

Pasolini dice di intervenire nei dibattiti contemporanei per contrastare due naturali inclinazioni del suo animo: il disimpegno e il distacco dalle cose. Proprio per non essere disimpegnato e per non subire il distacco, lui decide di scrivere una rubrica. L’istinto sarebbe quello di mandare tutto al diavolo, sottrarsi, godere del bello e proteggersi in un ruolo intellettuale alto, marginale. Sa anche che è esattamente ciò che in molti vorrebbero da lui, che non si occupasse tutti i giorni della politica, che non intervenisse usando tutti i mezzi possibili. Quei molti che la sua arte intendeva demolire.

Aprire le pagine di questo libro innesca disagio. Un disagio che somiglia all’incapacità di gestire lo stupore. Stupore che provano le persone dinnanzi all’avverarsi delle parole di un profeta. Il profeta annuncia la profezia, ma raramente il tempo della sua realizzazione è un tempo breve. Il caos è la realizzazione della profezia di Pasolini. E la profezia si compie nella modernità di queste pagine che, pubblicate oggi, descrivono esattamente il nostro presente. Nell’agosto del ’68 Pasolini misura come l’istinto dell’intellettuale lo porti spesso a occuparsi di ciò che non lo faccia inciampare in vicende troppo vicine. L’intellettuale di professione - argomenta Pasolini - sceglie temi universali, lontani, che gli diano un’identità e la possibilità di non doversi mai davvero confrontare. Un equilibrio che gli permetta di sembrare ribelle, stando invece comodamente accucciato. Il caso è quello di Aldo Braibanti, l’intellettuale che venne accusato di plagiare il suo amante. L’accusa di plagio durante il processo si trasformò in un’accusa di omosessualità, che costò a Braibanti la condanna all’internamento. Pasolini racconta l’episodio con grande forza, perché sente l’avanguardia letteraria, che lui ha sempre considerato piuttosto fumosa, rispondere: «A noi non importa di Braibanti, a noi importa del Vietnam». Un atteggiamento in cui Pasolini riscontra la facilità con cui gli altri «colleghi», prendendo posizioni su vicende distanti, si salvano dal doversi impegnare e schierare accanto a un uomo accusato di avere una vita non degna di essere vissuta. Tutto questo non è il Vietnam, ma accade sotto i loro occhi, eppure nessuno si espone, sono in molti a fingere di non vedere. Esporsi sul Vietnam non avrebbe creato problemi, l’avessero fatto su Braibanti, invece, avrebbero iniziato a vedere gli sguardi inquisitori dei vicini, gli inviti che cessano di arrivare, le mezze parole, per aver difeso un «plagiatore». Ecco perché in fondo l’intellettuale schierandosi sul grande tema  della pace e contro la guerra assolveva al suo compito anti-potere conservando la sua comodità quotidiana. I suoi territori intonsi. Pasolini sul caso Braibanti fu tra i pochissimi a prendere posizione, lucidamente, insieme a Marco Pannella. A schierarsi a favore del primo caso ufficiale di amore negato tra due persone consenzienti, dello stesso sesso e maggiorenni. Braibanti pagava tutto,
l’essere omosessuale e l’essere stato partigiano, ma soprattutto pagava la sua marginalità. Fu il capro espiatorio ideale e, il caso che lo vide protagonista, una cicatrice che in Italia non potrà mai sanarsi. Un uomo condannato per aver  «plagiato» una persona per di più maggiorenne: quale codice penale del mondo potrà mai contemplare un simile reato?

Recensendo I cani del Sinai di Franco Fortini, Pasolini scrive: «Le nostre antipatie per certi tipi di persone, il fastidio violento che ci danno certi corpi, sono archetipi di un tale odio razziale che proviamo, sia pure in modo monco o embrionale e che cade, quindi, sotto il dominio della nostra esperienza». E poi afferma: «Negri, sud europei, banditi, sardi, arabi, andalusi hanno tutti in
comune la colpa di avere i visi bruciati dal sole contadino, dal sole delle epoche antiche». Le riflessioni che Pasolini e Fortini fanno sul razzismo collidevano con la convinzione di chi credeva con fiducia - ed erano in molti che si trattasse di un fenomeno che stesse scemando. I due scrittori erano in realtà convinti che sarebbe aumentato vertiginosamente.

