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venerdì 12 settembre 2025

Pier Paolo Pasolini, Autori « di destra » - Tempo, 18 ottobre 1974

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini
Autori « di destra »

Tempo

18 ottobre 1974

(Oggi in Descrizioni di descrizioni, a cura di Graziella Chiarcossi)


Per approfondire:

Leggere, informarsi, imparare significa dover tenere rapporti anche con scrittori «di destra». Anzi, se pensiamo quanti sono i libri dovuti ad autori « di destra » che leggiamo, non possiamo non restare stupiti e forse anche un po' sconcertati. L’abitudine ci salva dal pensare questo: ciò non toglie che è chiaro che dobbiamo fare, più spesso di quanto crediamo, i conti coi nostri avversari: che si rivelano, in realtà, avversari «manipolati»: se il loro lavoro ci è tecnicamente utile, e spesso non possiamo prescinderne. Altre volte poi il loro fascino è più grande della loro ideologia. E allora è chiaro che anche la loro ideologia ci affascina in loro.

In questi giorni mi si sono ammucchiati sul tavolo, tutti insieme, molti libri di autori «di destra»: è, casualmente, il loro numero che mi ha dato coscienza di quanto noi abbiamo, di intimo, in comune con essi. Non ricorrerò a Lukacs: lascerò questa osservazione al suo stato diaristico, morale: da «Zibaldone» (per anticipare).

martedì 8 luglio 2025

Pier Paolo Pasolini, La Storia di Elsa Morante - Tempo, 26 luglio 1974 / 2 agosto 1974

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Pier Paolo Pasolini
La Storia di Elsa Morante

Tempo

26 luglio 1974

2 agosto 1974

Tempo, numero 31, del 2 agosto 1974


   L’ultimo romanzo di Elsa Morante è un poderoso volume di 661 pagine, e il suo «soggetto» è proprio quello che dice il titolo, cioè la Storia. E' difficile concepire un progetto più ambizioso di questo : ma si tratta di un’ambizione evidentemente giustificata, se la sola ambizione ingiustificata è quella di scrivere opere limitate e perfette. Illimitatezza e imperfezione sono caratteri della necessità. Illimitato il romanzo della Morante lo è, perché esso indubbiamente trasborda oltre il confine delle 661 pagine, verso immensità di temi, motivi e superfici non verbali. Imperfetto anche lo è. La Morante avrebbe forse dovuto lavorarci ancora un anno o due. Infatti non c’è dubbio che il grosso libro si divide almeno in tre libri magmaticamente fusi tra loro: il primo di questi libri è bellissimo - è straordinariamente bello - basti dire che mi è capitato di leggerlo nel bel mezzo di una rilettura de I fratelli Karamàzov e che reggeva mirabilmente il confronto! Il secondo libro invece è completamente mancato, non è altro che un ammasso di informazioni sovrapposte disordinatamente, quasi, si direbbe, senza pensarci sopra; il terzo libro è bello, benché molto discontinuo e con molte ricadute nella confusione un po’ presuntuosa del libro di mezzo.

martedì 14 novembre 2023

Pier Paolo Pasolini - Una sconfinata ammirazione per "Delitto e castigo" - Tempo" 4 gennaio 1974

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Una sconfinata ammirazione per "Delitto e castigo"
"Tempo" 4 gennaio 1974
Biblioteca nazionale centrale - Roma

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)





Un giovane uomo di ventitré anni - un bel ragazzo anche se così pallido e magro – è “traumatizzato” dall’amore della madre (e per ampliazione, della sorella). La situazione è, per noi, classica: si tratta di una passione infantile edipica. Egli è rimasto impietrito da quell’amore con tanta violenza provato e ricambiato, quasi come in una prova di laboratorio. Infatti le conseguenze sono quelle ben note: la sessuofobia, la freddezza sessuale e il sadismo. Egli sembra innamorarsi di una ragazza bruna, infelice, intelligente e malata. Che muore presto di tifo (si direbbe, come egli ha voluto). In questo amore non trova posto la sensualità. Egli prova altre attrazioni – che non divengono però mai sessuali – per due altre ragazze giovanissime: una adolescente ubriaca o drogata che se ne va per la strada (ed egli la protegge da un “pappagallo”, chiedendo l’aiuto – il che è sintomatico – di un poliziotto) e poi, per un attimo, verso un’altra giovinetta mendicante (che perciò fa pena: e la pena è umiliante, può essere umiliante fino al sadismo). A questa situazione sessuale inconscia (il rapporto edipico con la madre, esteso alla sorella) si aggiungono altri elementi “oggettivi” e in gran parte consci. Il nostro ragazzo, infatti, orfano di padre, studia nella capitale: è mantenuto agli studi per mezzo della misera pensione di sua madre, e sua sorella è costretta a impiegarsi come istitutrice. Ciò ha creato degli obblighi al ragazzo verso la famiglia. Terribili obblighi di gratitudine e di amore, che vengono ad aggiungersi, appunto, alla violenza amorosa infantile e alla inconsapevole repressione della madre su di lui. Una madre buona, sì, buona, anzi angelica; borghese, ma dotata di tutte le qualità migliori della borghesia provinciale: di quello speciale idealismo, cioè, che non può fare del proprio figlio che un essere adorato e unico.

Il nostro eroe è guidato dal suo inconscio, e si appresta, come in un incubo kafkiano, a giocare il ruolo che gli è assegnato; ad esso non può sottrarsi, come un automa, ma puoò, su esso, creare tuttavia delle giustificazioni pretestuose, dei (aberranti, come vedremo) fondamenti moralistici e teorici. Un giorno gli “viene un’idea” – proprio come se gli venisse dal di fuori, dall’alto – ed egli come in un incubo, appunto, si chiede come mai gli sia venuta una simile idea “non sua”: non può sapere infatti che gli viene dal basso. E così si appresta a elaborarla, a impossessarsene (attraverso la teorizzazione). 

Perchè l'assassino ha lasciato la porta aperta

Tale idea è di uccidere una vecchia usuraia, a cui ha dato in pegno degli oggetti (di famiglia). Resiste a lungo a tale “invito”, ma alla fine, dopo un lungo cerimoniale, cede. Egli ammazza così la madre. La madre che lo ossessiona con gli obblighi, che gli crea degli impegni, che lo umilia con la sua ansiosa comprensione, che lo mette di fronte alla propria impotenza: e che comunque, ancora prima, aveva suscitato in lui un amore che, per essere orrendamente colpevole, si era – come vuole il meccanismo – trasformato in odio. Ma non avevamo detto che alla figura della madre egli aveva annesso anche la figura della sorella? Sì, e infatti ecco che, appena uccisa la vecchia usuraia, entra in casa la buona e mite sorella di questa. La porta era stata lasciata aperta (quasi apposta, perché lei potesse entrare). Inoltre, il nostro assassino sapeva che egli avrebbe potuto uccidere la usuraia fra le sette e le sette e mezza circa, appunto perché la sorella era fuori. Egli giunge invece sui luogo dell’assassinio in ritardo (per colpa – siamo sempre alla diagnosi da manuale! – di un assopimento protrattosi più a lungo del previsto). Egli insomma è andato in casa dell’usuraia in ritardo apposta per dar tempo alla sorda di ritornare. E così ammazza anche lei. Non solo dunque egli sopprime nelle due vecchie, la propria madre e la propria sorella, ma sopprime in esse quella «realtà doppia» che l’amore per la donna è per lui: da una parte la realtà repressiva, feroce, angosciosa (l’usuraia) e dall’altra la realtà tenera, affettuosa, mite (la sorella dell’usuraia). 

