"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
UNA FIABA NELLA FIABA
Intervista a Roberto Villa
Intervista a Roberto Villa
Quando ha incontrato per la prima volta Pier Paolo Pasolini?
Nel 1972 a una tavola rotonda alla Casa della cultura di Milano. Credo che fosse una delle prime occasioni, se non la prima i...n assoluto, in cui ci si interrogava sulle conseguenze delle interruzioni pubblicitarie. Da un paio d‟anni erano operative alcune televisioni private come Telebiella. Alcune si limitavano a interrompere il film durante l‟intervallo fra primo e secondo tempo, altre avevano già „imparato‟ a piazzare i blocchi pubblicitari nei momenti di massimo
coinvolgimento del racconto. La parte più importante del convegno riguardava il processo linguistico, lo spostamento di contesto dal rituale della sala cinematografica al film consumato in cucina, lo slittamento semantico dovuto alla riduzione dello schermo, e così via. Gli addetti ai lavori della televisione sostenevano che ne sarebbe derivato un „arricchimento culturale‟ allo spettatore, e i limiti di tale „arricchimento‟ potevano risiedere semmai nella rigida censura operata dalla Rai. Cosa che avrebbe „fatto scuola‟ per tutta la nascente emittenza. Altri „televisivi‟ ipotizzavano che i privati, al contrario, avrebbero potuto indurre la Rai ad am-morbidire le maglie della censura, per evitare di perdere audience. Oltre a Pasolini, intervenne anche Morando Morandini. Pasolini sosteneva che non tutto poteva essere trasmesso, e non per ragioni censorie, ma per riguardo a tutti coloro che potevano essere offesi dalla visione di qualcosa che non avrebbero potuto capire. Cessata la tavola rotonda, avvicinai Pasolini per dirgli del mio interesse sui meccanismi della comunicazione audiovisiva che aveva trattato, e che mi sarebbe piaciuto incontrarlo per parlargliene. Mi ero presentato come fotografo e lui accennò al film che stava preparando, tratto dalle Mille e una notte. Senza esitare, mi diede il suo indirizzo a Roma in via Eufrate, dicendomi che sarebbe partito dopo pochi mesi per le riprese. Se fossi stato interessato, avrei potuto raggiungerlo in Medio Oriente sul set. Lì avrei potuto vederlo al lavoro e magari avremmo potuto riprendere il discorso. Pasolini mi sembrò subito una persona che non saliva mai in cattedra ma semplificava le cose per stabilire subito un dialogo reale e concreto. Parlava in modo autentico e immediato.
Quali opere conosceva di Pasolini?
In quel periodo era appena uscito Empirismo eretico, che fra l’altro raccoglieva i suoi scritti sul linguaggio cinematografico... Non conoscevo Empirismo eretico ma avevo letto alcuni dei suoi testi pubblicati in riviste. Avevo visto molti suoi film, amando soprattutto Uccellacci e uccellini. Negli anni Sessanta, a Genova, ero stato fra i fondatori di un cineclub, il Club del porto, dove organizzavamo anche incontri e presentazioni con critici della città, come Claudio G. Fava o Claudio Bertieri. In quel periodo avevamo programmato anche I racconti di Canterbury.
Qual’era la sua opinione sulla Trilogia della vita? Avevo trovato molto interessanti Il Decameron e Canterbury. Non condividevo il punto di vista di chi accusava Pasolini di essersi „venduto‟ al cinema spettacolare o peggio. Non apprezzavo la critica ideologizzata, di fatto era una forma di „interpretazione contenutistica‟ lontana dall‟analisi del processo linguistico, che a me invece ha sempre interessato più di tutto. Mi affascinava la corporalità del cinema di Pasolini, questa raffigurazione dell‟eros disinibito e la sua audacia autentica e provocatoria. Del resto, io avevo iniziato a fotografare nudi dal 1967. A quell‟epoca facevo perlopiù fotografia sperimentale e fui chiamato da Franco Valobra per collaborare a “Men”. Mi sentivo un ingegnere elettronico prestato alla fotografia e di questa arte mi interessavano soprattutto le potenzialità sperimentali offerte da un processo linguistico molto usato ma poco conosciuto come tale. Per il lavoro che contavo di realizzare sul Fiore delle Mille e una notte mi rivolsi a tre riviste, “Esquire”, “Tv Sorrisi e canzoni” e “Playboy”. Quest‟ultima fu subito interessata a un servizio in esclusiva sul nuovo film di Pasolini.