È anche modernissima la riflessione che lui fa sulla differenza tra libro e film: del libro parla come di un prodotto artigianale, che si scrive proprio come si fa una sedia e che vede l’intervento dell’editore solo per pubblicarlo e distribuirlo. Invece un film non può esistere senza finanziamento, ne ha
bisogno e ne è dipendente. Per questo lui raggiunge una riflessione dentro la contraddizione: «Se voglio fare dei film, il meglio che ancora posso fare è operare contemporaneamente su due piani: sfruttare cinicamente le strutture industriali già esistenti (qui comprende in questo cinico sfruttamento anche i festival e nel tempo stesso lottare perché i modi di produzione cambino e perché i festival diventino delle rassegne squisitamente e democraticamente culturali». In queste parole c’è la soluzione eterna al quesito: ma si può lavorare con l’arte per trasformare il mondo quando quest’arte è finanziata dagli stessi che sostengono le logiche e le prassi che l’arte vorrebbe scardinare? Non c’è altro da fare che stare in questa contraddizione e provare a trasformare le rassegne, a portare nuove idee al pubblico, a vivere sempre tra il mercato e la libera creazione, tra il marketing e la scelta autoriale.

Pasolini disprezza la critica italiana che ha ignorato Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante. Si aspettava un successo di critica e di pubblico che non c’è stato. Lui definisce il libro della Morante «Un manifesto politico scritto con la grazia della favola». E le riconosce grande coraggio nel compiere questa scelta del non successo, perché in un momento in cui la grazia e l’umorismo erano visti con grande diffidenza a lei non era importato e aveva realizzato e costruito il suo libro con grazia e umorismo.

Pasolini non teme di soffrire pubblicamente in questa sua rubrica che diventa per lui un’occasione di contatto quasi fisico con i lettori. Soffre fino a domandarsi: «Perché ho scritto questo articolo quando so che tutti dopo averlo  letto e magari dopo averne condivise molte idee lo rimuoveranno dalla propria memoria, lo svuoteranno di continuità?». Allo stesso tempo, soffre per le lettere che riceve. Se vivesse oggi soffrirebbe per i commenti sui social network. Parla in particolare di una lettera, e anche questa sembra incredibilmente attuale: un comunista del napoletano gli scrive e lo invita a
vergognarsi, rimproverandogli di essere passato da «Vie Nuove», il giornale comunista, a «Tempo». Ipotizza anche che un giorno scriverà per il «Corriere della Sera», considerato il naturale destino di tutti gli scrittori arrivisti (Pasolini scriverà poi effettivamente sul «Corriere della Sera»). Pasolini afferma che questa lettera è tanto sgradevole quanto ingenua. Sono in molti a pensare che scrivere su giornali definiti borghesi sia un gesto di carrierismo, o un segno di debolezza morale per cui Pasolini si offrirebbe all’assimilazione dei peggiori meccanismi del sistema capitalista che combatte. Lui richiama il diritto alla contraddizione, sostenendo di aver assunto, grazie alla fama dei suoi libri, una
specie di ruolo pubblico che lui vorrebbe negare, un’autorità che ricaccia rifiutando di comportarsi come una persona pubblica, ma dalla quale è  impossibile dare le dimissioni. È incredibile quanto sia stato profetico contro il terrore dell’autorità e della contraddizione, per questo lui diceva «Io non ho
paura di espormi e di discutere».

