Bianco e Nero, numero 6, giugno 1964

Colloquio con Pasolini Una visione del mondo epico-religiosaterza parte
Bianco e Nero numero 6 giugno 1964 da pag.12 a pag.41 ( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )

Questa conversazione ha avuto luogo, sotto la direzione del dott. Leonardo Fioravanti, in un'aula del Centro Sperimentale di Cinematografia il 9 marzo 1964. Trascriviamo fedelmente, salvo gli inevitabili adattamenti di forma, dalla registrazione su nastro magnetico. Ha redatto il testo Lodoletta Lupo.
Bianco e Nero, numero 6, giugno 1964
La trascrizione sotto, è stata fedelmente ripresa dal numero 6, del giugno 1964, di Bianco e Nero. ( Già nei Meridiani Mondadori, a cura di Walter Siti - Pasolini per Il cinema ).
D. (HARTOG): Da quanto lei dice discende forse il suo atteggiamento nei confronti del film La commare secca, che desidererei conoscere.
R. Come ho già scherzosamente sostenuto, io credo che mentre la mia idea estetica è un'idea di un mondo frontale, massiccio, romantico, chiaroscurale, a tutto tondo, statuario, invece l'idea di Bertolucci è un'idea più elegante, moderna, cioè un'idea impressionistica poiché i pittori che sono alla radice dell'ispirazione visiva di Bertolucci sono gli impressionisti francesi e il cinema francese anche. A me piace tuttavia La commare secca, ci sono molti punti belli.
D. (HARTOG): Io non so se la sceneggiatura è totalmente realizzata come lei l'ha scritta.
R. : La sceneggiatura non l'ho scritta io, io ho scritto soltanto il soggetto. La sceneggiatura l'ha fatta lo stesso Bertolucci con la mia consulenza ed il mio aiuto, in verità se l'è fatta lui ed è stato abbastanza fedele alla sua sceneggiatura. Ma è successo quello che è successo sia con Rossi che con Bolognini. Cioè evidentemente quando si dà un testo ad un autore, anche se non è un grandissimo autore, quello lo trasforma inevitabilmente in cosa sua. lo stesso quando giro un mio film da una mia sceneggiatura avverto poi quel famoso salto di cui si parlava in principio tra la stesura iniziale e la realizzazione cinematografica.
D. (STEFANO SILVESTRINI, 1° anno regia): Nell'ultimo numero dell'« Europa Letteraria» sono state pubblicate alcune sue poesie nelle quali c'è un chiaro riferimento a Dreyer. Lei parla di Dreyer a lungo e perciò vorrei domandarle quali sono i registi che hanno più influenzato il suo stile.
R. : Sono tre: Dreyer, Chaplin e Mizoguchi.
D. (SILVESTRINI): In che misura Dreyer ha influito su di lei?
R. : Se lei analizza Accattone vedrà come la Passion de Jeanne d'Arc di Dreyer mi abbia influenzato dandomi il senso del primo piano, il senso della severità figurativa, visiva appunto. È un film che ho visto da ragazzo quando avevo la vostra età e che ho sempre amato: è stato uno dei miei modelli figurativi cinematografici.
D. (FRANCONE): Vorrei che mi chiarisse i! suo punto di vista sulla questione della contaminazione. Cercherò di essere un pò più chiaro: nella società attuale esiste questa contaminazione sociologica fra mondo borghese e il mondo preistorico da lei individuato, che vivono insieme senza incontrarsi. Partendo da questo presupposto lei nei suoi film ci dà l'immagine di esseri umani e subumani, spesso volgari, impiegando un linguaggio raffinatissimo. E per questa ragione mi pare molto giusto e molto opportuno che come sottofondo musicale sia stata impiegata la musica più raffinata che sia stata mai prodotta. per concludere io le domando se queste citazioni musicali e i chiari riferimenti pittorici di alcuni suoi film non vogliano essere rappresentativi di questa contaminazione ogni giorno esistente nel mondo di oggi.
