"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Delitto Pasolini
Il testimone misterioso
Oriana Fallaci
L'Europeo del 21 novembre 1975
Non daremo il nome di quel ragazzo. Non ne
forniremo neppure i dati somatici, nella speranza che ciò serva a non
farlo riconoscere dagli assassini di Pasolini prima che la polizia possa
trovarlo e interrogarlo e proteggerlo.
Oltretutto la sua non è
un’intervista data spontaneamente e con gioia. È un’intervista
strappata, estorta pezzo per pezzo, giorno per giorno, attraverso
preghiere, chiacchiere, promesse, a un poveretto sconvolto dal terrore
d’essere punito da
«una pistolettata in bocca».
Un poveretto che
appartiene al mondo dei prostituti romani, cinquemila al colpo, dieci
se va bene, e zitto sennò ti ritrovi morto anche te sul sentiero di
qualche borgata. Chi ha visto il suo volto pallido di paura, i suoi occhi
bagnati di angoscia, chi ha udito la sua voce disperata mentre si
raccomandava:
«Tu me devi capì, cerca de capì, la verità io ce l’ho qua in bocca. E me brucia. Vorrei dirtela proprio, vorrei dirtela tutta. Ma nun ce la faccio perché quelli m’ammazzeno con ’na pistolettata in bocca»,
si farebbe fare a pezzi prima di tradirlo. E io con lui. Costi
ciò che costi, riteniamo e ritengo che non spetti a noi consegnarlo alla
sua fine. A noi spetta soltanto registrare le sue frasi smozzicate, le sue
ammissioni agghiaccianti, le sue piccole rivelazioni terribili, insomma
la conferma che Pasolini non fu ucciso da Pelosi e basta: fu ucciso da
un gruppo di teppisti che lo seguirono e gli tesero un agguato per
rapinarlo o punirlo, magari su incarico altrui, quindi il testimone di cui parlai la scorsa settimana aveva visto bene, luna o non luna.
A
me, poi, spetta anche dimostrare che tra i diritti e i doveri di un
giornalista v’è quello di pubblicare un’informazione che riguarda la
comunità. Sia pure sotto il dubbio di un punto interrogativo.
Prima però devo chiarire qualcosa che mi sta molto a cuore.
Io disprezzo chi non parla per paura, chi si nasconde dietro l’anonimato. Io ritengo complice in omicidio chi assiste a un omicidio o a una qualsiasi violenza e non tenta di impedirlo e poi tace. Io sputo il mio disgusto su chi vide ammazzare Pasolini e invece di corrergli in aiuto si rintanò zitto zitto nella sua baracca ad attendere che gli assassini scappassero via.
La vigliaccheria, l’omertà, l’egoismo, la stessa
prudenza sono a mio avviso crimini immondi.
E aggiungo: niente, per me, è più immorale della paura. Non la paura che si prova, volenti o nolenti, ma la paura che non si vince con uno sforzo dell’anima.
Però
l’immoralità altrui ha un effetto delizioso su me: rafforza la mia
moralità. E la mia moralità, sia personale che professionale, mi
impone di non tradire la parola data a chi mi raccontò che Pasolini
era stato ucciso da tre persone e non una, e che non lo dicessi per
carità, sennò avrebbero-fatto-fuori-anche-me. (Oltretutto le minacce
mi infuriano, mi inducono a comportarmi subito nel modo opposto a
quello che mi viene ordinato).
Non tradire la parola data in questo caso era, ed è, un atto di
umanità. Non siamo tutti uguali, non abbiamo tutti le stesse
debolezze o gli stessi rigori. La persona che mi raccontò non mi
assomiglia. Non è pronta a rischiare, non è pronta a pagare sebbene
abbia già pagato un pochino: la sera stessa in cui seppero che non
aveva taciuto, venne picchiata e minacciata. E da allora vive in una
paura che, se non è pari a quella del ragazzo-che-sa, vi assomiglia
molto. Del resto anche le persone che stanno intorno a questa
persona, i suoi amici e parenti e colleghi, hanno paura. Tutti coloro
che hanno udito il suo racconto, con me e oltre a me, hanno paura. E
son tanti. Il testimone cui allusi la scorsa settimana non si confidò,
infatti, a un individuo e basta. Per due giorni disse a un mucchio di
gente ciò che aveva visto e udito. Solo quando ne capì le conseguenze
si decise a «chiudere il becco», anzi a minacciare gli stessi che aveva informato senza che glielo chiedessero. E se baso i miei calcoli sul
fatto che chiunque venga a sapere una cosa sensazionale la confida a
sua volta a due o tre, concludo che esistono alcune decine di cittadini
italiani a Roma in grado di fornire il nome del testimone.