Può raccontarci il suo arrivo sul set?
Come nei racconti di appendice „circa sei mesi dopo‟ ero ad Aden, dove continuavano le riprese già iniziate in Eritrea. Pasolini era concentratissimo nella lettura e riscrittura di un fascicolo di carte, con mille foglietti mobili, il copione. Sembrava che nulla lo disturbasse. E comunque tutti i collaboratori, sia sul set in interni sia in esterni, stavano attenti a non disturbarlo. Ogni tanto qualcuno sussurrava “speriamo bene”. Era dovuto al timore di cambiamenti o imprevisti che potessero complicare le attività che ruotavano intorno alle riprese, già complicate. Pasolini era onnipresente e discreto al tempo stesso, non si imponeva mai ma era circondato da una forma di stima e simpatia molto intensa da parte dei suoi collaboratori, tanto che quando esprimeva una necessità, tutti si facevano in quattro per soddisfarlo. Probabilmente era dovuto al suo modo di fare gentile e disponibile ma anche molto determinato e deciso.
Pasolini appariva instancabile, più che correre volava, direi, si arrampicava sui muri con la cinepresa per vedere quale potesse essere la migliore inquadratura, correva da una parte all‟altra del grande piazzale della moschea di Isfahan per controllare campo e controcampo, sostituiva spesso l‟operatore e riprendeva direttamente la scena, parlava con Dante Ferretti per le scenografie e l‟impiego dei costumi, in sostanza copriva una dozzina dei ruoli dettagliati nei titoli di coda. L‟aiuto Umberto Angelucci, l‟assistente Peter Shepherd, il direttore della fotografia Giuseppe Ruzzolini, il direttore di produzione Mario Di Biase avevano da tempo rinunciato a tenergli dietro. Come accadeva per altre troupe italiane, la giustapposizione dei ruoli era una costante: gli attori diventavano carpentieri, i trasportatori del posto diventavano comparse, la giovane iraniana diventava una controfigura in una scena di nudo e un ragazzino italo-persiano diventava una paffuta fanciulla in un episodio del film... La scelta di ragazzi del popolo, completamente ignari di recitazione e dizione, obbligava Pasolini a infinite ripetizioni di una stessa scena. Una di queste a Isfahan, sul piazzale della moschea, è stata ripetuta ben quarantatré volte. Furono lunghe anche le riprese della sequenza di Zumurrud e Nur ed-Din, quando si ritrovano e lei gli infligge quel piccolo gioco sadico, mettendolo a sedere all‟aria. Era ambientata nella sala degli specchi, che in realtà era la parte alta di una navata della moschea: un sacrilegio che, se fosse stato scoperto, sarebbe costato caro a tutti. Accadeva che si facessero levatacce alle quattro di mattina, o di notte a seconda dei punti di vista, per muoversi con dei pullman scassati per raggiungere luoghi da favola che le lunghe ombre rosate dell‟alba rendevano ancor più fantastici.
Come ha proceduto con il suo lavoro?
