"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Colloquio con Pasolini
Una visione del mondo epico-religiosa
seconda parte
Bianco e Nero
numero 6
giugno 1964
da pag.12 a pag.41
( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )
D. (ANTONIETTA FIORITO, 2° anno recitazione): Nei suoi film lei ha usato attori non professionisti, tranne Anna Magnani in Mamma Roma. Ora io vorrei sapere quali sono i motivi che l' banno indotta a scegliere attori non professionisti, quali sono i criteri che lei ha usato nella scelta di questi attori e a quali problemi si è trovato di fronte nel dirigere questi attori.
R. : Se devo rispondere a voi che vi accingete ad essere dei professionisti, debbo farlo con sincerità. lo ho una specie di idiosincrasia per gli attori professionisti. Non ho però, sia ben chiaro, una prevenzione totale e ciò perché non voglio mai sottoporre la mia attività a delle regole precise, a delle coazioni. Questo mai. Io infatti non soltanto ho usato Anna
Magnani, ma anche Orson Welles. Come vede non è che in questa mia scelta sia poi fazioso, in realtà tengo aperte tutte le strade. La mia idiosincrasia dipende dal fatto che, per quel che riguarda i miei film, un attore professionista è un'altra coscienza che si aggiunge alla mia coscienza. Se io mi son deciso a fare dei film è perché ho voluto farli esattamente così come scrivo delle poesie, come scrivo i romanzi. lo dovevo per forza essere autore dei miei film, non potevo essere un coautore, o un regista nel senso professionale di colui che mette in scena qualcosa, dovevo essere autore, in qualsiasi momento, della mia opera. Ora evidentemente un attore professionista porta una propria coscienza, una propria idea al personaggio che interpreta. Quindi anche ammesso che io avessi potuto vincere da solo la sorda lotta che naturalmente in questo caso si instaurava fra me e l'attore professionista, un qualche cosa della sua coscienza, che è un elemento spurio rispetto all'integrità stilistica dell'intera opera d'arte, sarebbe comunque rimasto. Ecco qual'è la ragione della mia resistenza a valermi di attori professionisti. A un certo punto ho pensato che l'Anna Magnani di Roma città aperta avrebbe potuto passare integralmente nella mia realtà, ma questo non è successo perché Anna Magnani è effettivamente rimasta con la sua coscienza d'attrice e con la sua indipendenza d'attrice, e giustamente. È stato un mio errore credere di poterla completamente prendere nelle mie mani e distruggerla. Era assurdo ed inumano da parte mia questo; ed infatti Mamma Roma ha questo limite. Intendiamoci bene: io considero Anna Magnani una grande attrice e, probabilmente, se dovessi di nuovo fare Mamma Roma, io tornerei a prendere lei, però chiaramente c'è in Mamma Roma un elemento stilistico esteriore che non appartiene al mio mondo, qualche cosa di spurio rispetto al mio stile. Per Orson Welles la questione è stata un pò diversa. È entrato molto meglio nel personaggio perché nella Ricotta ho fatto fare ad Orson Welles in parte sé stesso. Ecco, faceva il regista, faceva sé stesso, faceva la caricatura magari di sé stesso e quindi rientrava perfettamente nel mio mondo. Ripeto però che non voglio avere delle regole precise, delle norme che mi limitino, anche se ho una preferenza quasi ideologica, estetica per attori non professionisti in quanto che essi sono brandelli di realtà così come brandello di realtà è un paesaggio, un cielo, un sole, un asino che passa per la strada. Sono elementi di una realtà che io manipolo e ne faccio quello che voglio. Naturalmente però non escludo assolutamente che nei prossimi film mi avvalga di attori professionisti. Poi c'è una questione meno tipica, ma che comunque è molto importante ed è una questione linguistica. Voi sapete come in Italia non esista una lingua media. Non c'è una lingua italiana come c'è il francese, come c'è l'inglese; l'italiano non è una lingua strumentale nel senso pieno della parola. Voi sapete certamente che un facchino della Gare de Lyon parla quasi come un grande letterato francese perché in