Nella sua teoria – di carattere nietzschiano – il nostro ragazzo considera il delitto un “delitto gratuito”, fatto per dimostrare a se stesso, da una parte, di essere un uomo superiore (che non esita a delinquere pur di raggiungere il proprio scopo: arricchire per studiare, diventare uno scienziato, un filosofo, un benefattore dell’umanità), dall’altra, di essere addirittura un “superuomo”, al di là di ogni valore morale istituito. Insomma egli ondeggia fra il cinismo della Realpolitik e la grandezza dell’azione pura. In tutti i casi è chiaro che siamo ancora nel laboratorio: egli ha infatti bisogno semplicemente di superare il proprio “complesso di inferiorità” derivante da tutte le circostanze che abbiamo visto. 

Sennonché – com’era fatale – dopo la sua spaventosa impresa, egli sarà costretto a parlare di “fallimento”: e si ritroverà di fronte alla propria “inferiorità” (che però a lui si manifesta solo come incapacità a nascondere le tracce del delitto, e soprattutto, come incapacità a resistere agli impulsi della morale comune che richiede il rimorso e la confessione della colpa). 

In realtà il “fallimento” consiste in qualcos’altro. Consiste nel fatto che la liberazione dalla propria madre attraverso l’assassinio dell’usuraia “doppia” (buona e cattiva), è una liberazione simbolica. Nella realtà, eccola, la madre (con la sorella) che arriva in treno dalla profonda provincia. È una vera e propria resurrezione, la riapparizione di un fantasma. Il delitto è stato davvero “inutile”! La madre e la sorella portano innocenti con sé, non solo tutto l’orrendo fardello di amore infantile, ma, per di più, tutte le esigenze e gli obblighi di una vita da vivere, coi suoi problemi pratici e il suo spietato idealismo da non tradire.La sorte del nostro assassino è dunque ancora interamente da decidere e da vivere. Tutto è da ricominciare da capo. Ma, ormai, il nostro eroe non può più farlo. La sua è ormai una vita che scorre per inerzia, ed egli percorre dunque tutte le tappe obbligate che usa percorrere – quasi secondo delle perfette norme fissate una volta per sempre – un colpevole che finirà per costituirsi, confessare ed espiare. Ormai, quelle che contano sono le vite degli altri, che si sviluppano intorno alla sua. 

Una sfida moralistica al mondo

Durante la sua via crucis (non evangelica, perché egli, naturalmente, è ostacolato continuamente e fino in fondo dall’interpretazione “conscia” che egli dà ai fatti: la sua sfida moralistica al mondo e il suo fallito tentativo d’essere un uomo superiore) egli tuttavia su una vita, più che sulle altre, continua a influire, prima di diventare un “morto civile”. Si tratta della vita di una ragazza – un’adolescente come quelle intraviste e “rimosse” per la strada – in tutto e per tutto simile alla sorella dell’usuraia, e quindi alla madre “buona, mite, idealistica”. L’identificazione di questa ragazza con la sorella dell’usuraia e con la madre dell’infanzia è perfetta: anche letteralmente. Il sentimento del nostro eroe verso questa ragazza dovrebbe essere d’amore (e infatti lo è): ma si tratta di un amore privo di un elemento essenziale, cioè il sesso. Il quale si manifesta (ancora e irrimediabilmente!) attraverso il sadismo. Il giovane infatti confessa a lei, per sadismo, la propria colpa: e continua del resto a tormentarla in tutti i modi. Essa oltre tutto è costretta dalla miseria, benché quasi una bambina, a fare la puttana. E ciò scatena ancor più la sessuofobia e il puritanesimo del nostro eroe che ignora perfettamente di avere un sesso. Naturalmente. non appena egli si accorge di provare un sentimento di amore verso di lei, lo sente subito come odio. E per contro, l’amore ingenuo, immenso e incondizionato di lei per lui, ricomincia & oreal-gli quel sentimento quasi cosmico di insopportazione che gli aveva creato l'amore della madre. È inutile dire che egli, seviziando questa ragazzina. sevizie se stesso. Come già. ammazzando le due vecchie donne. aveva infierito su se stesso.

   Anche questo è da manuale. Non per niente poco prima di spaccare con la scure la povera, indifesa, tenera nuca della malvagia vecchia (la madre, invecchiando, diviene infantile), il nostro eroe aveva fatto un orribile sogno: dei giovinastri, nella sua cittadina di provincia, per dove egli camminava tenendo per mano il padre (!) ammazzano, seviziandola in modo atroce, una povera, magra cavallina (che egli alla fine, quando sarà finalmente morta, andrà a baciare disperatamente nel muso): ma il fatto rilevante è che, benché si tratti di una “cavallina”, egli, parlandone col padre e con gli astanti, appunto perché infante, la chiama “cavallino”. Dunque chi è stato torturato, seviziato, massacrato, ucciso: una cavallina o un cavallino?

   Dopo la confessione del suo delitto e la sua condanna ai lavori forzati, il nostro eroe è seguito, come da una cagna fedele, dalla puttana che egli non ammette di amare, oppure manifesta il suo amore verso di lei attraverso la crudeltà. Niente di nuovo è successo nel profondo della sua personalità. Egli è rimasto la stessa creatura cristallizzata, mostruosa, automatica – e, nel tempo stesso, il ragazzo buono e intelligente – che era prima del delitto. Niente si è sciolto in lui. I suoi compagni di pena odiano in lui questa fedeltà inderogabile al proprio essere, questo ascetismo della diversità ignota a se stessa. Finché la madre vera muore; muore di innocente dolore, tra deliri di bontà materna, che pur intuendo la verità non vuol ammetterla, ecc., ecc. Tale morte in principio non significa nulla. È una morte anagrafica. Eppure essa era indispensabile perché finalmente qualcosa si sciogliesse dentro il suo ostinato figlio. Ciò avviene di colpo e senza nessuna ragione. Assomiglia un po’ a quella che i cristiani chiamano “conversione” o i filosofi Zen “illuminazione”: cioè un mutamento radicale che si verifica in un momento qualunque o addirittura banale. Un dopopranzo, in una pausa di lavoro, sopra uno sterro, davanti a una grande pianura illuminata da un pallido e tiepido sole, dove, lontano, sono accampati dei nomadi, il nostro eroe sente di colpo di amare la ragazza che l’ha seguito: di amarla in modo completo, assoluto, così come non aveva potuto amare la madre da bambino.