Il mio lavoro fotografico consisteva proprio nel muovermi all‟interno e all‟esterno di quel caos organizzato per catturare le immagini dei movimenti del „coro‟ e dei singoli attori, per descrivere i posti e le persone, per cogliere volti ed espressioni. Cercavo la luce della pittura fiamminga. Usavo il 24mm, con un‟ampiezza d‟angolo di quasi cento gradi, e le figure erano vicine. Non lavoravo solo col teleobiettivo. Usavo tutta la gamma degli obiettivi dal grandangolare al 200400, calibrandola sulle esigenze di volta in volta. Fotografavo molto anche l‟esistente, l‟umanità circostante. Ho sempre rifiutato l‟uso del flash per la sua „illuminazione artificiale‟ e non lo usavo, la luce ambiente può essere „altamente pittorica‟. Ero affascinato dalla fisicità dei volti. Mi ricordo che Franco Citti partecipava a tutto ma era poco socievole. Ines Pellegrini era timorosa di mostrarsi nuda ma poco alla volta si rassicurò, perché c‟era un clima di grande rispetto. Pasolini parlava poco con gli attori, si limitava a indicare loro l‟essenziale. Parlava più a lungo con il direttore della fotografia, Ruzzolini, o con l‟operatore, quando, appunto, non era egli stesso a farlo, il che accadeva spessissimo. Era molto attento a tutti i dettagli figurativi, a cominciare dai costumi.
Avete ripreso la conversazione iniziata a Milano?
Sono riuscito a dialogare sul linguaggio del cinema cogliendo Pier Paolo subdolamente durante la distribuzione del cestino, che, come sempre, non avveniva mai all‟ora di pranzo ma a qualsiasi ora in cui fosse possibile fermare le riprese. Gli ho chiesto, con una certa riverenza, quale fosse il suo pensiero sulla modifica del linguaggio apportata dall‟impiego di ottiche speciali, di tele o grandangoli, con la zoomata, o di effetti come il rallentamento o l‟accelerazione, le sovrapposizioni, eccetera. La prima osservazione che mi fece fu un appunto sulla “volgarità dell‟effetto dovuto alla zoomata”, aggiungendo “Io non la uso mai”. Non fu altrettanto chiaro e deciso su come cambi il senso di una scena a seconda delle ottiche adottate. Il grandangolo, ad esempio, sia negli spazi sia sugli attori, introduce deformazioni prospettiche rilevanti che non possono essere ignorate in quanto acquisiscono un concreto peso semantico. Rispose parlando di un uso “poetico”. Ricordo che mi riferivo a Umberto Eco e ai suoi scritti sulla linguistica, alla scuola francese di de Saussure, Roland Barthes e Christian Metz, per meglio inquadrare la possibilità di comunicare sia a livello denotativo della narrazione, sia a quello connotativo, per i significati più complessi e articolati, e per raggiungere più efficacemente il pubblico. Pier Paolo si era sempre dimostrato un paziente e attento ascoltatore e, anche se non senza difficoltà, mi aveva illustrato la sua visione del cinema come “linguaggio della realtà”. In quest‟ultima circostanza mi aveva detto: “Non so immaginare un „pubblico‟ in astratto, io scrivo e faccio cinema per persone come me”. Avevo osservato che il “linguaggio della realtà”, però, appariva già infirmato dal fatto che il film spesso raccontava una fiaba. Questa poteva apparire più o meno „veritiera‟, in funzione della qualità della sua realizzazione, ma era, e rimaneva pur sempre, una finzione. Solo nei primi esperimenti della cinematografia degli anni Venti si ipotizzava una visione quasi oggettiva del reale, della verità, attraverso la macchina da presa, il kinoglaz, il „cine occhio‟ di Dziga Vertov. L‟apporto della critica cinematografica alla ricerca sul linguaggio cinematografico era prossimo allo zero. Lo schema con cui il film era visto dal critico non era certamente improntato a un‟analisi linguistica ma era di tipo banalmente contenutistico. Non superava il racconto se non per magnificare la recitazione di qualche attore famoso, lo stesso regista era spesso dimenticato. Riguardo a questo aspetto, Pasolini sosteneva che “la critica di un film si esprime con la lingua scritta, con il linguaggio della letteratura, cioè un metalinguaggio. Il cinema – diceva – si critica con il cinema. Criticare un mio film è possibile solo facendo un altro film”.
Fra le fotografie che ha scattato, sono particolarmente belli i ritratti di Pasolini...