R. : Il segno sotto cui io lavoro è sempre la contaminazione. Infatti se voi leggete una pagina dei miei libri noterete che la contaminazione è il fatto stilistico dominante, perché io, che provengo da un mondo borghese e non soltanto borghese ma, almeno in gioventù, dalle sedi più raffinate di quel mondo, io lettore degli scrittori decadenti più raffinati ecc. ecc., sono arrivato a questo mio mondo. Conseguentemente il « pastiche », per forza, doveva nascere. E infatti in una pagina dei miei romanzi sono almeno tre i piani in cui mi muovo: cioè il discorso diretto dei personaggi che parlano in dialetto, in gergo, nel gergo più volgare, più fisico, direi; poi il discorso libero indiretto, cioè il monologo interiore dei miei personaggi e infine la parte narrativa o didascalica che è quella mia. Ora questi tre piani linguistici non possono vivere ognuno nella sua sfera senza incontrarsi: devono continuamente intersecarsi e confondersi. Infatti nelle battute dei personaggi, anche in quelle che sembrano le più fisicamente e brutalmente registrate, c'è sempre un cursus, un numero spesso, addirittura in endecasillabi, composti anche con delle parolacce. È quindi la mia educazione di borghese che si inserisce nel discorso fino a trasformare in endecasillabi delle battute fisicamente registrate dal mondo reale. Nel discorso libero indiretto poi la contaminazione avviene in maniera chiara, cioè il dialetto, il gergo si contaminano con la lingua parlata. Questa contaminazione avviene anche a livello più alto cioè a livello della parte descrittiva e narrativa. Certe descrizioni, che sono piaciute a Cecchi ed anzi sono le uniche che egli salva, sono scritte in certi momenti da letterato addirittura — tremo nel confessarlo — quasi postdannunziano, ma anche in sono sempre presenti elementi presi dagli altri piani linguistici; e così avviene anche nei film. Evidentemente quando io tratto una certa materia, la rappresento nella sua brutalità fisicamente reale, cioè vado al Pigneto e fotografo quei muretti, quelle spazzature, quel sole, e prendo Franco Citti e lo fotografo così come è lui; però naturalmente tutta questa materia grezza, bruta, fisicamente violenta, la assumo poi a un altro livello linguistico. Ora, mentre nella pagina di un romanzo questa contaminazione estremamente complessa e raffinata può sfuggire, nel cinema, il cui linguaggio è più elementare, più rozzo di quello letterario forse Castello non è d'accordo con me — nel cinema viene fuori con maggior violenza. Così che mentre gli elementi dannunziani che possono essere in un romanzo spariscono — soltanto un diagnostico, un critico riesce a rintracciarli — gli elementi invece di sublime religiosità che io ho cercato di tradurre con la musica di Bach sono immediatamente avvertibili e quindi possono disturbare di più.
D. (CASTELLO): I piani sono separabili con molta maggior facilità evidentemente, specialmente nel caso in cui lei ricorra ad opere già compiute di altri autori, per questo io facevo prima il discorso della musica mimetica in quanto la musica mimetica può arrivare a fondersi completamente con l'opera che serve, mentre della pagina musicale di un grande autore, di Bach, lei non può impadronirsi oltre un certo limite; fino ad un certo punto potrà cioè servirsene, strumentalizzarla o funzionalizzarla, per usare l'espressione più propria sua, ma non credo oltre a un certo limite.
D. (CARLO MORANDI, 2° anno regia): A questo proposito vorrei dire una cosa. Io non vedo perché Pasolini non dovesse usare Bach, anzi secondo me stilisticamente è molto giusto che lui abbia usato Bach perché non ha impiegato attori professionisti, allo stesso modo non poteva prendere un musicista come Rota, perché sia il musicista che gli attori professionisti si sarebbero inseriti con la loro coscienza tra lui e il mondo, limitandone la libertà di espressione.