   Era tanto semplice! Non solo Dostoevskij ha prefigurato Nietzsche e tutta la cultura nietzschiana, non solo ha prefigurato Kafka, cioè almeno metà della letteratura del Novecento (basta infatti togliere la descrizione del delitto iniziale, e lasciare tutto il resto così com’è: e Delitto e castigo diventa un enorme e convulso Processo) ma addirittura ha prefigurato, precorso, preteso Freud. A meno che egli non sapesse già tutto ciò che Freud avrebbe scoperto.
Questa mia non è che un’umile chiacchierata e un’analisi psicanalitica a braccio; ma potrei però dimostrare, in un saggio documentato, come in Delitto e castigo ci sia un numero impressionante di espressioni “esplicitamente” psicanalitiche. Ciò mi riempie di una sconfinata ammirazione, pari almeno a quella che sento per la impareggiabile “sceneggiatura” del romanzo.

Pier Paolo Pasolini
Una sconfinata ammirazione per "Delitto e castigo" 
Ritaglio di "Tempo" 4 gennaio 1974
Biblioteca nazionale centrale - Roma



Curatore, Bruno Esposito

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Pier Paolo Pasolini - Illusioni storiche e realtà nell’opera di Longhi - Da Cimabue a Morandi - Tempo del 18 gennaio 1974

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Amerigo Bartoli, Ritratto di Roberto Longhi, 1924


Pier Paolo Pasolini

Illusioni storiche e realtà nell’opera di Longhi

pubblicato sulla rivista Tempo
del 18 gennaio 1974
*
Successivamente anche
In Descrizioni di descrizioni.
A cura di Graziella Chiarcossi. 
Prefazione di Giampaolo Dossena, 
Garzanti Editore, Milano 1996
con il titolo
Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi

Tempo, 18 gennaio 1974


Se penso alla piccola aula (con banchi molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui nel 1938-39 (o nel 1939-1940?) ho seguito i corsi bolognesi di Rober­to Longhi, mi sembra di pensare a un'isola deserta, nel cuore di una notte senza più una luce. E anche Longhi che veniva, e parlava su quella cattedra, e poi se ne an­dava, ha l'irrealtà di un'apparizione. Era, infatti, un'apparizione. Non potevo credere che, prima e do­po aver parlato in quell'aula, egli avesse una vita pri­vata, che ne garantisse la normale continuità. Nella mia immensa timidezza di diciassettenne (che dimo­strava almeno tre anni di meno) non osavo nemmeno affrontare un tale problema. Non sapevo nulla di inca­richi, di carriere, di interessi, di trasferimenti, di inse­gnamenti. Ciò che Longhi diceva era carismatico. Non vuoi dire nulla che, per istinto, io fossi incuriosito in lui anche dall'uomo, che era un po' incuriosito di me, e che provassi della simpatia profonda (credo anche un po' ricambiata). Il rapporto era ontologico e nega­to assolutamente a ogni precisazione

domenica 16 luglio 2023

Pier Paolo Pasolini, Perché dicono che il mio Calderón non ha peso politico? - Tempo, 18 novembre 1973, pag. 123

"Le pagine corsare " 

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Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini
Perché dicono che il mio Calderón non ha peso politico? 

Tempo, 
18 novembre 1973 
pag. 123
poi con il titolo Calderón, in Descrizioni di descrizioni .



Interrogato sulla sua opinione intorno alla politicità di un’opera teatrale in versi appena uscita, Adriano Sofri (che, secondo l’offensivo termine convenzionale, è il «leader» di «Lotta Continua») ha dichiarato che «dal punto di vista personale la tragedia lo interessa anche, ma dal punto di vista politico non ha commenti da fare, la sua rilevanza è nulla, non ha peso».

domenica 25 giugno 2023

Pier Paolo Pasolini - Italo Calvino, Le città invisibili - Tempo, 28 gennaio 1973

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini 


Italo Calvino, Le città invisibili

Tempo, 28 gennaio 1973

(Oggi in Descrizioni di descrizioni)


   Sono cresciuto insieme con Italo Calvino, l'ho visto giovanissimo, quasi un ragazzo (credo che abbia uno o due anni meno di me, ma quando sono entrato nel mondo uscendo dal monastero friulano nel 1950, lui era un po' più adulto, e più dentro le cose della società e della letteratura, che ancora per un pezzo mi sarebbero state precluse, quasi che io non le meritassi, per qualche indegnità - o per troppa ingenuità). Abbiamo lavorato insieme, lui a Torino, io a Roma, fin verso ai quaranta anni, cioè fino a che abbiamo raggiunto il centro della vita ( quarantanni è l'età in cui l'uomo è più «illuso», crede di più nei cosiddetti valori del mondo, prende più sul serio il fatto di dovervi partecipare, di dover impossessarsene. Il ventenne, nei confronti del quarantenne, è un mostro di realismo). Il nostro lavoro, in qualche modo si integrava, benché fosse cosi diverso: e ci legava soprattutto l'ottimismo - come un buon sentimento - consistente nella convinzione che il nostro lavoro fosse al «centro» di qualcosa, e che qualcosa ne dovesse risultare. In modo molto ombroso, ci ammiravamo e ci amavamo, senza molti complimenti, troppo presi dall'importanza di ciò che facevamo per consentirci pause disinteressate.

