"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Intervista rilasciata da Pier Paolo Pasolini
a Maurizio Ponzi
«Filmcritica», nn. 156-157, aprile-maggio 1965;
ora in Pasolini per il cinema, tomo II, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli,
Meridiani Mondadori, Milano 2001
Questa è la terza intervista che lei ha con «Filmcritica»; nelle altre due si è parlato di Accattone e di Mamma Roma, ora dedichiamoci al Vangelo. Cominciamo da una sua dichiarazione, cioè che fra i suoi registi preferiti c’è Mizoguchi. A noi è sembrato di poter rintracciare nel ritmo del Vangelo un ricordo del grande regista giapponese; oltre che Ejzenštein, magari Que Viva Mexico!
Se dovessi indicarle i punti nei quali è riconoscibile Ejzenštejn potrei farlo, e anche i punti in cui ho pensato a Dreyer, per esempio Giovanna d’Arco, sono reperibili facilmente, proprio col loro valore di citazione e di pastiche che hanno in un film del genere. Per quanto riguarda Mizoguchi, penso che forse si può riconoscere qualcosa concretamente nella sequenza del deserto, quando arriva il diavolo, oppure la corsa che fa Giuda per impiccarsi. Ma forse sono pure coincidenze; due fatti esteriori. Mi piace Mizoguchi - guardate è la prima volta che sono costretto a pensarci - lo amo e lo avevo presente così, come modello per cui probabilmente avete ragione voi, viene fuori nel ritmo del film.
Attribuirebbe a ciò il rallentamento di ritmo della parte centrale del Vangelo che molti critici le hanno rimproverato?
No, poiché una cosa è un ritmo lento e una cosa è una lentezza. Secondo me i critici hanno avuto ragione di trovare una certa lentezza a metà Vangelo perché era veramente una cosa senza ritmo, ma d’altra parte non è dipeso da me in quanto ho finito il film proprio la notte prima della sua presentazione a Venezia e alcune cose sono rimaste un po’ inespresse. Dopo ho ritoccato. Cioè dove invece di un ritmo lento c’era solo della brada lentezza ho modificato, ho distribuito le scene in altre parti del film, ho scisso questo punto lento e ora credo che il film abbia tutto questo ritmo lento, che sia però ritmo insomma. Ho fatto anche dei rifacimenti al doppiaggio.
Pensa si possa definire un film storico?
È indubbiamente un film storico per tutti i lati esteriori che vi sono, però in realtà poi non lo è perché il film storico presuppone soprattutto una fedeltà alla storia e quindi una ricostruzione storica. Ora, una fedeltà alla storia in quanto storia non c’è indubbiamente, perché la storia è tutta mitizzata. Io ho preso la visione storica esattamente come la vedeva Matteo, il quale non aveva una visione storicistica, e nemmeno storica, ma solo mitica. Io ho cercato di riprodurre questo. Il mio interesse principale, il mio obiettivo non era la storia, ma il mito. In secondo luogo non c’è stata nessuna ricostruzione storica neanche nell’ambito del mito perché non ho ricostruito niente. Avrete visto che le bambine avevano gli orecchini della prima Comunione, cioè non ho fatto ricostruzione storica, ma il film è costruito tutto in una specie di serie di ricostruzioni per analogie. Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia operazione questo tema dell’analogia che sostituisce la ricostruzione.
Come porrebbe Il Vangelo secondo Matteo accanto a certi film americani d’analogo soggetto, Il re dei re di Nicholas Ray fino ai centoni tipo Salomè?
La differenza è fondamentale. Le operazioni sono stilisticamente completamente diverse. Nella mia c’è prevalenza di ricerca poetica, invece in quella di questi registi la ricerca principale è la ricerca illustrativa. C’è la differenza che esiste fra un’opera che vuole essere poesia e un’opera che vuol essere illustrativa. Capisco che tante volte anche attraverso l’illustrazione si possa arrivare alla poesia. Ci sono dei film umilmente illustrativi che portano a un tale grado di purezza e raffinatezza l’illustratività che possono diventare opere d’arte. Per esempio mi ricordo un film di Buñuel, Le avventure di Robinson Crusoe che è puramente illustrativo, ma una serie di tableaux così riesce ad avere un filo di poesia. Invece ci sono film che puntano alla poesia e poi crollano miseramente nella poeticità più generica e più vaga. Quindi la differenza fondamentale, teoricamente, è che l’obiettivo della mia ricostruzione era la poesia delle cose che rappresentavo, mentre in quegli altri l’illustrazione.