Dice Brecht: «Molti di coloro che sono perseguitati perdono la facoltà di riconoscere i propri difetti». Pasolini si sente descritto e definito da questa frase. Non teme di apparire paranoico. Nel settembre del ’69 scrive: 

«Cambierei idea (sul fatto di essere perseguitato) solo se mi fosse messo davanti agli occhi un pezzo di carta stampata in cui si parla di me non dico con la benevolenza, ma almeno con l’oggettività con cui si parla degli altri miei colleghi. Ciò che dico è meschino, ma non è che mi lamenti. Io, solo come mi trovo, fuori da ogni codice per non dire da ogni legge, mi arrogo la facoltà di un’assoluta indipendenza di pensiero e di parola: è giusto quindi che la paghi, appunto, con una forma di persecuzione. Processi a non finire nel migliore dei casi, o una persecuzione all’italiana, nei giornali e nella televisione». 

Ecco quindi che Pasolini sa di essere un perseguitato, ne parla, sanguina per la persecuzione all’italiana, accuse, voci, calunnie, mezze parole. Le voci che l’hanno inseguito quando era a Ostia, la persecuzione che nasceva da storielle piccanti completamente inventate e riferite, l’idiozia che tutti raccontavano che si fosse presentato in ospedale con un remo nell’ano, cosa che lo lasciava affranto e dentro una condizione di ineluttabilità. Ossia, essere determinati dalle calunnie delle persone. Oppure l’incredibile processo a cui era stato sottoposto nel ’61 per rapina a mano armata, con lo scopo - individuato dall’accusa - di capire che cosa si provasse nel rapinare e poterci poi scriverne sopra. Il processo si era aperto a Latina, dove l’avvocato di Pasolini, Francesco Carnelutti, venne subito sospettato di esserne l’amante. In quella sede Pasolini venne condannato a quindici giorni di reclusione, più cinque per porto abusivo di armi da fuoco e obbligato al pagamento di cinquemila lire di multa per la mancata denuncia della pistola. Pasolini non aveva una pistola, non aveva mai fatto una rapina, e la presunta pistola della condanna non fu mai trovata né a casa di Pasolini né in qualche campagna. Una condanna per una pistola fantasma. Ovviamente i difensori presentarono appello e gli venne concessa l’amnistia dalla Corte d’Appello di Roma. Un altro avvocato di Pasolini, Berlingieri, ricorse in Cassazione per ottenere l’assoluzione piena, ma si dovette accontentare semplicemente dell’assoluzione per mancanza di prove.

Questo processo distrusse l’equilibrio di Pier Paolo Pasolini perché, pur essendo chiaramente una farsa, se ne parlò molto; venne addirittura prestata fede a falsi testimoni che si presentarono come vittime dei giochi del regista vizioso. Dopo questo processo, smontato mediaticamente solo dopo la sua morte, in Pasolini venne meno la fiducia.

Il caos è un libro costruito a strati. Ha molte anime, forse proprio perché non era nato affatto per essere un libro. Pasolini non ha controllato le sue fragilità, non le ha esorcizzate in personaggi, non le ha rese materia narrativa. Le ha solo riportate. In queste pagine Pasolini ha il suo cuore sulla carta. Sanguina quando scrive questa rubrica. A metà del suo lavoro tenta un consuntivo: si è fatto molti nemici in più, ha detto cose che non avrebbe voluto dire, qualche volta ha fatto male, qualche volta ha fatto bene. Proprio così dice. Ma tutto ciò l’ha fatto per allontanare da se' quel nobile silenzio che detesta. Certo, detesta anche la prosa affrettata, ama quella curata sin nel dettaglio, peraltro difficile
da ottenere per una rubrica le cui consegne sono immediate, preferisce tuttavia una prosa veloce, l’errore piuttosto che il silenzio. Gli scrittori - dice - devono sempre scrivere come se le loro parole restassero in eterno, ma se accettano di scrivere su un giornale devono cambiare il loro stile e quindi accettare i dettami del quotidiano e scrivere sapendo che quelle parole dureranno pochi giorni, poche ore, ma se lette si trasformeranno in parte della vita del lettore. E questo è il premio della scrittura. Non solo, sa che in «Caos» «ho parlato troppo di me», sa che questo è un problema, non vuole fare mea culpa, perché  ciò che si scrive deve sempre avere un’anima riconoscibile, quasi tangibile.