D. (CASTELLO): Poteva inventare un musicista come ha inventato degli interpreti.
D. (MORANDI): Ugualmente per esempio, quando Pasolini fotografa Franco Citti, lui prende un elemento di una realtà, così, un blocco di una realtà come è un blocco di una realtà un pezzo di musica di Bach. Ad un certo momento è chiaro che lui usa questi due elementi e poi fa una specie di « collage » in cui lui è il poeta, ed effettivamente ci dà queste intuizioni.
D. (VITT0RI0 SALTINI, 2° anno regia): Debbo dire che effettivamente la prima volta che ho visto Accattone anche a me il commento musicale dette un pò fastidio forse perché quella musica io l'avevo più volte ascoltata; però rivedendo ora il film mi sembra che stia molto bene. Secondo me l'unico che ci rimetta è Bach, perché adesso accade che quando uno ascolta certi motivi di Bach pensa ad Accattone e Bach ci rimette non perché non si voglia pensare ad Accattone, ma perché, in quel momento, si vorrebbe ascoltar solo Bach. Per contro, allorché si ascolta il solito pezzo di Albinoni o altri pezzi di cui il cinema si è largamente servito, non si è portati a pensare ai film cui ormai quella musica è legata. chiaro allora che se tra musica e film si è stabilito uno stretto legame, la ragione di sottolineare le sequenze di Accattone con musica di Bach c'era ed era anche abbastanza profonda. R.: Io penso che come ad un autore si deve concedere una certa libertà di leggera mistificazione, anche allo spettatore, al lettore deve essere consentita una certa libertà che gli consenta di uscire dai binari consueti nella valutazione dell'opera vista o letta.
D. (SALTINI): Vorrei fare qualche altra considerazione, riallacciandomi a quanto prima ha detto Francone. Mi è sembrato che lei di fronte ad alcune osservazioni che vengono rivolte alla sua attività di autore e di regista, cerchi sempre delle giustificazioni che mi appaiono legate ad un costante sforzo di mantenersi fedele alla concezione del realismo. Ora se prendiamo in esame i suoi romanzi, dobbiamo dire che essi non sono neorealistici anche se l'elemento bozzetto vi è più presente che in Accattone e nei film successivi, nei quali per altro si accentua una ispirazione religiosa, che era già in lei, ma che nei romanzi non era molto sentita. Nella sua attività di autore v'è una direttrice che lo porta ad allontanarsi sempre più dal neorealismo. E questo distacco dal neorealismo in fondo è il fatto più importante e lei se lo deve attribuire come un merito, specie come regista. Infatti se noi consideriamo i registi nuovi di questi ultimi anni, quelli cioè che in qualche modo si sono sviluppati staccandosi a poco a poco dal neorealismo — Antonioni, Fellini e Olmi per esempio notiamo che in loro l'origine neorealistica, malgrado certe apparenze, è molto più diretta che in lei. Questo, secondo me, è il suo più valido merito perché è vero che il sottoproletariato esiste ancora e continuerà ad esistere, però è anche vero che in questi anni vi è stato un cambiamento nella coscienza della cultura per cui a un certo punto i problemi della realtà sono sentiti in un modo un pò diverso, con un certo maggior distacco ed abbiamo bisogno di cercare i nostri contenuti più nella cultura che non nella realtà immediata. In questo senso io sento una certa affinità, malgrado tutto fra il cinema francese di certa « nouvelle vague » — di Godard per esempio — ed il suo cinema. Nel cinema di oggi anche altri registi quali Bergman, Bunuel ecc. fanno un lavoro in cui il legame con la realtà è meno diretto, però io lì ci sento qualche cosa di non autentica, mentre in questa specie di manierismo di Godard, o di Truffaut, c'è qualche cosa che ci riguarda molto direttamente, che parla di noi e del nostro modo di sentire, più immediato e meno realistico.