Durante le riprese a Esfahan nella moschea Naghsh e Jahan Masjed e Shah, avevo visto Pier Paolo, in „piano americano‟ a fianco alla cinepresa che teneva con la mano sinistra mentre si guardava intorno in attesa. Ero lì di fronte con le fotocamere. Lo avevo chiamato e, mentre gli porgevo il ciak, gli dissi “Pier Paolo... tieni un momento il ciak... faccio una foto”. Lui, perplesso, aveva risposto “Ma... è una finzione”. Replicai: “Beh, anche il cinema è una finzione”. Sorrise. È una delle rarissime fotografie in cui Pier Paolo sorride. Distoglierlo dal lavoro sul copione, dalla stesura di articoli e appunti per il suo lavoro letterario, non era facile. Sembrava riuscire a isolarsi completamente. Di molte immagini che lo ritraggono in quei momenti ne ha avuto consapevolezza solo a posteriori. Quando ho incontrato Pier Paolo a Roma per alcune riprese a Cinecittà gli ho mostrato una selezione delle fotografie del film e, con quel genuino stupore di cui era capace, disse: “Hai raccontato le Mille e una notte dove io sono l‟attore e tu il regista, un film che non avevo visto.
Quali opere conosceva di Pasolini?
In quel periodo era appena uscito Empirismo eretico, che fra l’altro raccoglieva i suoi scritti sul linguaggio cinematografico... Non conoscevo Empirismo eretico ma avevo letto alcuni dei suoi testi pubblicati in riviste. Avevo visto molti suoi film, amando soprattutto Uccellacci e uccellini. Negli anni Sessanta, a Genova, ero stato fra i fondatori di un cineclub, il Club del porto, dove organizzavamo anche incontri e presentazioni con critici della città, come Claudio G. Fava o Claudio Bertieri. In quel periodo avevamo programmato anche I racconti di Canterbury.
Qual’era la sua opinione sulla Trilogia della vita? Avevo trovato molto interessanti Il Decameron e Canterbury. Non condividevo il punto di vista di chi accusava Pasolini di essersi „venduto‟ al cinema spettacolare o peggio. Non apprezzavo la critica ideologizzata, di fatto era una forma di „interpretazione contenutistica‟ lontana dall‟analisi del processo linguistico, che a me invece ha sempre interessato più di tutto. Mi affascinava la corporalità del cinema di Pasolini, questa raffigurazione dell‟eros disinibito e la sua audacia autentica e provocatoria. Del resto, io avevo iniziato a fotografare nudi dal 1967. A quell‟epoca facevo perlopiù fotografia sperimentale e fui chiamato da Franco Valobra per collaborare a “Men”. Mi sentivo un ingegnere elettronico prestato alla fotografia e di questa arte mi interessavano soprattutto le potenzialità sperimentali offerte da un processo linguistico molto usato ma poco conosciuto come tale. Per il lavoro che contavo di realizzare sul Fiore delle Mille e una notte mi rivolsi a tre riviste, “Esquire”, “Tv Sorrisi e canzoni” e “Playboy”. Quest‟ultima fu subito interessata a un servizio in esclusiva sul nuovo film di Pasolini.
Può raccontarci il suo arrivo sul set?
Come nei racconti di appendice „circa sei mesi dopo‟ ero ad Aden, dove continuavano le riprese già iniziate in Eritrea. Pasolini era concentratissimo nella lettura e riscrittura di un fascicolo di carte, con mille foglietti mobili, il copione. Sembrava che nulla lo disturbasse. E comunque tutti i collaboratori, sia sul set in interni sia in esterni, stavano attenti a non disturbarlo. Ogni tanto qualcuno sussurrava “speriamo bene”. Era dovuto al timore di cambiamenti o imprevisti che potessero complicare le attività che ruotavano intorno alle riprese, già complicate. Pasolini era onnipresente e discreto al tempo stesso, non si imponeva mai ma era circondato da una forma di stima e simpatia molto intensa da parte dei suoi collaboratori, tanto che quando esprimeva una necessità, tutti si facevano in quattro per soddisfarlo. Probabilmente era dovuto al suo modo di fare gentile e disponibile ma anche molto determinato e deciso.
