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lunedì 28 luglio 2025

Pasolini, poesia di sinistra e di destra - Libertà, 15 giugno 1946, pag. 3

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Pasolini
poesia di sinistra e di destra

Libertà

15 giugno 1946

pag. 3 

( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )


Il titolo non rappresenta solo un gioco letterario, ma, richiamandosi a due termini della politica, allude alla tendenza di introdurre la poesia in un campo non certamente poetico. A suggerirmene l'idea è stato uno degli innumerevoli quotidiani romani, letto a Roma alcuni mesi or sono; ma certamente non avrei alimentato per tanto tempo questa idea dentro di me, se il clima intorno non le fosse stato favorevole. Vedi l'inchiesta dapprima indetta da un giornale francese (a cui han risposto fra gli altri, Braque, Breton ecc.) ed ora ripresa dalla «Fiera letteraria»; vedi le insistenti polemiche per un'arte sociale pubblicate su «Politecnico» ed altri fogli di sinistra; vedi ancora sulla «Fiera letteraria» un interessante Estremismo e letteratura di Moravia; vedi il febbrile dialogo tra intellettuali comunisti e cattolici (Vittorini, Bo, Solmi in «Politecnico», «Uomo», «Costume»); vedi... 

Vinto a fatica lo scetticismo, che mi è troppo naturale intorno a queste questioni sia che esse avvengano direttamente tra letterati, sia che si svolgano, in un clima di incomprensione reciproca, tra letterati e pubblicitari, mi sono detto che la mia ripugnanza era forse pigrizia di fronte all'urgere di queste polemiche, la cui utilità, infine, non è da ricercare nei possibili risultati di poesia. Esiste tutta una loro vicenda, che non potrebbe essere compresa in una storia letteraria o estetica, ma semmai, una storia del costume. Per noi, essa parte dal cuore dell'Ottocento francese (la coscienza dell'arte), e giunge alle violente predeterminazioni programmatiche del futurismo, le acerbe indagini della «Voce», i ripensamenti sottili della «Ronda», e, infine, con gli ermetici alla esasperazione degli scrupoli critici. Ma naturalmente molto ci sarebbe da sfrondare; ridotto alla sua linea essenziale questo processo della «poetica» parallelo a quello assai più stento della poesia, si rivela assolutamente necessario ed umano. 


Non costituisce infine una novità. Da quando (dopo che l'idealismo kantiano, ripensato dal genio prezioso di Novalis, si era diffuso in Inghilterra a esacerbare il furor poeticus di quei primi romantici, Coleridge, Wordsworth). Poe aveva incominciato a insistere sulla gratuità e sulla indipendenza del testo poetico, non c'è dubbio che è in questo senso che da un secolo si svolge nei poeti la giustificazione razionale dei loro versi. A parte la chiara e innovatrice coscienza di Baudelaire intorno a questo fatto, si ricordino anche le difese della sua poesia (in seguito al famoso processo di immoralità) tenute da autori in un certo senso antecedenti: primo fra tutti Gautier. Non so se ci si sia mai soffermati, ma è certo che quel processo intentato dalla società borghese (la cui mentalità non è da allora sostanzialmente mutata, soprattutto, dico, nei confronti della poesia) è stato il primo pretesto per una polemica, e un approfondimento intorno alla socialità dell'arte, cioè se l'arte abbia o non abbia una funzione sociale — e in che senso questa funzione si attui. Gautier, Barbey, d'AurevilIy, i difensori di Baudelaire proclamavano già chiaramente che la funzione sociale dell'arte non consiste in altro che nella sua bellezza. Questo non poteva soddisfare i moralisti di allora, i cattolici di allora (si ricordi che è circa di quel tempo il rincrudirsi del cattolicesimo su posizioni clericali-gesuitiche, in seguito al Sillabo di Pio IX e alla proclamazione dell'infallibilità papale — e in seguito, naturalmente, alla ripresa epurazione dell'Internazionale in tutta Europa. Bakunin persisteva nelle sue manovre sotterranee, Marx trionfava a Londra. In Italia i liberi pensatori, con Mazzini, tenevano un contegno alquanto spregiudicato nei confronti del clero indignato e strepitante per la caduta del potere temporale dei papi. In Francia, poi, il vescovo Dupanloup, già anti-infallibilista, non voleva essere un'eccezione tra i cattolici che soffiavano col solito zelo sul fuocherello della reazione, dopo la caduta dell'«imperialista» Napoleone III), le giustificazioni dei Fiori del male, dicevo, non potevano convincere i conformisti di allora, come non possono convincere i conformisti di oggi. Quindi siamo daccapo. Eccoci ancora ad esasperarci su questa questione, che a noi — anticipo — intellettuali di sinistra sembra definitivamente risolta, ma per cui le orecchie degli intellettuali di destra paiono sorde in modo particolare. È evidente che il concetto di autonomia dell'arte (vedi L. Anceschi,  Autonomia ed eteronomia dell'arte, ed infiniti altri dei nostri migliori critici) si è completamente immerso nella forma mentis dei letterati veramente vivi; che la nozione di «poesia pura» è stata ugualmente accettata e assimilata; che la famosa definizione crociana dell'arte, per quanto contestata dalla più recente critica, resta sempre valida per quello che nega (l'arte non è... non è...); ed è pure evidente che in conseguenza di tutto questo l'arte non è tenuta a partecipare alla socialità di un'azione politica o di un'opera di beneficenza. La sua morale è evidentemente un'altra. E soprattutto non aprioristica. Del resto uscendo dal campo strettamente estetico, ed entrando in quello praticistico, sarà facile convincersi che l'arte è un fatto naturale, ma un fatto naturale nella società. Ora vogliamo immaginare per absurdum, un uomo solo in tutto l'universo? È molto probabile che costui non scriverebbe versi. 