Un’anima assume sulle sue spalle la responsabilità di ogni virgola. Nulla deve essere scritto impersonalmente, come se non appartenesse al suo autore. Nulla può essere oggettivo, ma tutto estremamente, odiosamente soggettivo. Non serve per scrivere la giusta distanza, ma la giusta vicinanza, quella che ti fa essere impressionista e analista al contempo, metodo che procede per zoomate veloci, quasi vertiginose.

L’Italia ha dimenticato presto tutto questo, ha dimenticato che Pasolini è stato un vaso pieno, colmo fino a straripare. Che Pasolini e stato colui che ha portato su di sé le contraddizioni di un intero paese che stava cambiando senza che ci fosse una reale evoluzione. L’Italia ha dimenticato la persecuzione che Pasolini ha subito dalla Magistratura italiana. Era il primo bersaglio dei pubblici ministeri che, attaccandolo, diventavano volti noti sui giornali.

Quando fu assolto Teorema, il suo film, il pm criticò la sentenza dicendo che il tribunale aveva confuso il costume col pudore, sostenendo che il costume può cambiare ma il pudore è eterno. Pasolini si trovava sempre a dover contrastare quello che è il comune senso del pudore, questa indecifrabile categoria che i pm di allora cercavano di difendere. Chiesero sei mesi di carcere per Teorema e le battaglie di Pasolini nei tribunali furono fondamentali per cercare di sottrarre al tribunale il giudizio sull’opera. Nei procedimenti contro di lui, sostanzialmente, ai tribunali veniva dato di decidere se quelle di Pasolini  fossero opere d’arte oppure no. Ma un tribunale come poteva decidere se un’opera fosse effettivamente d’arte? Non poteva certo stabilire se fosse bella o brutta, questo attiene al gusto, ma nello stabilire l’appartenenza o meno alla categoria delle opere d’arte al tribunale spettava una decisione grottesca: o è poesia o si va in prigione.

Pasolini, in quanto intellettuale, risponde all’accusa di essere egocentrico affermando: 

«Sì. Sono egocentrico come tutti gli autori di poesia, di romanzi o film. Non posso non essere autore anche tenendo un’umile rubrica settimanale? Devo, sono l’autore e devo pormi al centro di tutto». 

Pasolini non ha paura di affrontare i rischi dell’essere intellettuale, anche quando significa risultare odioso. Una giornalista lo chiama per un articolo sul successo di pubblico che La caduta degli Dei e Satyricon stavano riscuotendo, voleva l’opinione di Pasolini che si mostrò invece infastidito perché tra i film di successo non era citato il suo Porcile. Risponde così: «Considero quei due film inferiori al mio Porcile. Il successo di pubblico di quei due film è dovuto al fatto che sono commerciali». Ovviamente si penti di aver detto quella frase, però ebbe la capacità di accogliere e non nascondere la sua debolezza. Ecco perché considero questo libro un capolavoro e onora scrivere queste righe
d’accompagnamento, perché svela quello che ciascuno di noi fa fatica a dire chiaramente. Qualsiasi regista avrebbe finto, parlando bene dei colleghi, lui no e non per onestà o per invidia, ma per quell’egocentrismo artistico che lo ha  portato a essere una figura centrale, per quell’essere naturalmente squilibrato come ogni artista deve essere. Nella moderazione, nell’equilibrio, nel pesare le parole e nel ponderarle sempre non può esserci creazione artistica ma solo  buone maniere. Pasolini amava le buone maniere e della grazia fece cifra (come il suo amico Enzo Siciliano) nella sua vita quotidiana. Ma nella creazione artistica, nella frase, l’esagerazione, il cercare sempre di rompere gli
argini sentendosi sempre scomodi è l’impulso unico per produrre arte. In «Caos» Pasolini ha parlato troppo di sé, per fortuna. In questo modo ha scandagliato l’umano. Il terribilmente umano. La sua grazia, la sua tragedia.

Roberto Saviano




@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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