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lunedì 31 ottobre 2022

Quell’intervista con Pasolini era gravida di morte - Furio Colombo, La Stampa 31 ottobre 2015

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Quell’intervista con Pasolini era gravida di morte 
 

Furio Colombo

La Stampa, 31 ottobre 2015


      Furio Colombo ricorda lo storico colloquio avvenuto con Pasolini il pomeriggio precedente di poco la notte dell’omicidio: “Siamo stati a parlare ore, con lunghe pause, asciutta severità. E timore”. Fu un’intervista che assume un inquietante valore documentale, anche alla luce del titolo che fu scelto dallo stesso Pasolini: Siamo tutti in pericolo. 

lunedì 14 dicembre 2020

Pasolini, “Perché siamo tutti in pericolo”». L'ultima intervista a Furio Colombo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


TUTTOLIBRI, numero 2  -  8  novembre  1975
Settimanale d'informazione  edito da  LA  STAMPA
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Vedi anche "Pasolini, sei ore e trentacinque minuti prima della morte."

Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista.
Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. 


«Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: 

“Perché siamo tutti in pericolo”».


F. C. - Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò «la situazione», e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La «situazione» con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della «situazione». Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo…


P.P.P. - Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo» non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici, a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava, una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, «la situazione», e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo.
Una luce

F. C. - Ecco, descrivi allora la «situazione». Tu sai benissimo che i tuoi interventi e il tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella ma si può anche vedere (o capire) poco.


P.P.P. - Grazie per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione Parigi brucia tutti sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita (un frutto del tempo è che «lava» le cose, come la facciata delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per «scegliere». Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e «collabora» (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal «potere»?

F. C. - Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?


P.P.P. - Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.

F. C. - Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.


P.P.P. - Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo… È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.

F. C. - E qual è la verità?


P.P.P. - Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire «evidenza». Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è «stare con i deboli». Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.

F. C. - Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai in genere molto successo popolare, cioè sei «consumato» avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta?



Il Mondo

P.P.P. - A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma.


F. C. - Come dire che hai nostalgia di quel mondo.


P.P.P. - No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere «di che segno sei». Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse – se ha ancora un soffio di vita – in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa effetto, prima loro, prima lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la «situazione». È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. l’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del «cantando sotto la pioggia». Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.

F. C. - E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici.


P.P.P. - Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato «la vita violenta». Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra, delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.

F. C. - Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta) e se non vogliamo usare la repressione «più avanzata»…


P.P.P. - Che mi fa rabbrividire.

F. C. - Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio?


P.P.P. - Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non solo quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.

F. C. - Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?


P.P.P. - Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.


F. C. - Pasolini, se tu vedi la vita così – non so se accetti questa domanda – come pensi di evitare il pericolo e il rischio?





È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande. 

P.P.P. - «Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina».

Il giorno dopo, domenica, il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini era all’obitorio della polizia.

Furio Colombo


Vedi anche "Pasolini, sei ore e trentacinque minuti prima della morte."




Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini, sei ore e trentacinque minuti prima della morte.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini, sei ore e trentacinque minuti prima della morte.
***
Oggi sono in molti a credere che c'è bisogno di uccidere
STAMPA SERA 
Anno 107 - Numero 245 
Lunedì 3 Novembre 1975

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)


Roma, 2 novembre. 

   Sono le quattro e un quarto di sabato pomeriggio. Sopra il citofono della palazzina di via Eufrate, all'Eur, c'è scritto «Dr. P. Pasolini». E' una strana casa, uno strano luogo per vivere, perché ha due facce. Guardo davanti e vedo, sopra quella targhetta, la palazzina confortevole, senza stile e senza gusto che è il condominio dell'Eur, il quartiere residenziale più ambito di Roma. Volto le spalle alla palazzina, e oltre la strada vedo quel vuoto strano e angoscioso che circonda Roma. Un vuoto che non è né città né campagna. Il verde sono cespugli, non alberi, passano strade che non si vedono. La campagna di Fiumicino è proprio là davanti, senza una faccia, come la periferia di Roma e i suoi desolati misteri. 

   Nella strada deserta incrociano due motociclisti giovani, uno in tuta azzurra e splendore di cerniere lampo, entrambi col casco e la visiera scura davanti alla faccia. I due motociclisti vanno e vengono come se facessero a gara a chi sta più in equilibrio evitando di accelerare. Con la macchina accosto due volte. Per due volte le facce nascoste dal casco non rispondono alla domanda sulla strada e sul numero. Accelerano lievemente, due ragazzi che guidano bene. Quando esco, due ore più tardi, vedo ancora la tuta blu, la moto, le gambe ferme e divaricate, lontano, in mezzo alla strada. Ma ormai è buio, è un frammento d'immagine inquadrata dai fari, mentre faccio marcia indietro, con la paura eccessiva di sbagliare, di cadere indietro nel vuoto, nel punto dove Roma finisce. 