fondo si avvale strumentalmente della stessa lingua. In Italia non vi è questa lingua e quindi ogni autore deve far leva su delle lingue particolari. Per esempio, Bassani nell'ultimo libro « Dietro la porta » deve far leva sul modo di dire tipico del linguaggio piccolo borghese settentrionale. Moravia stesso, che sembra uno scrittore linguisticamente molto strumentale (in realtà Moravia era riuscito a fare della lingua italiana una specie di calcolo del razionalismo della lingua francese) anche lui effettivamente — guardate « La romana », guardate « La noia » — ha dovuto fare un passo indietro linguisticamente e fare leva sulla lingua parlata media che è però specifica della borghesia romana o del proletariato romano con « I racconti romani » per esempio. Ognuno di noi cioè deve basarsi su una lingua speciale, — io ho fatto leva sul dialetto e sul gergo romano — a meno che non vogliamo servirci della lingua puramente letteraria; ma è una lingua che non ha niente a che vedere con una lingua strumentale media quale è la francese, l'inglese ecc. Questo per molte ragioni storiche che è inutile che io vi stia ad illustrare perchè l'Italia ha meno di un secolo, mentre la Francia ha cinque secoli di vita unitaria, burocratica, politica ecc. ecc. Ora questo problema della lingua è molto importante quando poi si viene alla scelta di un attore. Voi che lingua imparate? Voi come attori cinematografici avete forse meno questo problema, ma un attore di teatro lo ha molto di più. Però anche in voi, negli attori professionisti cinematografici, c'è questo vuoto, questa lacuna, cioè voi imparate una lingua che non esiste, cioè vi si insegna a mettere degli accenti, a dire una parola in un dato modo, ad avere fiducia di un dato lessico di una data sintassi che in realtà non esistono. Quindi tutto è fittizio perché evidentemente un attore non parla come un letterato, non parla come un ladro, non parla come un proletario lucano, non parla come un grande industriale del nord. Come parla allora? Dovrebbe parlare con una lingua media, come quella che parlano gli attori inglesi e francesi. Ma voi che lingua parlate? Ditemelo. Ora questo fatto che voi, e gli attori professionisti in genere, basiate la vostra recitazione su una lingua che non esiste, è una cosa spaventosa per me, perché non posso far palare uno con una lingua che non esiste. Capite? E' questa in fondo la vera ragione per cui io mi trovo spaventato di fronte ad un attore professionista.
D. (DAN PERRY, 2° anno regia): Ne! film Accattone lei ha impiegato musica di Bach. Il film non ne ha guadagnato, la musica ne è uscita sminuita senz'altro. Quale è la ragione, dato che non credo sia stata sua intenzione di servirsi della musica di Bach come contrappunto della immagine, con una soluzione troppo ovvia e già largamente sfruttata nel cinema? Per chiarire meglio il mio pensiero prendo un altro esempio dal cinema italiano: Il Posto di Olmi. Ebbene, io non posso immaginare questo film con una musica barocca come ha fatto lei in Accattone.
D. (GIULIO CESARE CASTELLO): Mi sembra che Perry ha detto delle cose giuste che combaciano con quello che penso io. La questione però ha diversi aspetti, uno dei quali è implicito in un aggettivo che ha usato adesso Perry, cioè « barocco ». Ma, prescindendo pure dalla opportunità di prendere delle musiche preesistenti e di tale levatura e servirsene per il commento di un film, lei in molte occasioni commentando i suoi film specie per gli aspetti figurativi, ha fatto spesso riferimento a Masaccio soprattutto per Accattone, mentre per la Ricotta lei ha fatto riferimento, per certi aspetti, ai manifesti ecc. Mi pare allora evidente che la scelta di musiche di tipo Bach o di tipo Vivaldi costituisce già una contraddizione con la scelta delle fonti di ispirazione figurativa, perché quelle fonti figurative e quelle musiche appartengono a due diversi estetici ben distinti e separati. L'altro aspetto del problema è quello di fondo, Cioè del senso che ha l'adozione nei film di musiche di questo genere, adozione che fra l'altro sta