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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

domenica 7 marzo 2021

Pasolini compie novant’anni di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti - Le verità negate

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 
 

Pasolini compie novant’anni
di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti
Le verità negate
 
  
Indice:

 
«Chi tocca il Principe avrà del piombo; chi non lo tocca avrà dell’oro», scrive Steimetz: piombo tipografico o di un qualche calibro? Un ragazzo di 17 anni, Pino Pelosi, si è autoaccusato dell’omicidio di Pasolini. Il 26 aprile 1976 il Tribunale di Roma lo ha condannato alla pena di nove anni, sette mesi e dieci giorni di carcerazione, oltre a una multa di 30.000 lire per atti osceni. Il 7 maggio 2005 Pelosi ha ammesso che quel giorno non era solo, che altri avevano partecipato al pestaggio: «Erano in tre, sbucarono dal buio. Mi dissero tu fatti i cazzi tuoi e iniziò il massacro. Io gridavo, lui gridava… Avranno avuto 45, 46 anni, gli gridavano “sporco comunista”, “arruso”, “fetuso”». Insomma, fu un agguato e forse Pelosi era solo un’esca.

Pasolini, stando alla seconda versione di Pelosi, viene massacrato da «tre siciliani»; nel frattempo altri provvedono a sottrarre daPetrolio il capitolo Lampi sull’Eni, «che dall’omicidio ipotizzato di Mattei guida al regime di Eugenio Cefis, ai “fondi neri”, alle stragi dal 1969 al 1980 e, ora sappiamo, fino a Tangentopoli,

all’Enimont, alla madre di tutte le tangenti» D’Elia, Il Petrolio delle stragi, p. 98).
Il cugino di Pasolini Guido Mazzon: «Mia cugina Graziella [Chiarcossi, erede del poeta] mi telefonò due volte: il giorno del delitto – “I fascisti hanno ucciso Pier Paolo” – e qualche tempo dopo, un mese, non ricordo bene. Mi ricordo bene quello che mi disse: “sono venuti i ladri in casa, hanno rubato della roba, gioielli e carte di Pier Paolo”» (testimonianza raccolta da D’Elia e Giovannetti il 24 ottobre 2005, a Pavia). Mazzon ha poi ripetuto la sua testimonianza a Paolo Di Stefano (sul “Corriere della Sera”, 4 marzo 2010): «Nel ’75, dopo la tragedia di Pier Paolo, Graziella chiamò mia madre per dirle di quel furto. Quando mia madre me lo riferì, pensai: “Accidenti, con quel che è capitato ci mancava pure questa”. E pensai anche: “Strano però, che senso ha andare a trafugare le carte di un poeta?”. Il mio stato d’animo sul momento fu proprio quello. Avevo 29 anni e ricordo bene la sensazione che ebbi. Poi il particolare del furto mi tornò alla mente leggendo Petrolio e venendo a sapere della parti scomparse» Perché l’imbarazzo? «Perché non riesco a capire come mai mia cugina continui a negare quel fatto. Dopo l’annuncio del ritrovamento, l’ho cercata al telefono, ma senza successo: vorrei chiarire, cercare di ricomporre il ricordo. Mia madre è morta due anni fa e non posso più chiederle conferma, ma quella comunicazione telefonica ci fu e si verificò dopo la morte di Pier Paolo, non potrei dire esattamente quanti giorni dopo». Ancora Mazzon a Matteo Sacchi (“il Giornale”, 4 marzo 2010): «Io ricordo bene che dopo la morte di Pasolini mia madre ricevette una telefonata proprio da Graziella Chiarcossi che le comunicava che c’era stato un furto. Avevano portato via delle carte e dei gioielli. Mia madre era molto turbata. All’epoca non pensammo affatto aPetrolio. Ma col senno di poi e con queste rivelazioni, tutto potrebbe assumere un senso».