Pasolini appariva instancabile, più che correre volava, direi, si arrampicava sui muri con la cinepresa per vedere quale potesse essere la migliore inquadratura, correva da una parte all‟altra del grande piazzale della moschea di Isfahan per controllare campo e controcampo, sostituiva spesso l‟operatore e riprendeva direttamente la scena, parlava con Dante Ferretti per le scenografie e l‟impiego dei costumi, in sostanza copriva una dozzina dei ruoli dettagliati nei titoli di coda. L‟aiuto Umberto Angelucci, l‟assistente Peter Shepherd, il direttore della fotografia Giuseppe Ruzzolini, il direttore di produzione Mario Di Biase avevano da tempo rinunciato a tenergli dietro. Come accadeva per altre troupe italiane, la giustapposizione dei ruoli era una costante: gli attori diventavano carpentieri, i trasportatori del posto diventavano comparse, la giovane iraniana diventava una controfigura in una scena di nudo e un ragazzino italo-persiano diventava una paffuta fanciulla in un episodio del film... La scelta di ragazzi del popolo, completamente ignari di recitazione e dizione, obbligava Pasolini a infinite ripetizioni di una stessa scena. Una di queste a Isfahan, sul piazzale della moschea, è stata ripetuta ben quarantatré volte. Furono lunghe anche le riprese della sequenza di Zumurrud e Nur ed-Din, quando si ritrovano e lei gli infligge quel piccolo gioco sadico, mettendolo a sedere all‟aria. Era ambientata nella sala degli specchi, che in realtà era la parte alta di una navata della moschea: un sacrilegio che, se fosse stato scoperto, sarebbe costato caro a tutti. Accadeva che si facessero levatacce alle quattro di mattina, o di notte a seconda dei punti di vista, per muoversi con dei pullman scassati per raggiungere luoghi da favola che le lunghe ombre rosate dell‟alba rendevano ancor più fantastici.
Come ha proceduto con il suo lavoro?
Il mio lavoro fotografico consisteva proprio nel muovermi all‟interno e all‟esterno di quel caos organizzato per catturare le immagini dei movimenti del „coro‟ e dei singoli attori, per descrivere i posti e le persone, per cogliere volti ed espressioni. Cercavo la luce della pittura fiamminga. Usavo il 24mm, con un‟ampiezza d‟angolo di quasi cento gradi, e le figure erano vicine. Non lavoravo solo col teleobiettivo. Usavo tutta la gamma degli obiettivi dal grandangolare al 200400, calibrandola sulle esigenze di volta in volta. Fotografavo molto anche l‟esistente, l‟umanità circostante. Ho sempre rifiutato l‟uso del flash per la sua „illuminazione artificiale‟ e non lo usavo, la luce ambiente può essere „altamente pittorica‟. Ero affascinato dalla fisicità dei volti. Mi ricordo che Franco Citti partecipava a tutto ma era poco socievole. Ines Pellegrini era timorosa di mostrarsi nuda ma poco alla volta si rassicurò, perché c‟era un clima di grande rispetto. Pasolini parlava poco con gli attori, si limitava a indicare loro l‟essenziale. Parlava più a lungo con il direttore della fotografia, Ruzzolini, o con l‟operatore, quando, appunto, non era egli stesso a farlo, il che accadeva spessissimo. Era molto attento a tutti i dettagli figurativi, a cominciare dai costumi.
Avete ripreso la conversazione iniziata a Milano?
