"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini
Canzonissima (con rossore)
Tempo
1 novembre 1969
pag. 17
( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )
È incredibile quello che hanno visto ieri sera i miei occhi, per non più di cinque minuti, fin troppo esaurienti, alla televisione. In quei cinque minuti stavo cenando in fretta, e i miei occhi non potevano non cadere sul «video» acceso, proprio davanti alla tavola (mia madre e mia zia sono tra i dannati che vedono la televisione tutte le sere).
Il mio sguardo era acre, s’intende. Infatti, per tutta la mezz’ora precedente la cena, avevo corretto delle bozze, e la voce sciocca e futile, piena di insopportabile ottimismo, della televisione, mi aveva tormentato.
Acri, erano dunque i miei occhi, ma tutto sommato abbastanza distratti e lontani. Ho realizzato solo dopo un po’ quello che stavo vedendo: due donne molto simili una all’altra, stavano facendo delle evoluzioni, d’una assoluta facilità, come due automi caricati a molle, che sanno fare solo quei due o tre gesti, capaci di dare una inalterabile e iterativa soddisfazione al bambino che li osserva. Due o tre mossucce idiote, incastonate in un ritmo, che voleva essere gioioso e invece era soltanto facile. A cosa alludevano quelle mossucce, quei colpetti di reni e quelle tiratine di collo? Non si capiva bene, ma certo a qualcosa di estremamente convenzionale comunque: a un’allegria collegiale e orgiastica, in cui la donna appariva come una scema, con dei pennacchi umilianti addosso, un vestituccio indecente che nascondeva e insieme metteva in risalto le rotondità del corpo, così come se le immagina, se le sogna, le vuole un vecchio commendatore sporcaccione e bigotto. Tutto ciò, che si presentava come leggero, era invece pesantemente volgare. La «disparità dei sessi» era sbandierata spudoratamente come una legge fatale e prepotente di un «sentimento comune». (Si lotta per il divorzio, e poi si continua a volere e vedere la donna come una buffona, vestita e agghindata come per un mercatino delle schiave?)
Finito il balletto (in cui era impegnato un altro mezzo centinaio di persone, ragazzi e ragazze intenti a movimenti che facevano arrossire per loro), ecco che si presentano su una ribalta luccicante e biancastra, come di plastica, due tipici uomini di mezza età italiani: uno piuttosto alto e stempiato, l’altro un bassetto tutto pepe. La prima cosa che essi, attraverso il loro «linguaggio fisico», hanno messo in mostra è stata la loro solo parziale presenza lì. Essi si mostravano impegnati cioè a esserci e non esserci: non si sa mai, parevano dire, forse è bene trovarci qui, ma forse è meglio far capire che non vorremmo trovarci. Hanno cominciato a parlare e a muoversi. I vecchi clowns veneti del circo Banana o del circo Cragna certamente facevano meglio: comunque la tecnica era la stessa: il bassetto era il comico, e l’altro la spalla. Le sottolineature della situazione - il comico doveva risultare ingenuo e beffato, l’altro doveva risultare un dritto che beffa, in nome delle leggi normali della logica e del buonsenso - erano di una rozzezza da mettere a disagio. L’idea di essere costretti a obbedire alle regole di un gioco imposto da due persone così modeste e volgari (uscite dritte dalla «media», come in un laboratorio) dava un senso di soffocamento e di ribellione. A questo punto è finita la mia cena, e me ne sono andato.
Il lettore che (ahimè) se ne intende, avrà capito che si tratta dell’esordio di Canzonissima (arrossisco, letteralmente, a scrivere questa parola). Non voglio addentrarmi nelle polemiche che so infuriare intorno a questo programma della Tv. Lo so perché leggo in fretta, e subito rimuovendoli, i titoli di queste polemiche. Immagino che si polemizzi perché la trasmissione è brutta. Ma non si tratta di bruttezza. Il livello culturale di ciò che ho visto ieri sera, in quei cinque minuti, è tipico. Nel novantacinque per cento dei casi non si vede alla televisione niente di più bello o di più brutto di così. Se si polemizza su... allora bisogna polemizzare su tutta la televisione, con lo stesso calore (vedo strabiliato che sul «Giorno» si dedica oggi un’intera pagina su questo bel problema, sia pure sfavorevolmente!). Non è questione di bruttezza o di bellezza. È questione di volgarità. E la volgarità della televisione deriva dalla sua sottocultura. Non è neanche vero che la televisione modestamente sostituisca la «tombola» delle serate in famiglia. In ciò c'è solo una parte (del resto molto deprimente) di verità. Infatti la «tombola» delle vecchie sere, durate fino ad alcune decine di anni fa, aveva ancora una sua ragione culturale di essere. Era un infimo atto di cultura di una civiltà contadina, coi suoi forzati coprifuochi, la sua stasi, la sua povertà. La televisione non è questo: essa ha nella sua funzione culturale tutta la prepotenza del potere; del potere industriale; che vuole, e determina e condiziona una serata familiare che non ha nulla a che vedere con le serate familiari del mondo antico. In queste ultime infatti si celebrava una quotidiana cerimonia concreta, che aveva le sue radici particolaristiche in un piccolo mondo concluso: un fiumicello, una catena di colli, delle mura di cinta. Oggi il riferimento di quelle belle serate in famiglia davanti al video non è locale, concreto - modesto ma profondo - alla realtà di una piccola patria, ma alla realtà produttiva di una intera nazione, che altera il significato della famiglia, e ne fa non più un nucleo di innocenti conservatori, ma un nucleo di ansiosi consumatori.
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