lunedì 28 dicembre 2020

Leonardo Sciascia, Todo modo - Pasolini in Descrizioni di descrizioni

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro






Leonardo Sciascia, Todo modo


Dopo circa cento, centocinquanta settimane in cui regolarmente ho scritto ogni settimana un «pezzo» su un libro, prendo congedo dal mio lettore, per un periodo di sosta. Per alcuni mesi sarò occupato a fare un film. È vero che mentre ero occupato a girare, a montare e a doppiare Il fiore delle mille e una notte, ho continuato puntualmente a scrivere le mie recensioni. Ma ciò si spiega prima di tutto col fatto che avevo da poco tempo iniziato questo lavoro, e c’era dunque in me uno slancio che non poteva brutalmente essere interrotto. Inoltre il film che stavo facendo, anche se terribilmente faticoso e avventuroso, era molto gradevole, e mi lasciava dunque, la sera, quasi sempre, in un’ottima disposizione di spirito. Infine ero lontano dall’Italia, in luoghi dove, appunto, la sera, o nei giorni di festa, leggere e scrivere era l'unica possibile occupazione. Ora invece mi accingo a girare quando è già il terzo anno del mio lavoro di critico militante: e mi accingo a girare un film estremamente sgradevole (De Sade e la Repubblica Sociale mescolati insieme) che certamente la sera mi lascera sfinito e magari nauseato di lavoro; e lo girerò, oltre tutto, nel cuore dell’Italia, tra Salò e Marzabotto: né sere né giorni di festa saranno per me liberi e beatamente vuoti.
Dico tutto questo per giustificarmi, credo, più di fronte a me stesso che ai miei lettori (i quali non saranno poi tanti e così affezionati). Infatti, dopo quel numero sterminato di settimane in cui ogni settimana dovevo scrivere il mio «pezzo», e leggere dunque almeno tre libri, non sono affatto stanco di «militare». La cosa continua ad apparirmi ancora piacevolmente eccitante, benché faticosa, come le prime volte. Ecco perché sento il bisogno di giustificare a me stesso la mia temporanea diserzione.
Questo del «divertimento», è il primo «dato» che trovo voltandomi indietro e ripensando al mio lavoro. Il secondo «dato» è altrettanto piacevole. In circa tre anni mai, nessuno ha cercato di esercitare su me qualche pressione perché io scrivessi di un libro anziché di un altro. Né gli autori, né gli editori, né il direttore del giornale. Era la cosa che più temevo cominciando questo lavoro. Io, di solito, non sono viziato quanto a elogi, non sono il primo della classe. I segni di stima sono taciti, forse impliciti, e certo mai pubblicamente compromettenti... Il migliore di tali segni a cui potessi aspirare era quello di non essere considerato un uomo a cui poter raccomandarsi o con cui stabilire un rapporto meno che assolutamente corretto.
C’è ancora un terzo «dato»: questo né piacevole né spiacevole, né positivo né negativo, ma semplicemente problematico, e si può riassumere in una domanda: che cos’è e com’è fatta la critica? Naturalmente questo è un problema molto vecchio, benché neanche lontanamente risolto. Tuttavia pensavo che facendo io personalmente della critica e per tanto tempo, questo «mistero» mi si sarebbe almeno un po’ e almeno pragmaticamente chiarito. Invece no. Quanto alla critica ne so meno di Blanchot (il suo bellissimo Lautréamont e Sadey per esempio, va letto molto più per i due saggi che per la prefazione in cui l'autore si pone appunto, ancora una volta, il problema della critica: problema superato poi agnosticamente e in concreto, nei saggi).
Ho fatto delle «descrizioni». Ecco tutto quello che so della mia critica in quanto critica. E «descrizioni» di che cosa? Di altre «descrizioni», che altro i libri non sono.
L’antropologia l’insegna: c’è il «drómenon», il fatto, la cosa occorsa, il mito, e il «legómenon», la sua descrizione parlata.
Nella vita accadono dei fatti; i libri li descrivono: : ma in quanto libri sono anch’essi dei fatti: e quindi possono essere anch’essi descritti: dalla critica. Che è «legómenon» quindi, di secondo grado. S’intende che chi descrive, descrive dal suo angolo visuale. Che non vuol sempre rigidamente dire soggettivo: esso è il punto di incontro di una infinità vorticosa di elementi, che in realtà appartengono ad universi distinti (esistenza e cultura, preistoria e storia, professionismo e dilettantismo, fenomenologia e psicologia: e altre simili coppie più o meno antitetiche, all'infinito). È per questo che la «critica» non è definibile, né, quasi, parlabile.
Certo è che se dovessi infine raccogliere questi miei brevi saggi in un volume, non potrei trovare titolo più pertinente che: Descrizioni di descrizioni...
Altra cosa gradevole. È parlando dell’ultimo libro di Sciascia che prendo congedo dal lettore per la mia sosta filmica. Sciascia non ha mai smesso di essere attuale, fin dal suo primo apparire come autore all’inizio degli anni Cinquanta: e generalmente essere attuale vuol dire, in qualche modo, ricattare. Inoltre Sciascia ha sempre anche avuto quello che si chiama successo: e anche il successo è ricattatorio. Invece Sciascia ha saputo con assoluta eleganza evitare in ogni caso l’ambigua implicazione del ricatto. Si è mantenuto sempre purissimo, come un esordiente. Se, fatalmente, egli non ha potuto non raggiungere una certa forma di autorità, tale autorità è soltanto personale: e cioè legata a quel qualcosa di debole e di fragile che è un uomo solo. Si aggiunga a ciò la sua decisione di restare in Sicilia, centro del mondo per lui, ma periferia ed esilio per gli altri.
Questo ha finito per patinare la sua solitudine, corroderla come la salsedine fa di un tronco. Lo straordinario è poi che Sciascia è un moralista: i suoi romanzi sono guidati da un «sentimento» — del resto indefinito e forse non effabile - derivante da un giudizio sul mondo. Ma il moralismo meridionale — il grande ramo in cui quello di Sciascia si innesta — non è, non può essere moralistico, perché non e cristiano; e se è cattolico, lo è nelle forme esteriori, sinistre, funeree, spagnolesche, assimilate in profondità dove si amalgamano con chissà quali substrati (per dirla a braccio). La cultura storica, cioè non quella coatta delle dominazioni — e generalmente depositata in un popolo totalmente estraneo alle classi dirigenti — non conosce la falsa morale cristiana dell’amore (falsa in quanto cattolica, in quanto appartenente al mondo del potere): si fonda piuttosto su una più arcaica morale dell’onore.

Perciò il moralismo meridionale, e quello di Sciascia, quindi, ha un carattere civico, appunto, piuttosto che moralistico. Il «buono», in Sciascia, è chi non accetta una condizione tradizionale fondata sull’ingiustizia, e l’infinità delle sue abitudini: ma non può manifestare la sua «bontà» se non attraverso una forma conoscitiva di carattere pragmatico (facendosi testimone o detective, per esempio: o, infine, giustiziere). Il suo giudizio è dunque il giudizio di un tribunale finalmente giusto: è un giudizio legale. E tale è appunto il giudizio che Sciascia dà sugli uomini.
Egli non si disperde in giustificazioni, in comprensioni, in odii, in rancori, in falsi amori, in perdoni. Egli consulta un codice ideale: e formula la sua condanna, con le eventuali aggravanti o attenuanti. Ciò implica anche una specie di stima per i «cattivi» giudicati.
I «cattivi», cioè, altri non sono che dei «buoni» a cui non è saltata in mente l’idea che il potere è ingiusto, è diabolico: ma ne hanno accettato innocentemente le regole, affermandosi attraverso le occasioni che esso fornisce all'uomo forte. Ci sono tra i «cattivi», naturalmente, anche coloro che, rispetto al potere, sono gerarchicamente inferiori: e costoro sono quindi visti come miserabili, meschini e soprattutto, sia pur oscenamente, ridicoli. C’è cioè una «nuance» moralistica nel dipingerseli nella fantasia. Ma è tutto. In Todo modo, questa concezione quasi dantesca del mondo ritorna a riproporre la sua forma: la piramide del potere, monolitica all’esterno, estremamente complicata, labirintica, mostruosa all’interno. C’è fuori, di fronte a tale piramide, l’uomo «buono» che giudica senza moralismo. Ma in Todo modo c’è una novità: il giudice, quasi casuale — posto cioè di fronte alla piramide per caso, e per caso condotto all’interno di essa, tra i suoi incomprensibili meccanismi - si fa giustiziere. Decide che alcuni dei componenti di quel «club» del potere debbano morire, a scadenze regolari, da romanzo giallo. La citazione finale di Gide fa supporre a Enzo Siciliano, che il protagonista «giudice» sia anche l’autore materiale dei delitti (che in tal caso non sarebbero gratuiti). È probabile. Certo è che quei «mafiosi» muoiono per volontà dell’autore. Ma non gratuitamente; bensì perché condannati a morte a causa della criminalità con la quale essi detengono e gestiscono il potere. O forse in quanto il potere è di per se stesso un crimine.

