"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini, Le ragioni di un non amore
Uccellacci e uccellini
Vie nove
numero 21
27 maggio 1965
pag. 26
( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )
Ho letto il suo soggetto intitolato «L’aquila» e vi ho ritrovato un’accentuata francofobia, che del resto non da oggi rilevo nelle sue posizioni critiche e letterarie. Non capisco in concreto che cosa voglia dimostrare l’allegoria del domatore francese i cui sforzi per addomesticare l’aquila non soltanto risultano vani, ma addirittura alla fine mutano lui stesso in aquila. La Sua francofobia giunge fino al punto di definire «pernacchiette» quel piccolo caratteristico soffio con il quale i francesi hanno l’abitudine di sottolineare certe frasi. Ma ciò che è più grave, ciò che fa torto alla Francia, alla sua universale cultura e alla sua tradizionale generosità è che Lei mette tutti i francesi nello stesso sacco, come se niente di ciò che è francese meriti non dico ammirazione, ma almeno stima e comprensione. Infatti nel pantheon del Suo sovrano disprezzo Lei colloca alcuni rappresentanti illustri di correnti politiche constrastanti, da Sartre a Mauriac, da Camus a Claudel.
Giordano Siviero
Terville (Moselle)
Francia
Cominciano le illazioni, le facili accuse che partono da un particolare isolato, anziché dall’insieme. Io non ce l’ho affatto con la Francia, che considero il centro della mia cultura. Ce l’ho, nel mio episodio, contro un certo tipo di intellettuale laico parigino, in quanto rappresentante supremo di una certa borghesia del mondo occidentale. Inoltre ho molte osservazioni anche polemiche da fare sulla cultura francese di questi anni (però Barthes, Fanon, Lévi-Strauss sono francesi!).
Approfitto per fare un giro d’orizzonte culturale, di cui è essenziale il punto di partenza «dentro di me»: ossia la mia interpretazione di scrittore nato dalla Resistenza e dalla grande, e in qualche modo rivoluzionaria, revisione operata dalla cultura italiana su sé stessa negli anni seguenti la Resistenza.
Non credo che qualcosa di simile a tale revisione sia accaduto per es. nelle nazioni dell’Est prima che il comunismo andasse al potere; o perlomeno nulla di simile è accaduto in simili proporzioni. In Cecoslovacchia, in Romania, in Ungheria, in Polonia, la tradizione culturale era simile a quella italiana prima della Resistenza: area marginale dei grandi centri europei, soprattutto Parigi. Anzi, in qualche modo, città come Praga (il cubismo praghese, Kafka) o Varsavia, erano più vicine a quei centri che l’Italia (di cui è ben nota l’estrema provincialità dell’ermetismo cattolico e del dominio crociano). La presa di coscienza della diversità della letteratura è avvenuta, nelle nazioni dell’Est, in coincidenza con la conquista del potere da parte del comunismo. La stessa grande operazione di Lukács avviene sotto il segno di questa coincidenza. Il potere e la cultura criticavano insieme la cultura precedente: ma le due operazioni sono, in sostanza, inconciliabili. Poiché la critica che il potere opera su una cultura manca di concretezza e di drammaticità: la sua dialettica è astratta; non appena esso si accorge che qualcosa è male, la elimina: non ha e non avrà mai il coraggio di vivere il male contraddittoriamente; se decide di dimenticare il passato, lo fa astrattamente, presentando la sua negazione come una «media» delle particolari negazioni viventi di tutti i cittadini di buona volontà, compresi i letterati: non accetterà mai che il passato, dimenticato, eliso, continui in realtà a fornire moduli e forme del pensiero: se poi lo accetta, allora escogita formule che rendono tutto ciò esteriore: per es. «le vie nazionali al socialismo», che si sono rivelate dei flatus vocis (se la nazionalità va intesa come storia, ossia come male-bene, come realtà bruta ma concreta, come tradizione indimenticabile assolutamente aliena ad ogni rivoluzione ecc.). La coincidenza dunque di una «critica del potere» e di una «critica della cultura» alla cultura precedente è solo in apparenza, e nelle prime fasi, simpatetica: subito dopo essa rivela la sua