Perché non lo fanno? Perché hanno paura? Perché si trasmettono le minacce? Cosa c’è dietro questa lurida storia? «Chi» c’è?
È così grande il rischio
che corrono da fargli dimenticare un dovere civile e il bisogno di
scaricarsi d’un peso greve come il nome di colui che vide?
Quel nome io non lo conosco. Ogni volta che il telefono squilla
spero che sia per darmi il nome. E invece mi dà solo una voce
strozzata dalla paura. La centralinista dell’«Europeo» v’è così abituata
che, ogni volta, mi passa la comunicazione dicendo:
«È uno di quelli con la voce strozzata dalla paura».
Poi me lo passa e la voce strozzata
dalla paura chiede ansimando:
«È proprio lei Oriana Fallaci?». E io rispondo: «Sì, sono io. Lei chi è?». E la voce: «Non posso dirglielo… ma ho da riferirle che… quel delitto… Posso fidarmi?». «Sì, può fidarsi.» «Guardi che per me è un rischio grosso e… Be’, richiamo dopo.»
Dopo richiama, magari, per farfugliare il suo panico, offrire
appuntamenti impossibili, innervosirsi se mi spazientisco. E,
ammenoché io non sappia più intuire le cose, e all’improvviso sia
rimbecillita, finisco col pensare che il suo nervoso sia autentico, il suo
panico sia sincero. V’è qualcosa o qualcuno che li spaventa. E, tanto
per restare sul tema della paura, non credo che la paura del testimone
che tace sia paura della moglie. Certi colleghi cui non è piaciuto ch’io
stuzzicassi il vespaio mi fanno torto a ritenere che abbia preso per
buono l’intero racconto. Il particolare delle catene e delle moquettes,
per esempio, mi ha sempre lasciato perplessa, ma alla storia dello
sciagurato che non vuol compromettersi per via della moglie non ho
addirittura creduto. Non è lei che il testimone teme, sono coloro che
terrorizzano i probabili informatori. Stanno troppo in basso o troppo
in alto?
Forse egli li conosce bene, ed essi conoscono bene lui. Forse egli si
fece vedere quando accese la luce nella baracca. Forse essi sanno che
la baracca dove si accese la luce era sua. E a proposito della luce
accesa: chi ha detto che fosse luce elettrica? Avrebbe potuto essere un lume a batteria e anche una torcia elettrica. Avanti, signor testimone
che ora mi legge, ce lo dica con una lettera anonima. Per rinfrescarle
la memoria, intanto, io le dico cosa ho appreso di lei: che la sua casa
è a Roma e che la sua moglie è siciliana o calabrese, che ha due figli,
che un suo amico è camionista o addetto ai trasporti, che un altro è
un muratore uso a costruire abusivamente «villette» all’Idroscalo. La
persona che mi raccontò e che io non tradisco, sennò lei la picchia, mi
disse anche qualcos’altro. Fu quando esclamai:
«Se costui ha paura che sua moglie scopra che era a letto con un’altra donna o una prostituta, perché non telefona alla polizia senza dare il suo nome?». Mi disse: «Perché quelli capirebbero lo stesso che a smascherarli è stato lui. Se la fanno con la droga e, quando c’è di mezzo la droga, chi canta finisce sottoterra».
Vediamo dunque perché esistono almeno numerose probabilità che
abbia fatto centro riferendo una storia che era mio dovere riferire e
insinuando il dubbio che la polizia ci avesse regalato una versione un
po’ sbrigativa o un po’ ingenua. Vediamolo rifacendoci alle domande
che io ponevo in base a un ragionamento così elementare da non
andarne fieri:
«Perché il Pelosi non parla e si assume tutte le responsabilità? Perché lui stesso ha messo sulla pista la polizia raccontando di aver perso un anello che nessuno fino a quel momento sapeva che fosse suo? È possibile perdere un anello durante una colluttazione? Non si darà il caso che Pelosi abbia gettato l’anello lì di proposito?».