Questo romanzo giallo metafisico di Sciascia (scritto tra l’altro magistralmente, come diranno Ì futuri critici letterari ad usum Delphini, perché Todo modo è destinato a entrare nella storia letteraria del Novecento come uno dei migliori libri di Sciascia) è anche, credo, una sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso, con un'aggiunta finale di cosmopolitismo tecnocratico (vissuta però solo dal capo, non dalla turpe greggia alla greppia). Si tratta di una metafora profondamente misteriosa, come ricostituita in un universo che elabora fino alla follia i dati della realtà. I tre delitti sono le stragi di Stato, ma ridotte a immobile simbolo. I meccanismi che spingono ad esse sono a priori preclusi a ogni possibile indagine, restano sepolti nell’impenetrabilità della cosca, e soprattutto nella sua ritualità.


P.P.P., Tempo 24 gennaio 1975





Curatore, Bruno Esposito

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domenica 13 dicembre 2020

Federico Fellini e Tonino Guerra, Amarcord - Pasolini in Descrizioni di descrizioni

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro






Federico Fellini e Tonino Guerra, Amarcord
Tratto da Descrizioni di descrizioni


  Tonino Guerra ha messo per iscritto una storia inventata ed elaborata con Fellini su comuni ricordi d’infanzia e di giovinezza. Assumendosi la parte dell’estensore del testo, Guerra ha deciso subito onestamente di non venir meno alla tradizione dello «script», cioè di non fingere che il lettore di tale testo sia quello che si suppone essere il lettore di letteratura: e di accettare invece come lettore un uomo più semplice e quasi illetterato: quello che andrà a vedere il film. Da ciò nasce quel curioso soggetto narrante tipico degli «scripts», appunto, che non è un «io» né un «egli» tradizionali, ma un «noi» assolutamente ignoto alla tradizione letteraria. È, se mai ve ne fu, un plurale simpatetico (esattamente il contrario di quello che usa il Papa): un «noi» in cui l’autore (Tonino Guerra con Federico Fellini), in una specie di aprioristico e bonario embrassons-nous assume anche il lettore, o, meglio, un gran numero di lettori, e cosi, eccoci tutti insieme, che assistiamo allo svolgersi della storia, che par nascere dalla nostra attenzione e dal nostro interesse — se non addirittura dalla nostra memoria (quasicché avessimo tutti passato infanzia e giovinezza nel «Borgo» di Guerra e Fellini). Un personaggio lo «vediamo», o poco più avanti, lo «ritroviamo»; di un altro personaggio, alcune caratteristiche le « abbiamo già viste» ecc. ecc. Il titolo Amarcord andrebbe meglio allargato in «Asarcurdem» (non: «Mi ricordo», ma: «Ci ricordiamo»). A legare l’autore al lettore in quanto futuro spettatore, tuttavia, non è solo il pronome grammaticale: è la volontà stessa dell’autore che si autodestituisce dal proprio incarico di informatore onnisciente e chiama il lettore-spettatore alla gestione del racconto. Non si tratta però di un esperimento democratico di gestione collettiva dal basso: no. La letteratura è sempre aristocratica. Si tratta semplicemente di una violenza esercitata dall’autore sul lettore. Guerra e Fellini, cioè, disarmano il loro lettore imponendogli, come comune, una universale visione dell’esistenza e una unica possibile versione delle cose. Preso alla sprovvista il lettore (tutti i lettori sono ingenui) sta subito al gioco: si lascia disarmare come un bambino, e contraccambia le pacche sulle spalle e l’allegria un pò* nefanda da scampagnata vagamente blasfema con cui gli autori lo incantano e lo ricattano. Cosi plagiato, il lettore (con un certo disgusto che egli però non approfondisce, un po’ per non dispiacere ad anfitrioni cosi gentili e ospitali, un po’ per vedere - ingenuamente — come le cose andranno a parare) finge di esser convinto di aver passato le prime esperienze della vita in quel Borgo romagnolo di Guerra e Fellini, di aver conosciuto quella buona gente, e di esprimere su loro lo stesso giudizio: un giudizio sospeso, tra una bonarietà da sacrestia e un ghigno da casa dello studente.

Procedendo con la lettura, però, ci si accorge che tale giudizio - com’era lecito sospettare - non è qualunquistico: il suo restare sospeso e privo di livelli, come se ogni uomo valesse cinicamente ogni altro uomo e ogni condizione umana valesse cinicamente ogni altra condizione umana (perché no, del resto?), non è dovuto al qualunquismo ma a una disposizione verso la realtà che, della realtà, coglie prima di tutto il momento enigmatico che sospende e livella ogni cosa, appunto nella sostanziale impossibilità di ogni interpretazione. L’umanità e la storia sono fenomenologia pura.

  Sotto questa luce enigmatica, succede così che i fatti del racconto del Borgo non siano aneddotici se non in primo grado, e i personaggi non siano delle macchiette che esteriormente. Ma cosa c’è dietro l’aneddoto e la macchietta paesana o provinciale? C’è, non la storia ma il nulla. L’enigmaticità davanti a cui si blocca il giudizio storico, morale, sociale, è una forma incondita e cristallizzata di religiosità che non trova altro sbocco che nel non detto « scacco del nulla». Ora, però, Fellini ha il terrore della serietà del nulla in quanto forma primaria e sia pur rozza di religione, cioè di tragicità. La sua educazione sentimentale (appunto in quel natio borgo cosi poco selvaggio, in quell’orrendo fondiglio piccolo-borghese) implica prima di tutto la paura dei sentimenti e ancor più della loro esprimi-bilità. Se il sentimento primo di Fellini è dunque l’enigmaticità di un mondo fondato sul nulla e vivente di apparizioni, egli deve, per ragioni sociali, prima di ogni cosa, nascondere questo sentimento, cioè mistificarlo. Ecco dunque che, non appena accenna a rivelarsi, a scoprirsi, esso viene immediatamente corretto: da che cosa? Dal riso. Dal riso, dico, non dall’umorismo. Fellini ambisce al comico (e Guerra è costretto, in questo, a tenergli bordone). Ma si tratta di un riso stridulo, che spesso ha stecche infernali. Un riso nervoso, quello che hanno le puttane quando si parla di cose sporche, o un masochista quando si parla di fruste: un riso cioè che distacca e distingue, che rimuove e ristabilisce le distanze. Un patetico e un po'agghiacciante riso di difesa. Cosi come la tragicità del nulla percorso da grevi teofanie deve essere corretta dal riso, il riso, a sua volta, deve correggere la propria sgradevolezza psicologica: questa seconda correzione viene ottenuta ricorrendo alla convenzione umoristica. Il cerchio si chiude: l’aneddoto e la macchietta (falsi) sono guardati con l’allegria (falsa) con cui la tradizione e il senso comune vuole li si guardino.