Sono riuscito a dialogare sul linguaggio del cinema cogliendo Pier Paolo subdolamente durante la distribuzione del cestino, che, come sempre, non avveniva mai all‟ora di pranzo ma a qualsiasi ora in cui fosse possibile fermare le riprese. Gli ho chiesto, con una certa riverenza, quale fosse il suo pensiero sulla modifica del linguaggio apportata dall‟impiego di ottiche speciali, di tele o grandangoli, con la zoomata, o di effetti come il rallentamento o l‟accelerazione, le sovrapposizioni, eccetera. La prima osservazione che mi fece fu un appunto sulla “volgarità dell‟effetto dovuto alla zoomata”, aggiungendo “Io non la uso mai”. Non fu altrettanto chiaro e deciso su come cambi il senso di una scena a seconda delle ottiche adottate. Il grandangolo, ad esempio, sia negli spazi sia sugli attori, introduce deformazioni prospettiche rilevanti che non possono essere ignorate in quanto acquisiscono un concreto peso semantico. Rispose parlando di un uso “poetico”. Ricordo che mi riferivo a Umberto Eco e ai suoi scritti sulla linguistica, alla scuola francese di de Saussure, Roland Barthes e Christian Metz, per meglio inquadrare la possibilità di comunicare sia a livello denotativo della narrazione, sia a quello connotativo, per i significati più complessi e articolati, e per raggiungere più efficacemente il pubblico. Pier Paolo si era sempre dimostrato un paziente e attento ascoltatore e, anche se non senza difficoltà, mi aveva illustrato la sua visione del cinema come “linguaggio della realtà”. In quest‟ultima circostanza mi aveva detto: “Non so immaginare un „pubblico‟ in astratto, io scrivo e faccio cinema per persone come me”. Avevo osservato che il “linguaggio della realtà”, però, appariva già infirmato dal fatto che il film spesso raccontava una fiaba. Questa poteva apparire più o meno „veritiera‟, in funzione della qualità della sua realizzazione, ma era, e rimaneva pur sempre, una finzione. Solo nei primi esperimenti della cinematografia degli anni Venti si ipotizzava una visione quasi oggettiva del reale, della verità, attraverso la macchina da presa, il kinoglaz, il „cine occhio‟ di Dziga Vertov. L‟apporto della critica cinematografica alla ricerca sul linguaggio cinematografico era prossimo allo zero. Lo schema con cui il film era visto dal critico non era certamente improntato a un‟analisi linguistica ma era di tipo banalmente contenutistico. Non superava il racconto se non per magnificare la recitazione di qualche attore famoso, lo stesso regista era spesso dimenticato. Riguardo a questo aspetto, Pasolini sosteneva che “la critica di un film si esprime con la lingua scritta, con il linguaggio della letteratura, cioè un metalinguaggio. Il cinema – diceva – si critica con il cinema. Criticare un mio film è possibile solo facendo un altro film”.
Fra le fotografie che ha scattato, sono particolarmente belli i ritratti di Pasolini...
Durante le riprese a Esfahan nella moschea Naghsh e Jahan Masjed e Shah, avevo visto Pier Paolo, in „piano americano‟ a fianco alla cinepresa che teneva con la mano sinistra mentre si guardava intorno in attesa. Ero lì di fronte con le fotocamere. Lo avevo chiamato e, mentre gli porgevo il ciak, gli dissi “Pier Paolo... tieni un momento il ciak... faccio una foto”. Lui, perplesso, aveva risposto “Ma... è una finzione”. Replicai: “Beh, anche il cinema è una finzione”. Sorrise. È una delle rarissime fotografie in cui Pier Paolo sorride. Distoglierlo dal lavoro sul copione, dalla stesura di articoli e appunti per il suo lavoro letterario, non era facile. Sembrava riuscire a isolarsi completamente. Di molte immagini che lo ritraggono in quei momenti ne ha avuto consapevolezza solo a posteriori. Quando ho incontrato Pier Paolo a Roma per alcune riprese a Cinecittà gli ho mostrato una selezione delle fotografie del film e, con quel genuino stupore di cui era capace, disse: “Hai raccontato le Mille e una notte dove io sono l‟attore e tu il regista, un film che non avevo visto.
Una fiaba nella fiaba”.
Intervista realizzata da Roberto Chiesi a Bologna l’11 febbraio 2011
L'intervista è tratta dal volume pubblicato in occasione della mostra L’oriente di Pasolini. Il fiore delle Mille e una notte nelle fotografie di Roberto Villa 26 maggio - 7 ottobre 2011, Sala Espositiva Cineteca di Bologna a cura di Roberto Chiesi
© 2011 Edizioni Cineteca di Bologna via Riva di Reno 72 40122 Bologna
Le immagini e L'intervista, per gentile concessione di Roberto Villa.
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