R. : Sì, questo mi sembra molto giusto e la ringrazio.
D. (FIORAVANTI): Vorrei che Pasolini ci dicesse due parole sul film che sta preparando e sui suoi progetti avvenire. È una anticipazione che vorremmo non tanto sul soggetto, che come tutti oramai sanno, è il Vangelo secondo S. Matteo, quanto sulle origini di questa scelta che certamente completerebbero il quadro della sua personalità, peraltro già delineatasi in maniera evidente dalla conversazione così come sino ad ora si è svolta.
R. : Dicevo prima che è imprudente parlare di quel che sto per fare; è un'imprudenza nel senso che il dire un pò mi scarica dal desiderio di fare. C'è stato già un libro che a forza di parlarne prima, mi si è scaricato internamente e credo che non lo scriverò più. Ebbene la mia opera futura è il Vangelo secondo Matteo. Qui posso riallacciarmi forse a quello che diceva Saltini, che in fondo ha fatto un discorso nell'insieme piuttosto giusto anche se non sono molto d'accordo con lui per l'avvicinamento, che mi sembra un pochino schematico, del mondo di Godard al mio. II personaggio di Belmondo è un poco quello, come dicevo prima, del subumano borghese, mentre il sottoproletariato, preso come elemento ancora carico delle caratteristiche antiche dell'uomo antropologicamente inteso, dell'uomo delle civiltà contadine religiose, si contrappone alla borghesia che sta stupidamente andando verso la distruzione attraverso una specie di palingenesi a rovescio che sta iniziandosi con le tecnologie e con la civiltà di massa delle macchine. Ora in fondo i sottoproletari hanno spaventato i borghesi non soltanto perché rappresentano la loro cattiva coscienza, ma anche l'uomo con elementi di tipo religioso, di irrazionale, di tipo integralmente umano. E su questa linea io intendo andare avanti. E il S. Matteo che ho in mente di fare è un pochino l'esaltazione, ad altro livello, degli elementi che già erano in Accattone, in Mamma Roma e nella Ricotta. A me il film è venuto in mente in modo totalmente inaspettato, improvviso, irrazionale. Ho Ietto il Vangelo e, leggendolo, quell'aumento di vitalità, che dà la lettura di una grande opera come appunto è il Vangelo, mi ha suggerito l'idea di farci un film. Ripensandoci, ho capito che c'erano delle ragioni profonde, che sono quelle cui accennava Saltini, cioè la liberazione dell'ispirazione religiosa in un marxista, dagli elementi spuri che avevano ispirato Accattone cioè la liberazione dalla disperazione che era in Accattone e che diventa proprio ispirazione a sé stante. Il S. Matteo dovrebbe essere secondo me un violento richiamo alla borghesia stupidamente lanciata verso un futuro che è la distruzione dell'uomo, degli elementi antropologicamente umani, classici e religiosi dell'uomo. Questo film è semplicemente la visualizzazione di un Vangelo particolare, quello di S. Matteo; non è una vita di Cristo, non ho messo insieme i Vangeli e fatto una sceneggiatura della vita di Cristo come si è fatto già altre volte, no, è proprio il Vangelo secondo S. Matteo rappresentato così come esso è; non ho aggiunto una battuta e non ne ho tolta nessuna, seguo l'ordine del racconto tale quale come in S. Matteo, con dei tagli narrativi di una violenza e di una epicità quasi magiche presenti nel testo stesso del Vangelo per cui questo film sarà stilisticamente una cosa piuttosto strana. Infatti a grandi pezzi da film muto — per lunghi tratti i personaggi non parlano, ma devono rappresentare quello che dicono soltanto attraverso i gesti e le espressioni come si faceva nei film muti — seguono momenti invece in cui per venti minuti di seguito Cristo parla. Sarà un film di tipo, senza volerlo, molto vicino a quello stile magmatico che è nel fondo sempre tipico dei miei racconti. Cioè ritorno stilisticamente al magma, mi libero delle forme chiuse, degli elementi di sceneggiatura normale ecc. ecc. con questa ispirazione di tipo religioso e ideologico che spero dia unità e compattezza all'opera.