  In conclusione Fellini si trova con ben poco in mano: la vita di un Borgo, da una primavera all’altra, coi suoi piccoli personaggi appartenenti all’infima borghesia o a un popolo provinciale più che agreste o preindustriale. Qualche grosso personaggio appare, ma come visto dagli umili. Se io fossi un produttore non farei fare a nessuno un film da questo racconto. Ne temerei, credo giustamente, un anacronistico revival neo-realistico, in cui ci si limitasse a promuovere il motto zavattiniano « I poveri sono matti » in «I piccoli-borghesi sono matti». Cosa non priva di suggestione, ma quatriduana.

  Sapendo però che il regista del film sarà Fellini, la previsione dell’opera in cui quest’opera scritta vuole trasformarsi, è obbligata. Intanto, è certo che, malgrado il riso che corregge la tragicità che corregge la banalità dell’esistenza provinciale, e che a sua volta è corretto da una convenzione umoristica solidale con quella banalità, Fellini non avrà la minima esitazione ad essere estremista nel realizzare tutti quei suoi piccoli personaggi da poesia dialettale di farmacista di paese, in volgari, atroci, ripugnanti mostri, veri e propri monconi umani, privi del bene dell'intelletto. La totale mancanza di umanità - completamente atrofizzata - riporterà la materia imbellettata del racconto alla sua originaria tragicità.

  Questo ritorno alla tragicità — è da supporre — come già nel libro si intravede - darà, sia pure molto indirettamente, la possibilità ai sentimenti denegati di riflettersi sulle cose. E l’Italia fascista del resto ha già nel libro quella meravigliosa, irripetibile bellezza contadina che si intravede nello stupendo Un po’ di febbre di Sandro Penna; oppure - addirittura - può risultare analoga alla Russia zarista col suo fondo di struggente purezza che sta — irrelato — dietro la folla dei personaggi atroci del Demone meschino di Sologub.

  Resta da chiedersi — discorrendo e ipotizzando oltre il libro - come questa «realizzazione» redentrice — capace cioè di trasformare un piccolo mondo pascoliano post-datato all’epoca fascista — possa avvenire. È semplice. Fellini ha già la sua formula, che è la seguente: considerare la realtà nel suo insieme come inesprimibile e irrappresentabile ; sceglierne dunque una parte, un elemento, una forma, una riduzione; fare in modo che questo «campione» di realtà (che non può non conservarne la sostanza enigmatica) sia il più vicino possibile all’idea comune, pubblica, addirittura convenzionale; su questa fetta di realtà ridotta e convenzionale operare (è il momento essenziale) una dilatazione semantica e formale eccessiva senza riserve; presentare questo pezzettino o frangia di realtà, dilatata in una gigantografia che ne trasforma il senso, a uno spettatore che: a) resta sconvolto di fronte alla sua espressionistica enormità, b) ne riconosce il valore corrente e familiare.

  In Roma, che è il suo capolavoro, Fellini ha fatto tutto questo, e gli è riuscito meglio che negli altri film perché ha avuto il coraggio di distruggere anche l’ultimo elemento non irrisorio, irrilevante o minimo della realtà, cioè il personaggio. Il pulviscolo di personaggi che gli rimane sono appunto delle piccole ombre della vita, dei paria esistenziali, dei palloncini che egli può dilatare come dirigibili, senza incontrare resistenza alcuna. Lo stupendo giovane della piazza della pizzeria di Roma, con la retina in testa (a m’arcord!) non risulterà certo superiore a Scurèza di Corpolò col berrettino da motociclista con la visiera all'indietro; né la sequenza del passaggio del «Rex» ha l’aria di aver qualcosa da invidiare a quella dell’autostrada in Roma (che ricordiamo come un evento di una realtà accaduta in sogno, piuttosto che come un pezzo di cinema). I critici non mi pare si siano accorti dell'eccezionale bellezza di Roma (va bene, con due o tre sequenze infelici). Tanto peggio per loro. Rivelano, al di fuori del film, la stessa brutale immaturità e la stessa debolezza spregevole (che pure non si può non perdonare) dei personaggi che si trovano dentro il film.

  Nel momento in cui essi, dopo aver fatto i leccapiedi, per anni, di Fellini, hanno un gesto di impazienza, verso di lui che si ripete, come se tale impazienza fosse originale, personale, e non un atto di vile sottomissione all'evolversi della più infima opinione pubblica, si rendono campioni di quella volgarità che Fellini sa cosi ben riconoscere. Forse un po’ troppo bene. Ché solo chi è in qualche modo partecipe del male ha quell’interesse per esso che lo rende capace di vederlo e di esprimerlo. Infatti Fellini è un peccatore. Un uomo con le mani sporche come quelle di un bambino — come dice la bella poesia in dialetto romagnolo di Guerra che fa da prefazione al volume.


P.P.P., 30 settembre 1973
 


Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini - Stupore e speranza per un “demone meschino” di 70 anni fa

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Biblioteca nazionale centrale - Roma


Stupore e speranza per un “demone meschino” di 70 anni fa 
Pier Paolo Pasolini
16 settembre 1973
Tempo  pag. 64-65
Biblioteca nazionale centrale - Roma
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Recensione a F. Sologub, Il demone meschino, Trad. di Pietro Zveteremich, Garzanti, Milano 1973. Il ricordo della recente lettura del libro di Sologub è in una citazione dei personaggi di Ljudmila e Sasa nell'Appunto 10 Ter. di Petrolio.
(Walter Siti)
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Oggi anche in Descrizioni di descrizioni- a cura di Graziella Chiarcossi
con il titolo:   Fëdor Sologub, Il demone meschino




Biblioteca nazionale centrale - Roma
   Apro la finestra di vecchio legno, con dei complicati chiavistelli, e mi appare una calle, con l’acqua verde, le case rosse intorno, piccole, lavorate come oggetti, i cortili interni circondati da tetti e comignoli. Una campana suona con foga; e appena smette, eccone un’altra più lontana, come di latta, che rintocca disperatamente, a distesa. Sul piccolo marciapiede della calle, oltre la gradinata di un ponticello passano due donne, una ancora giovane, e una vecchia che si appoggia al bastone. Vanno a messa, certamente, oppure in visita mattutina a qualche signora amica, dove le attende il caffè, o un liquore dolce. Degli uomini parlano a bassa voce fra loro sulla tolda di una piccola barca, nuova, gialla, ammassata con delle altre lungo la riva di pietra. Ecco una terza campana, più lontana ancora, e più solenne, mista ad altre campanelle. È domenica mattina: non c’è dubbio, la Chiesa chiama con accenti severi, mentre la gente è stranamente leggera e lieta, senza mostrarlo. Un ardente sole settembrino che già più non scalda sembra tutto assorbire e rendere silenzioso nella sua luce... Ecco, ecco, due piccoli soldati che scendono i gradini del ponte... tre ragazzi con delle magliette molto colorate e i capelli tosati che camminano con malcelato fervore... Un gruppo di donne con un bambino, su cui si chinano tutte...