Chi sono i veri assassini? Quali i mandanti? Domande in sospeso su cui insiste Gianni D’Elia nel suo prezioso libro-inchiesta Il Petrolio delle stragi, ripreso nel 2009 da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in Profondo nero (lo stesso titolo di uno dei capitoli del libro di D’Elia, che i due autori correttamente indicano tra le principali fonti d’ispirazione del loro lavoro). Assieme al dossier di Carlo Lucarelli e Gianni Borgna uscito su “Micromega” n. 6/2005, alle tante firme italiane e internazionali raccolte dalla rivista “Il primo amore” per la riapertura del processo e al presunto ritrovamento di una parte del capitolo mancante Lampi sull’Eni, ha portato ad una nuova più approfondita indagine sulla morte del grande regista e poeta friulano.

«L’ho letto, è inquietante, parla di temi e problemi dell’Eni, parla di Cefis, di Mattei e si lega alla storia del nostro Paese». Così parlò Marcello Dell’Utri il 2 marzo 2010, annunciando che di Lampi sull’Eni – il capitolo mancante di Petrolio, il mutilato romanzo di Pier Paolo Pasolini – proprio di quelle pagine proprio lui, beffardamente era entrato in possesso. Una notizia clamorosa due volte: perché l’amico dello stalliere di Arcore stava dando (inconsapevolmente?) una “notizia di reato” e perché nonostante Dell’Utri ci saremmo trovati di fronte a pagine di rilevante interesse sia storico che letterario.
Presto Dell’Utri si corregge: «in realtà non l’ho letto… me ne hanno riferito un sunto… sembra che in quelle pagine Pasolini parli… parli dell’Eni… di Cefis… di Mattei…». E a Paolo Di Stefano (“Corriere della Sera”, 12 marzo 2010): Ma lei li ha visti? «Li ho avuti tra le mani per qualche minuto, sperando di poterli leggere con calma dopo». Che fisionomia avevano? «Una settantina di veline dattiloscritte con qualche appunto a mano». Poi si preciserà che sono esattamente 78 «di un totale di circa duecento». Potrebbe essere il famoso capitolo mancante, intitolato Lampi sull’Eni? Risposta: «Più esattamente Lampi su Eni».

Alessandro Noceti (collaboratore di Dell’Utri) su “il Giornale” del 4 marzo 2010 dice che quelle pagine «erano all’interno di una cassa. La cassa apparteneva ad un Istituto che ne è anche proprietario». A quanto sembra, le veline sparite sarebbero in mano a un antiquario – un intermediario – che le avrebbe offerte al sodale di Berlusconi, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’ottobre 1974 Pasolini dichiara di essere arrivato a 600 pagine (un mese prima erano 337), mentre al filologo Aurelio Roncaglia la cugina Graziella Chiarcossi ne consegna 522: 492 pagine dattiloscritte, le altre a mano, «senza contare – osserva D’Elia – che in pochi mesi ne aveva scritte circa 200». Il 27 marzo 2009 l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini hanno depositato alla Procura di Roma un’istanza di riapertura delle indagini sulla morte di Pasolini. Quasi quarant’anni dopo. Quarant’anni di verità negate agli italiani, in un Paese esposto alle pulsioni mafiose del Potere. È la pasoliniana «mutazione antropologica della classe dominante», che ritroviamo nel linguaggio narcotizzante della televisione, (la grande scommessa P2 persa da Cefis, vinta da Berlusconi), nelle parole vuote – menzognere e terroristiche – della pseudopolitica e nell’immutata logica del Potere, che ha portato al mondo in cui viviamo adesso.
Gli italiani sono oggi relegati nella cattiva società dei ceti immobili; del finto sviluppo senza vero progresso; delle diseguaglianze senza ascensore sociale «in un Paese orribilmente sporco» e privo di mobilità.