diventando quasi un vezzo. Infatti si è dato il caso che uno stesso pezzo di Albinoni ormai celeberrimo e diventato popolare, rischia di creare insofferenza perché nello stesso anno è stato impiegato, sia pure con strumentazione diversa, da tre registi cioè: da Welles nel Processo, da Zurlini in Cronaca familiare, da Bourguignon ne Les dimanches de Ville-d'Avray. Ora questo è indice non solo di una certa tendenza, ma il curioso fenomeno dei tre registi di tre nazionalità diverse che prendono uno stesso autore, uno stesso pezzo per tre film così differenti, mi pare che sia un cattivo segno cioè in un certo senso un segno di debolezza. Del resto, forse lei lo sa perché io l'ho anche scritto, è questo l'unico aspetto della sua opera di regista che non mi persuade; cioè io ammiro molto i suoi film e l'unica cosa che mi dà fastidio è la musica, salvo per gran parte de La ricotta che è un film più composito, più intellettualistico con certi aspetti in chiave ironica. In questo caso l'impiego della musica corrisponde a certe citazioni figurative nelle parti a colori e ha quindi una sua precisa ragione d'essere; ragione che non trovo per quanto riguarda gli altri film. Usare Bach per commentare le immagini di un film mi sembra un pò da « parvenu » - adopero la parola in un senso che la prego di non ritenere offensivo — perché è chiaro che un'opera della compiutezza di una pagina musicale di Bach non potrà, parlando direttamente alla sensibilità e non all'intelletto, non esercitare sullo spettatore un certo effetto; ma sarà un effetto di natura ipnotica o di natura distrattiva in quanto crea una contemplazione estetica dentro ad altra contemplazione estetica e quindi in ogni caso controproducente. Lei, poco fa, faceva un discorso molto giusto, formulato in termini esatti, sulla questione detta lingua in Italia e sulla mancanza di una lingua strumentale comune. Ebbene nel film la musica non può non avere un valore strumentale nel senso che deve servire ad esprimere una certa concezione che è quella del film. Ora in questo senso mi pare che in Italia, ci sono dei buoni musicisti che sanno scrivere anche delle eccellenti musiche originali per film, ed esistono anche dei musicisti i quali, pur essendo dei rispettabilissimi compositori, hanno come vocazione preminente quella, diciamo così, del « pastiche ». Nino Rota, per esempio, ha scritto una opera buffa che si chiama « Un cappello di paglia di Firenze » che è un « pastiche » sull'opera buffa italiana, cioè un'opera scritta « à la manière de » con un'intenzione naturalmente ironica intellettualistica. Orbene io ritengo che Nino Rota — e ne fanno fede le musiche che ha scritto tanto per Fellini quanto per Visconti, per citare i due casi più alti — è l'ideale compositore di musica per film proprio perché sa essere compositore « à la manière de », sa mimetizzarsi, sa cioè porsi al servizio di un artista e di un'opera. Prendiamo la colonna sonora della Dolce vita o quella di "8 e mezzo" o quella del Gattopardo, ed è straordinario constatare quello che ha fatto Rota, cioè come ha saputo convogliare nella colonna sonora di "8 e mezzo" certi elementi di musica, diciamo così circense, e come ha saputo per il Gattopardo scrivere della musica alla Bruckner — e non è un caso perché Visconti per Senso ha preso addirittura Bruckner — oppure scrivere dei ballabili — dei valzer, delle polke, delle mazurke — i quali si allineano tranquillamente nel film con incastonato in mezzo un valzer autentico dell'800 e per di più di Verdi in quanto il mimetismo di Rota, mimetismo nel senso più alto, raggiunge il grado di fusione totale. Ora io credo che questo sia il tipo ideale di compositore cinematografico, il più adatto a comporre musiche per film. Per contro sono convinto che l'impiego di una musica preesistente, tanto più se celebre, tanto più se di altissimo livello, non può dare dei risultati di piena fusione con il film, può invece creare delle perplessità nello spettatore che si pone alla ricerca delle ragioni che hanno potuto spingere il regista a quella scelta.
