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martedì 29 luglio 2025

Pier Paolo Pasolini, L'isola di Arturo (di Elsa Morante) - Vie nuove, numero 50, 21 dicembre 1957, pag. 31

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Pier Paolo Pasolini
L'isola di Arturo
(di Elsa Morante)



Vie nuove

numero 50

21 dicembre 1957

pag. 31

( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )


Pier Paolo Pasolini inizia con questa recensione a «L'isola di Arturo» di Elsa Morante la già annunciata rubrica di critica letteraria su «Vie Nuove». Pasolini non ha più bisogno di presentazione per i nostri lettori. Autore di saggi, romanzi e poesie, vincitore dell'ultimo premio Viareggio con «Le ceneri di Gramsci », Pasolini ha già collaborato in più di una occasione al nostro settimanale. La sua rubrica apparirà da ora in poi regolarmente nelle nostre pagine.


( in realtà, la rubrica si interromperà già al successivo intervento (Il Pasticciaccio di Gadda - Vie nuove,  18 gennaio 1958 ) ). 



Un critico che tre o quattro anni fa avesse cercato di prevedere lo svolgimento della narrativa italiana fino a oggi, e, per assurdo, fosse stato in possesso dei mezzi più sicuri, da quelli storiografici a quelli statistici, per farlo, non avrebbe potuto in nessun modo preventivare la comparsa del nuovo romanzo di Elsa Morante (al di fuori, naturalmente, della storia interna della scrittrice), L'isola di Arturo (Einaudi, 1957 , e Premio Strega di quest'anno). 
Le accoglienze a questo romanzo extra-vagante e imprevedibile sono state, in genere, festose ma apodittiche: la stampa ufficiale, al solito, anodina, complimentosa e riducente; la stampa fascista fetida, e la stampa di sinistra, bisogna dirlo, affrettata, schematica: eccettuate due o tre eccezioni (Pampaloni per esempio), solo «uomini di gusto» (magari di gran valore, come Cecchi e De Robertis) hanno saputo leggere questa opera. L'isola di Arturo si presenta indubbiamente, rispetto alle altre opere degli ultimi anni, come eccentrica, come affiorata da un fondo esistenziale senza orientamento se non psicologico: sicché quale primo mezzo per accertarla come fenomeno si richiede una sensibilità «simpatizzante», o appunto, se vogliamo, di gusto. Senza questa preliminare operazione di carattere quasi olfattivo, crediamo impossibile giungere alla vera e propria operazione critica. 

Il problema è questo: l'opera della Morante è solo un fenomeno felicemente marginale e sopravvivente, tale da permanere isolata e senza significato storico, senza rapporti? Oppure essa, in qualche modo, rientra nella fenomenologia più recente, modificando quindi quella fenomenologia e perdendo i propri caratteri di stravaganza e pura interiorità? 
Noi siamo per il secondo corno del dilemma. È vero, c'è forse un limite, tecnico-linguistico-psicologico, che tenderebbe a presentare il romanzo circoscritto dentro un'area di assoluta gratuità fantastica, priva di rapporto storico o attualità. 
Tecnicamente, il romanzo manca di una certa misura, le prime cento o centocinquanta pagine potrebbero essere ridotte quasi alla metà, poiché l'educazione sentimentale di Arturo è intuita così felicemente, in quel misto di reale e di inattendibile che è tipico della fantasia minore della Morante, che era inutile insistere in un «tutto tondo» subito previsto. Il trop-plein che se ne forma accentua quei caratteri «decadentistici» che a noi invece sembrano applicabili solo esteriormente alla Morante (Rimbaud, tradotto nel tono sentimentale della Morante, diventa tutta un'altra cosa, resta semplice paradigma di energia e di purezza). 

Anche linguisticamente c'è qualcosa di troppo: una leggera ridondanza, un certo sfarzo lessicale (che un giovane critico, Citati, definiva erroneamente montiano), eccedono le clausole esclamative, specie in fine periodo, eccedono i sostantivi con la maiuscola — per dare degli esempi minimi ma appariscenti. Anche qui, dunque, all'esterno — a impressionare i superficiali — una certa atmosfera di squisitezza decadente: ma se si guarda in fondo la lingua della Morante si avvertirà certo come prevalga in essa una chiarezza umile e trasparente, una deliziosa diligenza di pensum scolastico: una sostanziale ingenuità, nella Morante, contraddice intimamente qualsiasi eccesso «decadentistico», per il candido rispetto della scrittrice verso gli istituti linguistici tradizionali più comunicativi. 
L'esame psicologico conseguente all'analisi conferma ancor meglio questa situazione; sentimentalmente di fronte al mondo, come oggetto di rappresentazione, la Morante è profondamente modesta, quasi legata da un complesso di inferiorità, pratico e conoscitivo, ch'essa vince attraverso gli slanci di creatura umilmente amorosa. 

Ne consegue una dilatazione della grandezza, dell'importanza e della bontà del mondo. L'umiltà della Morante si trasforma così in una specie di orgoglio: orgoglio di avere dentro di sé una scintilla di quel mondo, attraverso l'amore che la lega ad esso. Questo orgoglio si riveste, espressivamente, di qualche atteggiamento di faziosità, di gratuità: ma anche questa nuova istanza decadentistica a cui così siamo arrivati non ha che un valore puramente marginale, se si pensa alla sua vera origine, così adorabilmente ingenua. 