D. (CASTELLO): Senta, Pasolini, a conclusione, io vorrei riprendere un vecchio discorso perché lei lo sviluppi in questa occasione, ma solo per avere qualche indicazione. Lei ha scritto delle cose interessanti, di colore parzialmente oscuro, controvertibili, su la critica cinematografica e una sua effettiva o presunta mancanza di strumenti filologici per giudicare il film. Vorrei che lei chiarisce brevissimamente che cosa intende con questo, prendendo impegno così poi a discuterlo in altra sede.
R.: Naturalmente le rare eccezioni ci sono. Premetto questo. Secondo me la critica cinematografica manca di rigore filologico a causa degli strumenti che essa deve usare e in relazione alle sedi in cui poi viene ad attuarsi. Mentre la critica letteraria ha le sue sedi, simili a quelle della critica cinematografica (giornali, rotocalchi, ecc., dove si attua malissimo e forse peggio di quella cinematografica) ha però altre sedi quali le riviste specializzate, le Università, dove a fianco di professori noiosi, conformisti, accademici, ve ne sono altri che sono in prima linea, avanzatissimi nella cultura; se all'Università è possibile, volendolo, esprimersi compiutamente attraverso i mezzi più raffinati, completi appunto, forniti dalla filologia, la critica cinematografica non dispone di simili strumenti e vive in un campo infinitamente più ristretto. Infatti ci sono in tutto una o due riviste specializzate, le Università non se ne occupano, e quindi la critica cinematografica in generale, e la critica cinematografica giornalistica in particolare, non può avere un rigore culturalmente serio; può forse dare dei giudizi più o meno approssimativi, può fare il bel pezzo elegante; ma naturalmente dovendosi rivolgere a grandi masse di lettori, non può mai approfondire l'indagine critica e usare i mezzi specialistici specifici. Questo è, secondo me, il limite della critica cinematografica.
D. (CASTELLO): Quanto a questo mi pare si possa notare che in materia di cinema specialmente, la parola filologia può essere anche equivocata, può essere intesa in accezioni diverse, e che ci sia addirittura in certa critica cinematografica un eccesso di filologia.
R. : Quando io dico filologia intendo riferirmi soprattutto alla filologia tipica della stilcritica, cioè alla critica filologica in quanto critica comparata. E probabilmente anche nel cinema c'è qualche cosa di simile. Esistono certamente Storie delle storie del cinema nelle quali questo andamento filologico, questi confronti, questa ricerca di fonti ecc. ecc. sono evidenti. Ciò nonostante, secondo me, non esiste una critica cinematografica che possieda una terminologia esatta con regola stilcritica come nella letteratura. E non c'è anche per ragioni di laboratorio perché il film non è un testo che io posso prendere e mettere davanti agli occhi e fare tutti gli esami di laboratorio che voglio come in una pagina scritta: per vederlo debbo servirmi almeno di una moviola. Per esaminarlo a fondo dovrei vedere i rifacimenti e noi sappiamo che i rifacimenti sono una parte molto importante nell'esame filologico e critico di un attore. Per i film come si fa a vederlo? Ci sono dunque degli elementi oggettivi i quali impediscono la nascita di una critica filologica; elementi però che volendo potrebbero essere eliminati.
D. (FIORAVANTI): Credo che sia necessario porre termine a questa interessantissima discussione. Ci sarebbero molti altri argomenti che potremmo affrontare con Pasolini, come ad esempio quello della televisione — ed io so che Pasolini ha in proposito idee che stimolerebbero un proficuo dibattito — però credo che non gli possiamo sottrarre altro tempo ed abusare oltre della sua pazienza. Pertanto lo ringrazio ancora per questo incontro, per le cose interessantissime che ha detto, con la speranza di poterlo avere fra noi per discutere, magari in anteprima, il suo film sul Vangelo di S. Matteo.
R. : Grazie, grazie a tutti voi.
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