R. : Avrei da rispondere molte cose a queste obiezioni, il discorso è un pò come la bottiglia piena col collo piccolo e le molte parole vi si affollano. Intanto comincio con una precisazione assolutamente sincera: e cioè, mentre mi intendo in qualche modo di pittura, di musica, benché io l'ami molto di più, mi intendo molto di meno. E allora probabilmente, continuiamo con la sincerità, il mio uso di Bach in Accattone è stato leggermente mistificatorio cioè basato su una mia generica conoscenza di Bach: ho preso Bach non per il suo significato storico specifico, ma l'ho preso come la Musica con l'm maiuscola in quanto per me, ignorante di musica, Bach è veramente la musica in senso assoluto, capace di dare quel senso di religiosità e di epicità che dicevo in principio. Ora io questo l'ho fatto, mi sono permesso di farlo perché considero la musica un elemento molto esteriore del film, un pò una cornice, un elemento cioè quasi plateale — eccettuati i rari casi di pura funzionalità — e quindi mi sono permesso una certa scelta. Forse avrò sbagliato, comunque certi effetti non avrei potuto raggiungerli che così perché la mia vocazione per il « pastiche » nel cinema naturalmente si imbatte in elementi molto più rozzi ed elementari che nella letteratura. Il « pastiche » letterario si può valere di raffinatezze infinite, il « pastiche » cinematografico molto meno; i mezzi cinematografici sono molto più pesanti più grevi, più massicci che gli elementi stilistici di un romanzo o di una poesia e quindi può darsi vi sia una certa grossolanità nel risultato, nel far suonare per esempio la musica di Bach nel momento in cui Accattone si lancia per lottare con il cognato; però siccome, ripeto, considero la musica come un elemento puramente psicologico del film, mi sembra che la musica di Bach abbia raggiunto una funzionalità dentro i limiti nei quali una musica ha in generale funzionalità in un film. E mi sembra che questo sia molto giustificabile, più che non la composizione di un « pastiche » musicale, proprio perché non capisco la ragione di mettere un falso Bach al posto del Bach vero. Evidentemente quando io scelgo delle musiche per un film devo purtroppo tenere per certo che gli intenditori di musica riconosceranno il pezzo, chi lo suona, il disco in cui è inciso, e si domanderanno il perché della scelta non ritenendola giustificata. Saranno tuttavia pochissime persone a provare questa sensazione e spero anche che, dopo il primo momento, esse potranno superarla. Ma la enorme massa degli spettatori, io compreso, che conosciamo poco la musica, probabilmente non riceveremo questa impressione e sarebbe allora dimostrata la funzionalità della musica prescelta.
Credo insomma che ciascuno possa ricevere una diversa sensazione, che dipende dalla gamma della propria sensibilità e della propria cultura musicale: ho sentito infatti un'infinità di persone dirmi che era una idea stupenda l'aver messo quel Bach in quel momento. Cioè, evidentemente la cosa da parte mia è leggermente mistificatoria e qui ha ragione Castello, però mi sembra di potermi concedere questo atto un pò arbitrario, di potermelo concedere data l'idea che io ho sulla funzione della musica in un film.
R. : Ma lo è invece, perché la musica di Accattone per le platee più imprevedibilmente rozze ha avuto la sua efficacia. Evidentemente Bach non è conosciuto per colpa nostra, non perché il pubblico non possa capire Bach.
R.: A me certamente ha fatto un gran piacere sentire finalmente che il pubblico ha seguito e ha sentito Bach.
R. : Beh, qui la risposta mi sembra abbastanza semplice: ho fatto Accattone anche perché spinto dal desiderio di realizzare io stesso quello che avevo Inteso di esprimere nelle mie scenegglature. Al contrario di lei poi io considero Morte di un amico per quel che mi riguarda, cioè dal punto di vista dello sceneggiatore, un tradimento in fondo molto maggiore che La notte brava.
R. : Perché ne La notte brava prevalgono forse degli elementi tipici di Bolognini, cioè un decadentismo di tipo ornamentale e superficiale che ha avuto i suoi approfondimenti soprattutto, ne II bell'Antonio, e che ne La notte brava si mantiene a un livello di puro ornamento, di puro divertimento. E in questo credo consista il decadentismo cui lei alludeva parlando de La notte brava: specie di arzigogolo, di ornamento più o meno vitale.
R. : I limiti di Morte di un amico non sono tanto dovuti al regista Rossi, ma al produttore che ha imposto a Rossi di fare in un dato modo correggendo la sceneggiatura pagina per pagina e obbligando Rossi a firmarla: c'è il limite insopportabile del sentimentalismo. E allora tra i due casi benché forse Rossi abbia lavorato con più ispirazione rappresentando talvolta questo mondo di sfruttatori di donne, di prostitute, in maniera più integra, più fisicamente poetica, io veramente rifiuto, rinnego il film nel suo insieme, e per questo non ho voluto firmare la sceneggiatura, offeso profondamente dall'intervento del produttore che secondo me si risente poi irrimediabilmente nel sentimentalismo, nel continuo eufemismo che domina il film di Rossi. Invece Bolognini ha seguito la mia sceneggiatura in maniera abbastanza fedele limitandola con il mezzo non del sentimentalismo ma del puro ornamento. Ma appunto la delusione provocatami da questi film ha rappresentato in fondo la spinta pratica a voler fare un film io stesso.