Di proposito lo ha gettato davvero. Non solo lo afferma il
ragazzo intervistato da Mauro Volterra prima di pentirsi e gridare:
«Lasciame andà, nun so gnente, nun t’ho detto gnente!», ma lo si
deduce dal fatto che non poteva perderlo durante la colluttazione.
Infatti gli era stretto. Lo afferma la sua amica Stella Angeletti Di
Martino che glielo notò e chiese di guardarlo sul proprio dito ma lui
non riusciva a sfilarlo. (La notizia è di «Paese Sera»). Lo sanno i
carabinieri che sul Pelosi hanno fatto una prova e hanno concluso:
«Novecentonovantanovemila casi su un milione non poteva perdere
l’anello».La polizia ci cascò
Quindi Pelosi imbeccò la polizia, contando sul fatto che essa ci
sarebbe cascata. E la polizia ci cascò, non conoscendo la legge di
gravità formulata da Newton e nota in tutte le scuole elementari come
«la mela di Newton». Sulla testa di Newton era caduta una mela,
grazie alla legge di gravità. Sulla testa della polizia italiana era caduto
un anello, grazie alla stessa legge di gravità. Però mentre Newton ci
aveva ragionato un po’ su, la polizia italiana non ci aveva ragionato
per niente. Era una domenica piena di sole, e con un bel ponte.
Perché cercare complicazioni? Regalarsi il sospetto che Pelosi avesse
voluto firmare il delitto lasciando l’anello avrebbe posto una quantità
di domande difficili. Ad esempio: per quale motivo il ragazzo voleva
accusarsi, assumersi ogni responsabilità? Poteva esistere un motivo?
Non c’è bisogno d’essere Newton per concludere: sì. Supponiamo
infatti ch’io sia un ragazzaccio senza nulla da perdere e supponiamo
ch’io viva di furtarelli, di scippi, di auto rubate e poi rivendute a
pezzi, nel mondo della prostituzione e della droga. Supponiamo che
io abbia un debito da saldare con quel mondo perché ho fatto uno
sgarro o un errore, e che i miei compari vogliano servirsi di me per
rapinare Pasolini. È già successo, a Pasolini, d’essere rapinato dai
ragazzacci: più volte, ed anche pochi mesi fa. Di notte Pasolini non va
mai in giro con più di ventimila lire in tasca, però porta sempre con
sé il libretto degli assegni. Alcuni mesi fa, il colpo degli assegni è
riuscito. Pasolini voleva farsi un sandwich con due del Colosseo e,
anziché in un prato, quelli l’hanno portato su un ponte. Qui,
minacciandolo di buttarlo sotto, nel Tevere, gli hanno fatto firmare
un assegno da duecentocinquantamila lire. (I carabinieri lo sanno,
l’episodio è agli archivi). Al Colosseo e ai giardinetti se ne parla
ancora, con ammirazione e con rabbia: bravi, sì, ma perché solo
duecentocinquantamila? Col libretto degli assegni potevi pretendere
molto di più, tutto ciò che volevi. Il colpo va tentato di nuovo, e
Pelosi ci sta. Farà da esca. Lo condurrà in un luogo sicuro e in pochi
minuti tutto sarà sistemato.
Così avviene. Pasolini però è coraggioso e robusto. Tenta di ribellarsi e bisogna pestarlo: a un punto tale che resta lì come morto.
C’è una breve discussione concitata: che fare? Tanto vale finirlo,
sennò ci riconosce. D’accordo: e se gli passassimo sopra con
l’automobile? Sì, e poi? Poi nulla: gli si porta via l’automobile e la si
vende a pezzi. Grazie tanto, dice Pelosi, ma ai giardinetti hanno visto
salire me sulla GT: la colpa la daranno a me. A te la danno comunque,
rispondono i compari, però una cosa è se scoprono che hai agito con
altri a scopo di rapina e una cosa è se gli racconti d’aver agito da solo:
per legittima difesa in quanto Pasolini ha offeso il tuo onore di dietro.