E in che posizione si mette nei confronti del Francesco giullare di Dio di Rossellini?
Forse da altre mie interviste non è risultato, ma io pongo questo film di Rossellini fra i più belli del cinema italiano. La differenza col Francesco però è questa: che il Francesco è l’estremo, quasi ormai fuori stagione, prodotto del neorealismo, sia pure un neorealismo reso fantastico dalla ricostruzione storica, ma che resta completamente nell’angolo visuale del neorealismo. Invece nel Vangelo c’è un altro momento storico che tiene conto di altri problemi che Rossellini a suo tempo non poteva nemmeno immaginare, evidentemente. Cioè, per dire stilisticamente, lo sguardo di Rossellini è uno sguardo sempre molto fotografico e realistico, anche nel senso di naturalistico e la poesia è di tipo sentimentale-lirico. Il mio invece è uno sguardo un po’ meno fotografico e forse più figurativo e la poeticità mia è meno lirica e più epica.
Che cosa lo ha spinto a scegliere il Vangelo? E a rispettarlo così fedelmente?
La prima idea è stata irrazionale, è stato veramente un momento irrazionale. Leggendo il Vangelo mi è venuta l’idea di fare il film. Perciò una idea più spontanea, irrazionale e brutale di così è impossibile concepirla. Poi, naturalmente, ho elaborato quest’idea però restando sempre attaccato a questa prima idea irrazionale. Si spiega soprattutto, questo mio fare Il Vangelo, come un atto culturale, nella mia carriera personale di autore, come un revival, un risorgimento irrazionale, in tutta una ricerca culturale che era durata dieci anni, per esempio la rivista «Officina». Tutte le mie idee sulla letteratura e sul cinema in questi dieci anni avevano subìto una rottura, dovuta probabilmente a delle ragioni oggettive, cioè a un cambiamento oggettivo della realtà storica, oltre che a miei motivi personali. E stata questa una coincidenza probabilmente, nell’oggettività e nell’intimità, e infatti vedete che siamo in piena crisi. Cioè tutto il razionalismo ideologico elaborato negli anni Cinquanta, non solo in me ma in tutta la letteratura, è in crisi, le avanguardie, il silenzio di molti scrittori, le incertezze ideologiche di scrittori come Cassola o Bassani, c’è aria di crisi dappertutto e evidentemente c’era anche in me. In me ha assunto questa specie di regressione a certi temi religiosi che erano stati costanti, però, in tutta la mia produzione.
Non mi sembra ci si debba meravigliare davanti al Vangelo quando leggendo tutto quello che ho prodotto una tendenza al Vangelo era sempre implicata, fin dalla mia prima poesia del ’42 dove c’era un Cristo che si identificava in un figlio che parlava con una madre in un ideale giorno di Pasqua e il figlio concludeva dicendo: «Cristo è oscura luce». Quindi un tema lontanissimo nella mia vita che ho ripreso, e l’ho ripreso in un momento di regressione irrazionalistica in cui quello che avevo fatto fino a quel punto non m’accontentava, mi sembrava in crisi e mi sono attaccato a questo fatto concreto di fare il Vangelo. Questo per spiegarlo nella mia storia personale.
Poi naturalmente io nel fare il Vangelo ho voluto tenermi assolutamente fedele a Matteo per delle ragioni estetiche, perché mi sembrava la cosa più giusta, anche storicamente, perché non volevo fare una vita di Cristo, non sentivo né il desiderio di farla, perché non avevo idee teologicamente o socialmente precise su quello che avrei fatto, non volevo comporre i Vangeli e ricostruire una vita di Cristo con dei dialoghi aggiunti eccetera; volevo farla veramente con Matteo e sono rimasto fedele a questa idea.