Questo rapporto della Morante con la realtà si riflette nei suoi personaggi in questo senso: che, data l'aprioristica grandezza, importanza e bontà del mondo, il «negativo», il «male», non possono essere sul serio non dico rappresentati, ma nemmeno concepiti: essi sono accidenti, pure contingenze, quando non addirittura flatus vocis. 

Unica forma di male che minacci il meraviglioso mondo affondato nella psicologia dei personaggi, è una certa carenza di bene: l'unico peccato, cioè, in cui Wilhelm, Arturo o la stessa Nunziata possano incorrere è una forma di incoerenza con la propria anima appassionata, un rischio di egoismo in cui non esaltare fino al massimo l'energia o vitalità benigna ch'è in loro. Si veda — quasi paradigma del fenomeno — Tonino Stella, un delinquentello romano a cui il padre di Arturo è legato da morbosa e angosciata tenerezza: caso clamoroso in cui la Morante dimostra la sua impotenza a rappresentare il male come bassezza, e lo giustifica ostinatamente, nel suo personaggio, attraverso la sua esuberanza e la sua bellezza: sfacciato, egoista, ma naturalmente, e in fondo, nella 
sua violenza, eletto. 

La Morante partecipa — assumendole direttamente all'ordine estetico — della salute, della vitalità e della elezione dei suoi personaggi. 

Ora il decadentismo quale permane nella produzione letteraria italiana del secondo Novecento, sulla linea della prosa d'arte e dell'ermetismo (ché per il surrealismo l'anarchica violenza eteronoma porterebbe ad altre conclusioni), è soprattutto: 
I) senso della padronanza del mondo (reazionarismo in sede politica); 
2) certezza, al limite di quella padronanza, del privilegio linguistico estetismo); 
3) angoscia, cioè continua sensazione del male come interruzione della corrente vitale, interna rovina nella società e nell'io (la cosiddetta «crisi»). 
Niente dunque di tutto questo — malgrado certe esteriori impalcature espressive — nella Morante. E finora abbiamo condotto, sommariamente, l'esame sugli elementi soggettivi del romanzo: su quel tanto di Arturo, o di Wilhelm, che non si differenzia dalla Morante stessa. 

Se invece osserviamo il romanzo nella sua qualità romanzesca di oggetto — ossia soprattutto la storia dell 'amore di Arturo e Nunziata (è Nunziata la cosa stupenda dell'Isola: con quanto compartecipa della sua sostanza, dalla cagnetta Immacolatella, diciamo, al bambinello Carmine), allora i nostri argomenti risulterebbero ancora più persuasivi. Il background di Nunziata, e tutta Nunziata, si innestano in maniera curiosissima nella tradizione del naturalismo meridionale (che, insieme alla manzoniana, presto tradita), è la migliore tradizione della letteratura moderna. La Morante ci si muove stupendamente a suo agio — nella continua «allusione» ad essa — per pagine e pagine e pagine; la sua rappresentazione di Nunziata, con gli scorci della vita famigliare napoletana e i dati della sua strana vita presente a Procida, non cede un istante, non ha uno screzio, un errore: è miracolosamente rigorosa, nella sua estrema dolcezza e abbandono. 

Indichiamo al lettore, come esemplari e quasi paradigmatiche, le pagine della notte in cui il ragazzo corre a chiamare la levatrice: sono tra le più belle pagine della narrativa italiana del Novecento, ma a parte questo, il lettore vi vedrà concentrate le due caratteristiche principali della narrativa della Morante: l'«allusività» al grande romanzo idealmente tradizionale che si configura «a frammenti», e l'assunzione dell'Italia reale, nella fattispecie meridionalistica — scoperta in tutta l'immediatezza del concreto-sensibile, secondo la più recente poetica — a una luce di fantasia pura, che patina quei minuti dati quotidiani e vivaci, quasi «lume universale» da pala profana. 

Ritorniamo così in cuore all'argomento: l'opera della Morante è eccentrica e irripetibile solo nella misura ch'è necessaria a ogni opera d'arte. Nel quadro storico, non solo si inserisce con una serie di rapporti meccanici, ma Io modifica all'interno con la sua stessa presenza, rappresentando una nuova necessità, che i critici, anche ideologicamente impegnati, non possono ignorare, o respingere secondo schemi valevoli fino a ieri. La presenza dell'Isola è lì a dimostrare che una seconda fase del realismo del dopoguerra si sta iniziando, evidentemente, al di qua dello stato di emergenza in cui esso è nato. Ne consegue la riassunzione di forme che solo apparentemente erano superate, ma che in realtà, dentro il neorealismo stesso, si erano tramandate, quale tradizione recente (nella specie l'irregolarità sintattica e narrativa e la squisitezza): e il formarsi di nuovi tipi di «evasività», ineluttabili in ogni situazione letteraria normale. L'opera della Morante ne indica i modi con la necessità della poesia.

Pier Paolo Pasolini
 

  
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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