L'arte è per sua natura un fatto sociale, e se mi si domandasse in che senso precisamente è sociale, risponderei subito che lo è in quanto mezzo di comunicazione: e il più alto e completo mezzo di comunicazione che ci sia dato usare. Quando il poeta solo nella sua stanza, solo per una strada, si martorizza a cercare l'espressione esatta, unica, compie già, senz'altro, un profondissimo atto sociale.

Ma tomiamo all'articolo del quotidiano romano; secondo l'autore di questo, i poeti di sinistra, in poche parole, sarebbero quelli che, possibilmente iscritti a un partito di sinistra, fanno dell'arte sociale (nel senso, che dicevo, della socialità insita in un'azione politica o in un'opera di beneficenza); mentre i poeti di destra sarebbero quelli della solita torre di avorio. Dopo quanto ho detto sopra, spero che il lettore non ritenga opportuna una critica a queste affermazioni esasperanti dell'articolista romano. Mi basti accennare, senza malignità, che esse mi ricordano certe odiose ore trascorse nelle salette dei Guf, in occasione di Littoriali o altre cose simili, per discussioni su argomenti esattamente uguali a questo; allora erano i gerarchi del Guf o i professori fascisti che si rendevano paladini (e che intransigenza!) della socialità dell'arte. La differenza, a scanso di equivoci, è però notevole: allora il dovere sociale consisteva nell'esaltazione di quegli ideali perversi (ricordo i piedi dei contadini nei quadri pel «Premio Cremona»). Ora la socialità dovrebbe rispondere a bisogni più umani, o umanitari; ma è inutile dire che rapporto arte-dovere sociale si persiste nel medesimo errore. E questo, a dire il vero, proviene da un conformismo delle sinistre: conformismo ingenuo, recente, ma purtroppo incline a un'intransigenza che se non è quella fredda e triste dei componenti reazionari, può presentare tuttavia dei lati pericolosi.

Noi intellettuali veramente di sinistra (non soltanto per avere in tasca una tessera) ci allarmiamo sul serio di fronte a queste manifestazioni di gente sprovvista di coscienza letteraria. Non è incredibile, poi, che gli stessi intellettuali si trovino d'accordo coi loro eterni avversari su questa assurda faccenda della torre d'avorio? Insisto nell'affermare che la torre d'avorio, questa bellissima immagine, è necessaria al poeta; sono i non poeti che amano gironzolare e chiacchierare per le piazze e i mercati... Ad ogni modo, ora, la realtà è che dopo le «sciocchezze del Carducci» (Moravia), dobbiamo ascoltare le sciocchezze di Paul Eluard. Premetto che allorché Eluard era surrealista (benché mi convincesse meno di Aragon e Breton), Io stimavo. Nelle pagine gialle e rosse di «Prospettive» i suoi versi erano un difficile refrigerio, una febbrile ventata; il segno di una poesia non ufficiale e non ambiziosa. Il limite gnoseologico del surrealismo, il suo abbandono all'ultima e indecifrabile sincerità dell'inconscio, dava a quei versi non so che mancanza di bellezza, ed una sprezzatura disperata. Occorreva difenderli, quei versi, contro il processo dei ben pensanti di destra, contro il facile scetticismo del lettore schiavo dell'abitudine. Ma evidentemente Eluard non scriveva per una sicura necessità, e ora lo dimostra (a meno che non si tratti di ingenuità. Ma è difficile crederlo): ora, che facendo il poeta di sinistra, fa della poesia di destra; ora, che sentenziando che il poeta non è sacro, vuol fare il Poeta. 
 
Pier Paolo Pasolini
 
  
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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