Sei minorenne. Nel caso peggiore ti becchi due o tre anni, nel caso
migliore vai assolto: povero-ragazzo-insidiato-e-sedotto-da-un-depravato-come-Pasolini. Pelosi se ne convince. I due scappano e lui
resta solo, accanto al cadavere sfigurato. Ha un attimo di
smarrimento, grida la frase udita dal testimone che tace:
«Mo me lasciate solo, mo me lasciate qui!».
Ma subito si riprende. Si sfila
l’anello, lo getta per terra, parte con la GT: contromano e a velocità
esagerata. Lo beccano in un quarto d’ora. E poiché in Italia i tutori
dell’ordine non sono certo come Newton, accettano senza fiatare la
tesi dell’auto rubata. Non si disturbano neanche a notare che sul
sedile posteriore c’è, bene in vista, un golf macchiato di sangue. Il
golf di Pasolini. Se ne accorgeranno tre giorni dopo. E allora sorgerà il
problema: perché il golf macchiato di sangue stava nell’automobile e
la camicia macchiata di sangue stava tra le immondizie, cioè lontano
dal corpo di Pasolini in canottiera? Possibile che Pelosi abbia fatto
tutto da sé, compreso spogliare un corpo pesante come un corpo
senza vita? E com’è che, malgrado quel traffico, Pelosi non è quasi
macchiato di sangue? Non si darà il caso che qualcuno lo abbia
aiutato?
Ora supponiamo che io sia lo stesso ragazzo e che qualcuno mi
voglia usare per tendere un agguato non a scopo di rapina ma per
eliminare un uomo scomodo come Pasolini.
Dietro di me, stavolta,
non due compari della mia età ma alcuni magnaccia o alcuni tipi
molto potenti che Pasolini ha disturbato e disturba.
Alcuni tipi,
diciamo, che vogliono farlo morire due volte, cioè fisicamente e
moralmente: nella vergogna.
Se mi chiamo Pelosi, servo bene allo scopo. E, se accetto, è un gioco da nulla. Magari accetto perché non
ho scelta, perché anche in questo caso ho un debito da saldare. Un
debito che vale un’incriminazione per omicidio, un processo dove
vengo assolto per legittima difesa o condannato a una pena mite
perché sono minorenne e ho difeso il mio onore.
Un processo
insomma dove il vero imputato non sono io ma Pasolini.
Del resto
non è detto che lo debba ammazzare, questo Pasolini. A chi ci ha
ordinato e pagato l’agguato io ho ben ripetuto che preferirei un
pestaggio e basta. E questa ipotesi non è fantasia. Si basa sulle
dichiarazioni fatte a me da un barista che si chiama Gianfranco Sotgiu
e che si dice disposto a deporre dinanzi al giudice istruttore.
L’incontro col Sotgiu è avvenuto nel mio ufficio, presenti il nostro
collega Paolo Berti e il nostro collaboratore Mauro Volterra. L’uomo
era molto spaventato ed esitante. M’aveva telefonato più volte,
dandomi appuntamenti che non si materializzavano mai, e solo dopo
infinite incertezze s’è deciso a venire da me. Ecco la sua
testimonianza, parola per parola.