   Verso questi miei simili che vivono una giornata di vita piccolo-borghese di un’epoca finita per sempre, anche se durata solo fino a pochi anni fa, io provo un sentimento forte, intenso, carico di espressività.

   La loro vita mi appare misteriosa, si, come quella di un popolo defunto in millenni remoti, oppure come quella di un popolo di formiche, di castori. Nel tempo stesso, mi è profondamente famigliare. C’è, tra me e loro, una complicità, o un'alleanza, o un patto, che mi ha legato ad essi dalla nascita, obbligatoriamente, come il battesimo lega a una chiesa: se le parole precise di questo patto, sono andate perdute, resta la certezza di averle sapute e un vago ricordo, che è tutto. Tuttavia l’immensa quantità di cose in comune - sentimenti, necessità, abitudini, convinzioni — apparendomi in loro, mi si presenta come dotato di un altro spirito, che mai io possiederò in quella sua interezza che spiega totalmente la vita: tutt’al più potrei esprimerlo. Sono infatti scrittore: e questo rapporto di nostalgia per la intensità, la completezza, la purezza della vita - che si manifesta solo nelle vite altrui, sia in quelle tragiche che in quelle ridicole, sia in quelle povere che in quelle ricche - è il rapporto che mi permette di esprimerla. O, meglio, che mi ha permesso di esprimerla. Per molti anni, per quasi un’intera esistenza, il mio rapporto con gli uomini è stato dominato da questa idea rispettosa e sgomenta della loro necessità, al di là del male e del bene. La condizione era quella piccolo-borghese, sovrapposta ingiustamente sopra una condizione popolare. Ma ne nasceva un tutto, di cui faceva parte anche la lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, di una cultura potenziale contro la cultura reale.

   Sapevo, certo, che, nell’orbita del potere, i piccolo-borghesi erano neirenorme maggioranza dei teppisti, delle persone che non avevano interesse per niente, dei conformisti criminali, dei potenziali fascisti: questo in quanto piccolo-borghesi. In essi sussisteva, però, l'altra natura, quella della classe da cui erano appena provenuti, o da cui si andavano formando, e che costituiva la maggioranza della nazione.

   Ora, in pochi anni, tutto è cambiato. Il piccolo-borghese non solo si è definitivamente distinto dalla classe popolare — prevalentemente contadina — da cui proveniva, ma, fornito di mezzi come nessuna classe privilegiata ha mai posseduto nella storia, ha cominciato, ottenendo immediatamente clamorosi risultati, a borghesizzare l’intera nazione. Resta, attaccata allo stupendo passato, con tutte le sue ingiustizie, qualche piccola isola, come questa Venezia di una domenica mattina.


Teppismo
ferocia
e volgarità

   Le caratteristiche «negative», «nere», del piccolo-borghese, si sono stabilizzate una volta per sempre: hanno perso la loro barbarie (o tendono a perderla), ma sostanzialmente sono le stesse: teppismo, ferocia, disinteresse per ogni cosa, paura, conformismo, volgarità. Nulla è più ormai al di fuori di questo. Dunque il rapporto di uno scrittore con gli altri uomini non può che essere radicalmente mutato. Ciò che rende ancora misteriosa l’esistenza umana è solo la sua volontà collettiva, con le sue scelte, riguardanti soprattutto il futuro. Ma questo non basta a far amare gli uomini, a far provare verso di essi quello slancio di innamorata curiosità, che, mista al terrore, spingeva uno scrittore a scrivere: cioè a descrivere.

   Leggo con infinito stupore un libro scritto sessanta-settanta anni fa in Russia, Il demone meschino di Sologub. Trattandosi di un vero e proprio capolavoro, tutte le considerazioni che potrei fare oggi leggendo un romanzo «di una volta », sono rese da esso immensamente più significative ed emozionanti. Sologub parla della vita di una città (che egli chiama «la nostra città»), e una vicenda dei suoi abitanti, imperniata intorno alla storia «comica» di un professore di ginnasio, Peredònov. Peredònov è uno di quei pazzi - che si trovano anche in Dostoevskij - studiati e descritti prima della psicanalisi: si tratta di un paranoico, afflitto da mania di persecuzione (che lo porterà ad ammazzare arbitrariamente uno dei suoi amici, il più stupido e innocuo): egli è un teppista, che non ha interesse per niente, un conformista così miserabile che giunge a fare la spia e a scrivere delle denunce anonime con la stessa facilità con cui imbratta e distrugge gli oggetti della padrona di casa, per pura volgarità. Come personaggio e come caso patologico, Peredònov interessa però meno che come simbolo. In esso è sintetizzato espressivamente tutto ciò che caratterizza un piccolo-borghese: e, poiché nel libro è detto ripetutamente che in gioventù egli ha letto le opere proibite, i testi rivoluzionari, come simbolo egli comprende in sé anche il piccolo-borghese di sinistra (Peredònov è stato costretto dalla sua paranoia a diventare reazionario: ma avrebbe potuto benissimo, restando quello che era, proseguire per la strada della contestazione alla società borghese zarista). Intorno a Peredònov si muove un mondo di uomini e donne in tutto simili a lui. È inconcepibile che si possa aver scritto un romanzo così crudele, dove, almeno per la prima metà, nessuno e niente si salva. Come ha potuto Sologub, che è un uomo così delicato, scrivere cosi spietatamente una storia simile? Ha potuto farlo perché egli aveva, con l'insieme degli uomini, un rapporto come quello che ho descritto qui sopra, dominato dal rispetto e dalla necessità, che ne assicurano una eterna freschezza. Sologub vuole fare un romanzo «comico»: e ci riesce, non c’è dubbio. Ci riesce perché prova un profondo piacere espressivo nell'usare i canoni di quel particolare umorismo che è l'umorismo russo, per «descrivere» i suoi personaggi e le loro azioni. È incantevole il modo con cui egli presenta i personaggi man mano che viene il loro turno. Alle volte il succedersi di questi turni è addirittura meccanico (come nella serie di visite che Peredònov va a fare ai pezzi grossi, per ingraziarseli, pronto a qualsiasi bassezza): teoricamente sembrerebbe insostenibile inserire nel racconto una dopo l’altra tutte queste scene che cominciano invariabilmente con la descrizione del personaggio e dell’ambiente che appaiono agli occhi di Peredònov e del lettore. Eppure Sologub ci riesce, con la massima facilità. Vuol dire che il suo rapporto con quelle persone è sempre pieno, intenso, carico di espressività. La vita — anche se vissuta dalla classe privilegiata di quella città russa di provincia in modo cosi miserabile - è trionfale. Infatti il fondo su cui questi piccoli mostri piccolo-borghesi si muovono è un fondo innocente: da una parte la natura, coi suoi soli e le sue piogge (sempre mirabilmente descritti, in due parole), e dall’altra quell’entità non detta, oscura, immensa che è il popolo. L’innocenza della natura e del popolo riescono a infiltrarsi fin dentro il cuore di quella piccola società che esprime il potere locale, descritta da Sologub: riesce a infiltrarsi attraverso la presenza dei ragazzi. I figli dei mostri sono degli angeli. Lo sono tutti, per partito preso. Essi, al contrario degli adulti, sono rispettosi, pieni di interesse per ogni cosa, intelligenti, razionali, ingenui, capaci di rivolta, freschi, allegri: e belli anche fisicamente. La lucidità e la spietatezza, con cui i ginnasiali giudicano gli adulti, non li priva della loro illusione sulla vita come un insieme di realtà positive e di valori. Il rapporto di Sologub con gli uomini - quel rapporto che gli permette di descriverli - è simboleggiato, nella sua purezza, dal rapporto coi ragazzi, coi «ginnasiali» (che Peredònov si diverte a far frustare, andando a spiare ai loro genitori malefatte inesistenti). Ai ragazzi Sologub concede una parte minima del suo romanzo, in pratica si limita a nominarli e riferire su loro delle notizie: non li descrive mai (eccetto uno, come dirò): sono un puro termine di paragone, una ontologia lucente di «allegri occhi». Il loro motivo viene introdotto nelle prime pagine, quando un quattordicenne ginnasiale, fratello di una delle pretendenti di Peredònov, viene notato (ma la cosa, subito, non stupisce, perché nei romanzi russi i ragazzi sono notati abitualmente, là dove nella narrativa occidentale — a meno che non siano protagonisti — sono completamente rimossi): finché, tale motivo, esplode in Sàsa. Un’amica della concubina di Peredònov che l'aiuta nelle sue manovre — il motivo comico del libro — per farsi sposare) di punto in bianco, per un puro arbitrio che resterà senza spiegazione, dice che nel ginnasio c'è un certo Sasa, il quale è in realtà una donna travestita da ragazzo. Questa follia non sembra tale né a Peredònov né agli altri suoi simili. Non c’è dubbio che nel ripugnante eros di Peredònov ci sono molti resti di omosessualità repressa, quella delle SS, quella della polizia, ecc.: e del resto il fondo di tutto questo ambiente piccolo-borghese e pieno di una barbarie ancora recente. La notizia arbitraria sulla presunta natura femminile di Sasa, fa nascere la «seconda storia» del romanzo.