Il Paese della corruzione, delle tangenti, dei favoritismi e dello spreco del pubblico denaro; un Paese tenuto in scacco – oggi come allora – dall’invasiva e colonizzante contaminazione delle mafie, che approfittando del vuoto si fanno Stato, in Lombardia come in Sicilia, in Emilia come in Calabria. Nella politica, nell’economia, e nella finanza e nella società la contaminazione destruttura e corrode nonostante la retorica del consenso strausata da chi, coltiva l’interesse particolare, ignorando la globalizzazione degli uomini e le svolte epocali annunciate dall’arrivo dei nuovi migranti; e assecondando irresponsabilmente gli umori forcaioli della piazza. Quella piazza che in un’allucinante circolarità loro stessi sobillano, alterando tragicamente l’etica pubblica, al punto da elevare a cultura prevalente il nuovo fascismo e con tutto il suo portato di razzismo e xenofobia che, senza ostacoli o freni inibitori, si riversa dalla politica populista al senso commune. L’Italia sembra così il terreno di coltura per un nuovo sovversivo «regime reazionario di massa» (la formula era di Palmiro Togliatti, A proposito di fascismo, 1928). È del resto in corso un forte impoverimento del ceto medio – a livello europeo – che può avere come esito una qualche nuova forma di fascismo. «Che cos’è, infatti, il globalismo (e l’aggettivo “globale” ricorre in Petrolio) se non la forma più avanzata del “cristiano” vecchio colonialismo?», si domanda D’Elia: «Un colonialismo delle merci e dei capitali sulla vita degli umani, con altissima velocità dello Sviluppo e della Miseria, di cui il petrolio è l’essenza, la marxiana benzina del valore di scambio» (Il Petrolio delle stragi, p. 27).

Ma l’effetto più visibile di questa contaminazione pervasiva, è il crescere della cattiveria: «Il tasso di cattiveria sta crescendo sempre più Le macchine economiche, mediatiche, sportive e di altro tipo funzionano facendo venire fuori il peggio dalle persone e dal paese. Ovunque esasperazione, invidia, risentimento, livore, paura. L’Italia di questi anni è la fabbrica della cattiveria» (“Il primo amore” n. 6/2008).

La cattiveria è una rendita economica, e lo sanno bene i Governi che negli ultimi vent’anni hanno sostenuto l’ascesa del loro Prodotto interno lordo con le spese militari e con l’indebitamento di milioni di famiglie, attratte dal miraggio della new economy – la truffa del secolo – mentre intanto i profitti migravano dall’industria verso il sistema finanziario e si drenava il denaro dei piccoli risparmiatori, indotti a indebitarsi dall’offerta vantaggiosa di finanziamenti da parte del sistema creditizio, come nella truffaldina deriva di mutui Subprime sulle case.

La cattiveria è soprattutto una rendita politica, e lo sa bene la Lega nord che «raccoglie le paure degli uomini spaventati e le moltiplica. Capta la xenofobia e la riproduce». È la Lega dei localismi «che intercetta lo spaesamento prodotto dalla globalizzazione. Intercetta il distacco dallo Stato, dalle istituzioni, dalla Ue. E lo amplifica» (Ilvo Diamanti, “la Repubblica”, 13 dicembre 2009).
Sulla cattiveria si stanno costruendo rendite elettorali e fortune politiche e antipolitiche e lo sa bene il sistema dei partiti, di destra e di sinistra, sempre più attratti dalle semplificazioni del populismo e della demagogia, scorciatoie che ignorano la realtà.