incompatibilità. Il conflitto tra cultura e potere negli Stati socialisti dell’Est non è certo che uno dei problemi della «continuazione» della rivoluzione; ma, ai nostri occhi, è forse il problema principe. Perché la concretezza dei problemi culturali visti dalle «persone culturali», dai poeti, si può anche presentare come simbolo della concretezza dei problemi dell’intero popolo. Inoltre essi hanno oggi, in concreto, come obiettivo diretto una modifica costituzionale (l’abolizione dei controlli, delle precensure, delle censure): ossia, postulano un’azione. Un’azione che non può non essere coronata da successo: ma che tuttavia, intanto, rivela una profonda e inquieta incapacità degli uomini di cultura dei paesi dell’Est di sapere oggi quello che essi stessi vogliono, quale sia il loro programma di libertà. Il fatto per es. che essi siano così inclini ai revivals formalistici (in Cecoslovacchia, in Ungheria, c’è una passione clandestina per le avanguardie: indiscriminata, sia per le avanguardie operanti oggi nel mondo, sia per i movimenti avanguardistici delle rispettive tradizioni novecentesche prerivoluzionarie). Tutto ciò dipende, ripeto, dal fatto che l’intelligenza di quei paesi non ha operato prima della rivoluzione una critica rivoluzionaria totale alle forme della cultura precedente (come invece è successo con la Resistenza in Italia).
In Spagna, nella clandestinità e nell’indifferenza di un popolo ridotto puramente a vivere, si tenta qualcosa di simile che in Italia (cfr. il «realismo critico» spagnolo, e la forte quantità di poesia rivoluzionaria, anche se solo, talvolta, e sia pure in modo pateticamente sublime, antifranchista).
Quanto alla Francia, in questa nazione, come in tutte le nazioni «opulente» del nord Europa, non c’è soluzione di continuità da Rimbaud o Flaubert in poi: non si è mai avuta una rivoluzione critica, nemmeno di generazione. La concatenazione dei modi letterari non è stata mai interrotta. La gerarchia dei valori è sempre stata la stessa, e nessuna divisione, né fittizia né reale ha mai discriminato il pantheon francese. Non si è avuta una vera e propria letteratura dell’impegno (la Resistenza ha dato delle opere, spesso stupende, ma legate stilisticamente alla tradizione recente): alla continua e geniale presenza saggistica di Sartre non si è aggiunta una produzione così rilevante da costituire un nuovo periodo letterario: l’éngagement è stato quasi esclusivamente saggistico, non creativo ecc. Nella testa di un giovane uomo di cultura marxista francese non esiste un canone morale di scelta letteraria: nel suo pantheon c’è Sartre vicino a Mauriac, «Tel Quel» vicino a «Clarté»: gli odi e le avversioni avvengono tutti prima dell’operazione letteraria, in sede saggistica o ideologica. L’opera letteraria fatta si giudica attraverso il gusto: e il gusto non ha avuto soluzione di continuità da Rimbaud o Flaubert al 1965. La drammaticità di tale contraddizione non è venuta alla luce; è rimasta sopita dentro le nuove generazioni francesi, che non sanno trovare la forza ideologica di superare ideologicamente in modo radicale i padri, di farli decadere e morire, anche se magari ingiustamente dal punto di vista strettamente estetico. Il pantheon è saturo, ma il catalogo è disponibile ancora per nuovi incasellamenti. E nessun giovane francese si decide a buttar fuori dal pantheon pieno i vecchi dei per metterci quelli nuovi: non saprebbe infatti quale criterio seguire, se non quello delle scuole letterarie. D’altra parte, se un fanatico, in nome di una condanna ideologica mutuata dalle ricerche italiane degli anni Cinquanta, volesse fare piazza pulita, svuoterebbe il pantheon, che diverrebbe tout court una basilica dedicata a San Sartre e alle sue costellazioni. Il marxismo francese non ha espresso una forza culturale media che esercitasse una critica rivoluzionaria rispetto alla cultura precedente al marxismo. Forse perché in Francia non c’era possibilità di scandalo: e nulla si pone scandalosamente in rapporto dialettico col liberalismo francese.
Pier Paolo Pasolini
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