   Ci sono tre sorelle, tra le pretendenti alla mano dello scapolo Peredònov: si tratta di tre ragazze, e quindi di tre personaggi appartenenti all’ontologia felice e positiva dell universo stilistico del libro. Esse sono eternamente allegre, di una meravigliosa allegria enunciata e non spiegata. Lo sono, e basta. Una di queste tre sorelle, Ljudmìla, si incuriosisce di Sasa, vuole andare a vederlo, e tutta elegante, esageratamente profumata, col suo ombrellino, va a trovarlo presso la vecchia che lo tiene a pensione. Scoppia subito un violento, impossibile, arbitrario amore tra questa ragazza, quasi ventenne, e l'adolescentino completamente innocente: l’eros si scatena senza giungere a nessun compimento. E il corpo narrativo, che lo contiene, si inserisce di forza - con tutto il carico della sua cultura decadente, raffinata - nel corpo principale del romanzo, che quanto a cultura è classicamente russo: appartiene cioè tradizionalmente a un’area in cui si sono potuti scrivere romanzi come questo fino a un periodo molto più tardo, rispetto alla coeva narrativa europea (Babel' Platonov, fino a Bulgakov).    


Personaggi
che rinnegano
l'umorismo


Biblioteca nazionale centrale - Roma
   I personaggi piccolo-borghesi di Sologub non possiedono l’umorismo che caratterizza il loro creatore. L’hanno appena perduto. Lo rinnegano, anzi, probabilmente, come tipico di quell’universo povero e contadino da cui si sono appena distinti. Si tratta di una vera e propria abiura. Il loro riso, per essi, non ha senso se non offende qualcuno o qualcosa; o se non è ghignante esibizione della propria superiorità. L'umorismo che invece Sologub adotta ancora con tanta felicità sua e del lettore è appunto quello povero e contadino: non prende in giro e non offende nulla. È semplicemente buon umore e trasporto verso gli altri, anche i volgari e i malvagi. Nelle descrizioni del teppismo e dell’ignoranza degli eroi di Sologub, prevale, sul senso letterale, una felicità che ne condiziona il giudizio. È vero del resto che quegli eroi sono ancora pervasi da una barbarie recente, che ogni tanto li ritrascina indietro, in un mondo dove essi erano infinitamente migliori, tuttavia è proprio nelle caratteristiche formali dell’umorismo di Sologub che essi vengono liberati dal giudizio morale che grava su di loro. L’umorismo cattolico, o, prima di tutto, protestante, che si è formato come «mezzo espressivo» nel momento in cui la borghesia occidentale diventa la borghesia moderna, nel Seicento - il Cervantes, Shakespeare, Ariosto sono i modelli primi e ancora puri - non ha avuto mai la leggerezza meravigliosa ed evangelica di quello russo. 


Nessuno
riesce
antipatico

   Qui, il mondo contadino si è protratto nella sua totalità infinitamente più a lungo. Probabilmente, anzi, in potenza, nella Russia di oggi è ancora possibile un romanzo come quello di Sologub, perché la Rivoluzione ha preservato l’universo arcaico dalla borghesizzazione, e dal suo umorismo privo di felicità.

   Alla fine del libro, nessuno di questi personaggi orrendi riesce antipatico: Sologub è riuscito a compiere il miracolo di guardare lucidamente e spietatamente una realtà odiosa senza odiarla.

   Probabilmente, per tornare ai giorni nostri, questo miracolo è forse ancora parzialmente possibile: ma non descrivendo, però, i piccoli borghesi integrati, quelli dell’enorme maggioranza: il loro fascismo si è in realtà smussato in una forma di edonismo consumistico che li ha staccati per sempre da ogni epoca precedente; e i fascisti dichiarati sono dei turpi fossili. Il miracolo di Sologub si può forse ottenere descrivendo dei piccoli borghesi di sinistra, rivoluzionari: sono essi, in realtà, spesso, a essere teppisti, volgati, ignoranti, ricattatori, privi di umorismo, fanatici in superficie, cinici e simulatori nel profondo, come i personaggi di Sologub: ad avere cioè intatte tutte le caratteristiche della vecchia borghesia, dato che essi si oppongono a quella moderna e attuale, rifiutandola, almeno teoricamente. Ma, malgrado questo, è proprio tra essi che si possono trovare dei personaggi odiosi da descrivere senza odio, come ha fatto Sologub. Solo che intorno ad essi, purtroppo, manca un universo che non sia quello loro, particolare. Bisogna essere affascinati e innamorati di tutti gli uomini, per sceglierne una parte e condannarne un’altra.
 Fëdor Sologub: "Il demone meschino", Garzandi editore, lire 3mila, pagine 310 ).


   Pier Paolo Pasolini
  16 settembre 1973
Tempo


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