Che la cattiveria sia una rendita economica, finanziaria, politica e persino sociale lo sanno bene i furbetti e le mafie. Infatti larga parte dell’economia italiana è sommersa o in mano a chi, dismesse coppola e lupara, oggi opera in Borsa: il sommerso e le mafie, sommati, fanno un fiume di denaro – circa il 40 per cento del Pil – che preme sull’economia legale e condiziona il libero mercato. Le mafie fatturano 175 miliardi di euro – l’11,1 per cento del Pil – che è frutto di attività criminali e che viene reinvestito nell’edilizia e nelle attività commerciali, o in operazioni finanziarie attraverso banche compiacenti. Nelle sole regioni del Nord, oltre 8.000 negozi sono gestiti direttamente dalle mafie inabissate dei colletti bianchi. In Italia, 180mila esercizi commerciali sono sottoposti all’usura, con tassi di interesse in media del 270 per cento: un movimento di denaro di 12,6 miliardi che va ad aggiungersi al ricavato delle estorsioni (circa 250 milioni di euro), della droga (59 miliardi di euro), delle armi (5,8 miliardi), della contraffazione (6,3 miliardi), dei rifiuti (16 miliardi), dell’edilizia pubblica e privata (6,5 miliardi) delle sale gioco e scommesse (2,4 miliardi), della compravendita di immobili, della ristorazione, dei locali notturni, ecc. Uomini cerniera mantengono i collegamenti con il mondo dell’economia, della politica e della finanza. Le mafie condizionano l’intera filiera agroalimentare (7,5 miliardi) interagendo con segmenti della grande distribuzione.
Le mafie delocalizzano, diversificano gli investimenti, hanno molta liquidità, non pagano le tasse, non hanno bisogno di indebitarsi con le banche e pagano cash. Le Procure hanno invece le armi spuntate, perché la legge sul riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati ai mafiosi può essere facilmente aggirata (ad esempio, intestando le proprietà a compiaciuti prestanome), mentre strumenti che potrebbero rivelarsi incisivi, come l’anagrafe dei conti correnti bancari, è disattesa da vent’anni. Senza alcun clamore, per il triennio 2009-2011 il Governo Berlusconi prevede una riduzione dell’organico delle forze di Polizia di almeno 40.000 operatori e tagli di spesa per più di 3 miliardi di euro. Il Governo conferma la riduzione del 50 per cento delle indennità per i servizi in strada e per il controllo del territorio, nonché la riduzione del 40 per cento della retribuzione accessoria per malattia o infortuni sul lavoro.

La cattiveria a volte è un crimine. Ed è criminale lasciare morire esseri umani (come è ormai norma al largo di Lampedusa), criminale uccidere persone che spesso stanno fuggendo da altre guerre. La cattiveria a volte nemmeno la si vede. Ad esempio, quella nascosta dietro le “morti bianche” sul lavoro, una vera emergenza.
La cattiveria di chi usa le malattie, le povertà e il disagio per traghettare pubblico denaro verso privatissime strutture d’area.
La cattiveria delle false bonifiche – quelle a danno della salute dei cittadini – e dei veri bonifici sui conti cifrati esteri di persone già ricche eppure ostinatamente venali.
La cattiveria dei cementificatori, degli asfaltatori e di chi non smette di speculare sul consumo di territorio vergine, che è un bene non riproducibile.
La cattiveria di chi vuole trasformare l’acqua in una merce su cui lucrare, con rincari fino a cinque volte il prezzo attuale.
La cattiveria dei «cattolici senza fede», leghisti digiuni dei Vangeliche esibiscono una croce senza più Cristo né carità. È la Lega dei cattolici senza fede «sorta nel vuoto prodotto dall’eclissi del sacro e dalla secolarizzazione. Propone una nuova religione. Naturalmente secolarizzata. Senza Dio e senza chiesa. Sovente, contro la Chiesa» (Diamanti).


Tutto questo e molto altro ancora è cattiveria, ma al peggio non c’è mai fine. I cambiamenti climatici, l’inquinamento delle acque e la biodiversità in declino sono di gran lunga più cattivi e devastanti della crisi finanziaria, al punto da minare il futuro stesso della specie umana, che negli ultimi cinquant’anni è raddoppiata. Nello stesso tempo, un terzo delle specie selvatiche o si sono estinte o sono state decimate dal nostro espansionismo.
Scrive Gianni D’Elia: «le parti di Petrolio che non si trovano più davano forse molto fastidio al Nuovo Potere, che si andava consolidando. Forse avrebbero fatto lo stesso botto di Mani pulite, contro la Tangentopoli stragista di quella stagione, invece sepolta nella rimozione che siamo diventati, pasolinianamente, “a mutazione criminale avvenuta”». (Il Petrolio delle stragi, p. 30)
E allora leggiamo Questo è Cefis, e rileggiamo anche Petrolio, che al libro di Steimetz deve molto. Ripercorriamo «il viaggio dantesco dentro i “gironi” della notte repubblicana, della sua “mutazione antropologica” e politica infernale».

Fonte:
 
 

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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