Poi nel farlo io tendevo a forzare la materia nella direzione dell’attualità e mentre lo facevo credevo che questo avesse un grandissimo peso - parlo sinceramente con voi, è un po’ una confessione, non sono dei pretesti -, pensavo avessero più peso dei miei richiami a temi attuali. Per esempio quando facevo i soldati di Erode vestiti da fascisti, o i soldati romani come la «Celere», quando facevo Giuseppe e Maria profughi come i profughi spagnoli che passavano i Pirenei e così via, credevo che queste cose venissero fuori molto di più, cioè credevo di poter attualizzare il Vangelo senza toccare l’intima fedeltà che avevo stabilito fin dal principio e che era la mia metrica; una volta scelta una metrica un autore non può non esserle fedele, cioè credevo in realtà che il film fosse molto più espressivo, più violentemente espressivo, più magmatico, più espressionistico di quello che è risultato alla conclusione. Cioè tutti questi richiami all’attualità, queste citazioni di Dreyer, di Mizoguchi, questo insieme di fatti espressivi e espressionistici, che credevo saltassero molto fuori, in realtà si sono poi livellati nell’insieme del film, hanno raggiunto una loro specie di fermezza, di distacco, che io non avevo calcolato e che è venuto fuori quasi a mia insaputa e quindi mi sto ancora chiedendo io stesso il perché.
Comunque per quanto riguarda le citazioni forse è meglio così.
Forse sì, forse sarebbero state brutte, delle forzature; se nel film tutto distaccato, dai tratti puri, unilinguistici, fosse saltata fuori una citazione sarebbe stato un urto. Ma se il film fosse stato tutto magmatico, pieno di punte espressive, irto come un istrice, come pensavo fosse mentre lo giravo, allora ogni citazione sarebbe stata giustificata. Come sarebbe giustificato il trauma dato dai fascisti. Invece no, anche i fascisti, non so perché, sono prati livellati. Sì, il pubblico lo sente, ma non è violentemente urtato. Nei miei calcoli l’urto doveva essere più forte. Invece tutto è rientrato un po’ dietro una specie di vetro, un vetro che stacca le immagini da ogni violenza espressiva. Per concludere, in realtà, il valore del film dal punto di vista religioso non ha più significato che altre cose precedenti della mia opera di carattere religioso. Cioè questo tema religioso c’è, ma non c’è stato nessun avvicinamento alla religione, alla confessione cattolica, nemmeno per idea, sono rimasto ateo com’ero prima, marxista com’ero prima. Semplicemente ho coagulato una serie di temi religiosi e irrazionali che erano sparsi in tutta la mia personalità, sia di scrittore che di uomo. Ma una certa funzione di tipo vagamente religioso, di dialogo con coloro che fanno della religione la loro ideologia, il film penso debba averla, lo pensavo, speravo che l’avesse. Cioè il fatto che un marxista possa fare un film così senza rinunciare alle proprie idee, semplicemente coagulando nelle immagini una propria esperienza confusamente religiosa, mi pare dovrebbe essere significativo per i cattolici e significativo per i marxisti. Questo valore di pietra di paragone per un possibile dialogo che sembra si stia aprendo, sia da parte dei migliori cattolici che dei più intelligenti comunisti, mi pare sia un sintomo abbastanza tipico.
Del resto Marx stesso era molto meno rigido a riguardo di certi marxisti di oggi.
Io avrei potuto demistificare la reale situazione storica, i rapporti fra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare quella figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal cattolicesimo della Controriforma, avrei potuto demistificare tutte queste cose, ma, poi, come avrei potuto demistificare il problema della morte? Cioè il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è demistificabile.
Parliamo un po’ dei richiami pittorici rintracciati sul Vangelo.
Io ho studiato con Longhi a Bologna, dovevo laurearmi con lui, poi persi la tesi durante la guerra e dovetti laurearmi sul Pascoli, ho quindi, una formazione di fondo pittorica, ho un grande amore per la pittura, per una certa pittura del Quattrocento, del Cinquecento, cioè, per esempio, Masaccio, Piero della Francesca, la scuola officina ferrarese, un po’ il gusto di Longhi che mi è rimasto dentro come rimangono dentro le cose della formazione giovanile. Questa mia formazione figurativa pesa sì in tutti i miei film, cioè l’immagine la vedo sempre più figurativamente che fotograficamente e credo per Accattone d’aver pensato spesso a Masaccio. Non imitandolo per certe inquadrature, ma proprio pensandoci come sostanza, come modo di vedere certe facce, certa gravità della materia. Sempre però cercando di non riprodurre nelle inquadrature un quadro.
La pittura fa parte della mia intelaiatura culturale e deve apparire implicitamente, se qualche volta appare esplicitamente lo appare al di fuori dei precisi riferimenti pittorici e quando mi accorgevo dietro la macchina da presa che qualcosa potesse ricordare la ricostruzione di un quadro, distruggevo immediatamente. Cercavo di fare tutto il più cinematograficamente possibile. Però naturalmente degli echi della pittura ci sono, c’è Duccio, c’è il Mantegna, ma non certo un pittore preciso o una scuola precisa, riferimenti generici. Quello che si vede di più è Piero della Francesca però, i vestiti dei farisei e dei soldati romani sono presi proprio da Piero della Francesca.