«Fu giovedì pomeriggio, verso le quattro o le quattro e mezzo. Giovedì 30 ottobre. Fu al bar Grande Italia, in piazza Esedra. Nel bar ci sono due telefoni a gettone, uno per le chiamate urbane e uno per le chiamate interurbane. Io ero entrato per cercare un numero nelle pagine gialle. Il numero di un campo sportivo a Trastevere, diretto da un prete. Volevo telefonare al prete e chiedergli se il campo era disponibile per una partita. Le pagine gialle stavano sotto l’apparecchio delle interurbane, quel ragazzo stava telefonando dall’apparecchio accanto. Non mi ricordo tutto ciò che diceva ma ricordo queste parole: “Va bene, mi faccio portare al posto dove sono già stato. Se c’è solo da menargli ci sto, sennò lasciamo perde”. E dopo un po’ disse: “Aò, me raccomando. Solo pe’ un po’ de botte e basta”. E poi disse: “Ah, senti. Me servirebbe un po’ de soldi”. E poi disse: “Eh, no, che faccio. Aspetto fino a sabato pe’ un po’ de soldi?”. E poi: “Vabbe’, t’aspetto qui sotto i portici, se poi venire in piazza Esedra sotto il cinema Moderno”. Attaccò il ricevitore, uscì, e quasi subito tornò. Dico quasi subito perché io stavo ancora lì a cercare il numero del campo sportivo in Trastevere. E questa telefonata la sentii tutta, insomma la ricordo tutta. Io mi girai quando sentii che faceva il numero, mi venne spontaneo. Fu una telefonata breve. Disse: “Pronto, me chiami Franz”. Poi disse, e non so se lo disse a Franz: “Senti, ci ho ripensato. Vorrei andare al cinema e se è possibile ti aspetto alle otto, otto e mezzo. Se vieni a quell’ora”. E l’ultima parola che disse prima di riattaccare fu: “Aò, me raccomando. Porta il dollaro”. E uscì. Io questo ragazzo non lo avevo mai visto. E in faccia non lo vidi neanche tutto, all’inizio, perché alla prima telefonata non faceva che soffiarsi il naso. Alla seconda mi voltava un poco le spalle, ma era più visibile. E appena ho visto le fotografie del Pelosi sul giornale ho pensato: io questo l’ho visto, lo conosco. Ho riconosciuto bene la parte superiore della faccia, il naso, le sopracciglia, gli occhi. E gli zigomi pieni. Era un ragazzo alto all’incirca come me ma più robusto di me, soprattutto alle spalle. Più che guardo le sue fotografie più che lo riconosco. E fu riconoscendolo nelle fotografie che mi scattò il ricordo. Mi scattò con la frase: “Aspetto fino a sabato pe’ un po’ de soldi?”. Alla polizia non ho detto ancora nulla perché ci ho paura. Una grande paura. Quella è gente che mena, che ammazza. Magari mi trovano e poi… Ci devo pensare bene prima di rimetterci. Io mi levo un peso dallo stomaco, ma ci rimetto. Rischio. Da lei mi sono deciso a venire quando ho letto sul giornale di questa faccenda. M’è sembrato che il mio fosse un episodio importante. E se c’entrasse la politica? Lei scriva pure le cose che ho detto. Io le giuro che sono vere. Lo giuro sull’anima mia.»
Il Pelosi discende si tende, dunque, questo tipo di agguato. Esso richiede un
appuntamento con Pasolini, è vero, ma i suoi amici più intimi come
Ninetto Davoli ammettono che di solito Pasolini non improvvisava le
sue avventure.
«Prendeva l’appuntamento anche con due o tre giorni di anticipo. Infatti, di solito, me lo diceva. Era raro che l’avventura la decidesse lì per lì. Perché era prudente.»
Però, se è vero che Pelosi
conosceva già Pasolini, tutto diventa semplice. Supponiamo che
l’appuntamento esistesse già, anche se Ninetto non lo sapeva. Pasolini
arriva puntuale, la sua cena con Ninetto e la moglie di lui è durata soltanto fino alle dieci e mezzo. Carica prima un ragazzo che per
qualche ragione non va o che è il protettore dei prostituti, torna
indietro, lo fa scendere e costui chiama Pelosi. Si avvicina Pelosi,
«Ciao, sei Pasolini?», e sale sulla GT. Si allontanano discutendo dove
andranno. Pelosi vuol essere certo di dare l’indirizzo giusto, perché gli
altri lo seguano come stabilito. Dopo un poco la GT riappare. Pelosi
scende con una scusa: deve riprendere le chiavi di casa che aveva
lasciato agli amici. Bugia di un bugiardo irrimediabilmente e sempre
bugiardo: le chiavi di casa le prende ma allo stesso tempo consegna
quelle di una 850. La sua. Il ragazzo terrorizzato che s’è confidato col
nostro collaboratore Mauro Volterra non ha fatto forse capire che la
Mini Morris non era una Mini Morris? Cos’era dunque? La 850 di
Pelosi? Durante questo scambio di chiavi Pelosi dice anche dove
andranno: prima al ristorante Biondo Tevere e poi all’Idroscalo.
Quindi torna alla GT di Pasolini e di nuovo i due partono: seguiti da
un’automobile che potrebbe essere la 850 e da una motocicletta. A
bordo dell’auto e della motocicletta, i teppisti scelti per il pestaggio.