R. : lo pensavo ad attori non professionisti.
R. : In verità è molto che non rileggo quella sceneggiatura; se però lo facessi, de La notte brava scoprirei come non è vero quello che lei mi dice poiché i personaggi de La notte brava sono personaggi che si avvicinano a quelli di Accattone o di Mamma Roma, nati per vivere pezzi di realtà, di natura, di violenza come sarebbero stati poi Franco Citti o Garofalo ecc. Non soltanto, ma il loro vitalismo è estremamente crudele. Vorrei rileggere la sceneggiatura de La notte brava perché, come le ripeto, sono tre o quattro anni che non la leggo, ma finalmente in essa è più spietata questa notte buttata via così, senza senso, senza ragione, con una serie di casualità così violente, volgari, è infinitamente più violenta, più dura, più drammatica di quello che poi è venuto il film. Non credo quindi che l'estetismo di cui lei parla fosse già sostanzialmente nell'intelaiatura dei personaggi e della trama del racconto, è una cosa aggiunta dopo da Bolognini a ragion veduta perché lui sapeva fare film così, la sua mano è quella, la sua grazia è quella, allora ecco perché ha attenuato alcune figure creando un salto di qualità che ha trasformato poi all'interno la mia sceneggiatura. Non considero affatto La notte brava un brutto film, lo considero invece un film di una certa levatura, fatto con una certa grazia, ecco; il limite è l'ornamentaiità, la superficialità, l'approssimatività nei confronti della vera violenza reale dei personaggi e del mondo.
R. : Può darsi sia vero quello che lei dice. Molte volte un poeta, uno scrittore, è crudele, è spietato, non è detto che l'amore abbia sempre gli aspetti umanistici, fraterni o dolci, molte volte l'amore ha degli aspetti crudelissimi. Ora, che io ami o non ami i miei personaggi deve risultare soltanto da come io li ho espressi e non da quello che ho detto contenutisticamente su di loro. Se io sono riuscito a dare quello che volevo dare in Accattone, ammettiamo, cioè la grandezza epico-religiosa di questi personaggi miserabili, se io son riuscito a darla attraverso gli stilemi del mio film, attraverso il ritmo del racconto, attraverso il modo con cui li muovo, l'atmosfera in cui li immergo, attraverso la luce, il sole, l'ambiente intorno a loro, se io sono riuscito a dare questa idea di loro vuol dire che li amo, se invece sono fallito in questo allora vuol dire che il mio amore è un amore facile, insincero, ma non credo che lei debba cercare l'amore in atteggiamenti velleitari, contenutistici quale per esempio lo sforzo di far redimere i personaggi, ammettiamo: ecco, la redenzione è nello stile, questo voglio dire. Se stilisticamente sono fallito, cioè se non ho raggiunto un risultato di stile vuol dire che il mio amore è insincero, vuol dire che cercherò di amare di più.
R. : Guardi, io sono dell'opinione totalmente opposta alla sua e quindi veramente non posso rispondere perché mi sembra che Accattone sia spaventosamente visibile. lo lancio addosso allo spettatore dei grumi di realtà visiva di una violenza che mi sembra abbastanza rara, e non so, non capisco in cosa lei veda la mancanza di visualità. Non so, pensi un momentino alla scena di quelli che stanno mangiando nell'imbarcazione sul Tevere, pensi ad Accattone nudo che si fa la croce, che si tuffa, pensi, non so, soltanto ai muretti del Pigneto scrostati sotto il sole: mi sembra che sia una visività molto severa perché la severità e l'austerità visiva sono proprio la regola dominante dei miei film. Cerco cioè di evitare tutto quello che è ornamentale, che è « trop plein », troppo vivace, ecco; in un certo senso sono il contrario, vorrei essere il contrario, di quello che è Fellini, che invece è estremamente visivo forse proprio nel senso che lei dice, è pieno di cose, mentre io cerco di ridurre proprio la mia esiguità ad un oggetto solo perché la mia ispirazione, come diceva Castello, è soprattutto la pittura, la pittura — nella fattispecie — di Masaccio, un pittore estremamente visivo in quanto la materia che lui mostra ha una violenza chiaroscurale di una plasticità impressionante mentre gli altri pittori più visivi, nel senso che lei dice, sono più ornamentali quindi più piatti, restano più nel muro o nella tela o addirittura non ne vengono nemmeno fuori.
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