Cosa ci può dire sul colore che lei ha usato in La ricotta?
Beh, io ho voluto riprodurre, tali e quali, due quadri, uno di Rosso Fiorentino e uno del Pontormo. Riproducendo tali e quali i quadri, ironizzando soltanto sulle facce, ma lasciando uguale la composizione, ho lasciato uguali anche i colori. Se ci sono diversità è questione di stampa.
Praticamente lei non ha mai affrontato il problema del colore.
Sì, è così. Questa introduzione stilistica faceva parte del pastiche stilistico e generico della Ricotta, non che avesse un valore particolare.
Ci sono differenze fra La ricotta contenuta in Rogopag e quella di Laviamoci il cervello?
No, no. Tagli veri e propri non ce ne sono stati. Piccole cose per ottenere il dissequestro.
Vuole dirci qualcosa di Comizi d’amore? Abbiamo sentito parlare di cinéma vérité.
Casualmente, perché di cinema verità potrei parlare più a ragion veduta per certi pezzi del Vangelo, per esempio i due processi, quello di Caifa e Ponzio Pilato, li ho girati un pochino con la tecnica che si potrebbe usare in un documentario, ecco. In Comizi d’amore la cosa è venuta fuori da sé, senza che io lo sapessi da principio, il film doveva consistere in una serie di interviste di tipo televisivo, alternate a dei pezzi di repertorio, crimini a fondo sessuale eccetera. Poi il film è diventato interamente fatto di interviste e con questo s’è avvicinato di più a questo cinema verità. Ma insomma è stato un approdo più che una partenza.
Niente a che vedere con i film di Marker o Rouch?
Tra l’altro non li ho visti.
Ma è d’accordo che già in un’intervista preparata un principio del cinema verità viene meno?
Certo. Ma, ripeto, si tratta di interviste di tipo televisivo, più modestamente.
Conosce il nuovo cinema francese? Per esempio Godard?
Lo conosco poco, purtroppo. Godard lo conosco e mi piace moltissimo, anche se per ora ho visto solo À bout de souffle e Il nuovo mondo, l’episodio di Rogopag. Mi piace perché Godard distrugge certe convenzioni stilistiche precedenti a lui, usa invece certi nuovi procedimenti, per esempio il Rossellini di Viaggio in Italia. Fa tutto con una tale vitalità, con una tale capacità figurativa che mi sembra veramente poetico. Degli altri ho visto I 400 colpi di Truffaut, che mi sembra molto bellino, ma molto meno vitale di Godard. Ci sono le stesse componenti stilistiche che in Godard, soltanto che in Truffaut si compongono diligentemente, aggraziatamente in un raccontino delizioso, invece Godard rimane aperto, è più inventivo.
E il cinema americano? Pensa anche lei come gran parte della critica italiana che Hollywood sia sintomo di evasione?
Da qualche anno in qua, direi di sì. L’ultimo film americano bello è Ombre di Cassavetes. Poi ogni tanto salta fuori un colosso, qualche cosa mostruosa, come Il dottor Stranamore che non è male, un film cadaverico, privo di vitalità, ma non brutto. Recentemente ho visto Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo che mi ha abbastanza impressionato, non tanto per quello che è il film, quanto per quello che Kramer oggettivamente rappresenta, quello che la «camera» riesce a prendere, quella grandiosità, quella immensità, quegli orizzonti dilatati che per noi sono inconcepibili. Pensavo al film se fosse stato fatto in Italia. La miseria aneddotica, le straducole italiane, i provinciali italiani... C’è un certo piglio epico, grandioso che è abbastanza interessante, ma mi sembrano casuali queste cose, ecco.
Nomi come quelli che avanziamo noi e la critica francese?
Beh, Hitchcock è un vecchio amore, condiviso da tutti i cineamatori, ma non mi ha mai molto entusiasmato. Poi, non ho visto i suoi ultimi film, l’ultimo è La congiura degli innocenti.
E di Bresson cosa pensa?
Di Bresson ho visto e trovo stupendo Un condannato a morte è fuggito. Lo trovo uno dei più bei film degli ultimi dieci anni, del dopoguerra. Non c’è dubbio.
Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:
Mario Pozzi
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi
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