Un pestaggio mortale anche nelle intenzioni? Vicino al ristorante si
appostano. Oppure hanno un appuntamento con Pasolini cui non
sempre piace disporre di un prostituto soltanto? Durante l’attesa
quelli dell’automobile cambiano idea. Forse tra loro c’è il ragazzo
terrorizzato che dice: «Io so’ riuscito a uscinne». A seguire Pasolini e
Pelosi, o a incontrarsi con loro, sono soltanto i tipi della motocicletta.
E, all’Idroscalo, la tragedia si compie più o meno come racconta il
testimone-che-tace. Insomma, più o meno secondo la versione che io
offrii sull’«Europeo» la scorsa settimana. Sottolineo il «più o meno»
perché niente ci prova per ora che l’alterco ebbe inizio in una
baracca. Con molte probabilità esplose subito fuori. Ma il resto del
racconto convince: «Pasolini riuscì a raggiungere l’automobile e si
apprestava a salirci quando i due giovanotti della motocicletta lo
agguantarono e lo tirarono fuori. Pasolini si divincolò e riprese a
fuggire. Ma i tre gli furono di nuovo addosso e continuarono a
colpirlo. Stavolta con le tavolette di legno e con le catene». C’erano
queste catene? Io non lo so, però c’erano due tavolette e un bastone.
Le due tavolette eran quelle dove c’è scritto «Buttinelli A.» e «ViaIdroscalo 93». Ma insomma! C’è bisogno d’essere Newton o Sherlock
Holmes per capire che quando uno picchia da solo non adopera tre
oggetti?!? Ma quante mani ha? Tante quante la dea Kali? Oppure
adopra prima il bastone, poi una tavoletta, poi un’altra tavoletta,
perdendo tempo a cambiare, mentre Pasolini si difende? Ragioniamo
col cervello o con i piedi? Neanche sul piano della logica vogliamo
prendere in considerazione il racconto del testimone-che-tace? La
polizia risponde: «Non poteva vedere perché non c’era la luna». Non
poteva neanche udire tre voci diverse che gridavano, perché non c’era
la luna? No, senza luna diventiamo ciechi e sordi in Italia. Non
udiamo più nulla e non vediamo più nulla, neanche a cinquanta
metri, a trenta, neanche se da qualche parte giunge un chiarore, per
esempio dai capannoni oltre la strada asfaltata, neanche se la scena
avviene (mettiamo) intorno a una certa GT coi fari accesi. Siamo un
popolo senza virtù, un popolo che sa tenere il becco chiuso e che
adora l’anonimato, ma siamo un popolo così romantico. Facciamo
dipendere tutto dalla luna, e guai se non c’è.
Il resto è più o meno la ripetizione di ciò che avvenne se fu un
agguato a scopo di rapina e non di pestaggio. Col particolare
dell’anello eccetera. E se quell’anello a Pelosi lo avesse regalato
qualcuno, ad esempio qualcuno che è implicato nella lurida storia? E
se Pelosi se lo fosse sfilato e lo avesse lasciato cadere per vendicarsi
d’esser stato messo in un pasticcio che (s’era raccomandato) doveva
limitarsi a un po’ di botte e basta? Forse è il caso di pensarci e forse
no. Ben consigliata, o mal consigliata, la famiglia di Pelosi ci informa
ora che «Pino aveva un attaccamento feticistico per il suo anello».
Feticistico? Che parole difficili può imparare la povera gente
ignorante grazie alla legge. E comunque dubito che avremo le risposte
invocate. Troppo tempo s’è perso, troppe occasioni. Se pensi che la
polizia non si curò nemmeno di recintare il luogo del delitto e
impedire alla folla di cancellare le tracce. Ad esempio, le tracce di
una motocicletta. Se pensi che alcuni giovanotti giocavano a pallone
lì intorno e il pallone finiva ogni tanto sul cadavere di Pasolini. Se
pensi che il cadavere venne lavato prima di completare gli esami
della scientifica. Si voleva lavare anche la nostra coscienza? Oddio, ma per quello non basterebbero le cascate del Niagara. Arida e sporca
come il cuore di chi non parla, essa non sa affrontare nemmeno un
granello di verità. E quando qualcuno per caso lo offre, osservando i
diritti e i doveri di un cittadino e di un giornalista, subito s’alza un
gran vento. E spazza via quel granello, in un turbinare di sabbia.
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