Fra i libri 

   Dentro, al primo piano, al fondo di una scala buia, di un pianerottolo buio (nei condomini rispettabili si risparmia la luce) c'è Pasolini. Mi aspetta, seduto di fianco, ben coperto nello stanzone gelido, un ambiente sproporzionato che nei condomini si chiama «salone di rappresentanza». Pasolini è su una poltrona, e la poltrona su una moquette che non è grande abbastanza per coprire tutto quel marmo. Accanto c'è un enorme camino spento. L'unica difesa sembrano i libri, tanti libri sul tavolo basso e per terra, come una trincea provvisoria. Davanti c'è un volumetto spagnolo («Conversaciones con P. P. Pasolini»). Lui ha in mano Sciascia, «La scomparsa di Majorana». 

   Nel libro spagnolo, aperto, mi pare con un gesto brusco, che ha forzato la legatura, faccio in tempo a leggere la fine di una domanda: «Tenerezza, nostalgia, violenza, avventura, solitudine, avversione, odio, a momenti, eppure anche dolcezza... Sono questi i sentimenti che le vengono dal ricordo del padre? ». 

   E l'inizio di una risposta: «Sì, un po' di tutto. Devo ammettere che c'è in me una grande contraddizione, la nostalgia ma anche il malessere... ». Incominciamo a parlare. — E' bello, è bello il Majorana di Sciascia. E' bello perché ha visto il mistero ma non ce lo dice, hai capito? C'è una ragione per quella scomparsa. Ma lui sa che in questi casi un'indagine non rivela mai niente. E' un libro bello proprio perché non è una indagine ma la contemplazione di una cosa che non si potrà mai chiarire. 

   Pasolini abita nel suo maglione, nei suoi stivaletti, nelle ossa dure della sua faccia, nelle mani che apre e chiude inavvertitamente come per un esercizio, abita nel suo corpo ben difeso e in guardia. E' lì che bisogna cercarlo e stanarlo, e in quegli occhi sempre in guardia, nonostante l'amicizia, la dolcezza o il sorriso. Non nella casa, non negli oggetti, che si sono accumulati qui intorno, o nell'altra che sta finendo, al mare, o in quella di campagna, che dicono sembri un castello. E' circondato di oggetti che potrebbero sparire di colpo, senza toccarlo. 



Unica gioia 

   Stando con lui si capisce che i suoi articoli, i suoi «Scritti corsari», anche nei momenti più acuti del paradosso sono assolutamente sinceri. Toccava le cose come un prestigiatore, facendo apparire quel che voleva, persuaso che non esistono. Qualcuno doveva sapere che solo colpendolo al corpo, con tutta la violenza possibile, si poteva finirlo. Il cervello ottuso che ha risposto all'impulso di un folle mandato (maturato dentro o fuori di lui? Non ce lo diranno mai) doveva avere percepito la forza di quella sfida. 

   — Ho la vita di un gatto — diceva Pasolini. E allora rideva offrendosi al rischio di vivere con una specie di gioia che forse era la sua unica gioia. Temeva la protezione degli oggetti, temeva la protezione della ideologia, persino la protezione dei pensieri saggi, del buon senso. Rompeva ogni volta l'involucro per sentire in faccia solitudine e rischio, due cose che lo riguardavano profondamente. Tutto, detto o non detto, sembrava esprimere in lui questa idea fissa: tanto non c'è niente da fare, non la scampi. E allora perché proteggersi, perché adattarsi ai camminamenti delle cose mezze fatte, mezze dette, mezze accettate? Giocava col privilegio (del cinema, del successo) come il mago Houdini con catene sempre più dure, bauli sempre più fondi e rischi sempre più «inevitabili». In questo gioco terribile diventava profeta. Uno strano profeta, agile, in guardia, proprio perché disarmato e separato da ogni forma di protezione e alleanze. 

   — Hai fatto il film sulla Repubblica di Salò proprio prima del delitto del Circeo.

   — Sì, e adesso mi fa impressione guardarlo, il mio film prima ci pensi come a una intuizione, che per quanto terribile ha la pace e l'armonia delle cose pensate. Poi ci lavori, e il cinema è tecnica, scena dopo scena, un'inquadratura dopo l'altra, e questo lavoro è come una enorme routine, dilata i tempi, ti macina nei dettagli, sei alla catena di montaggio del tuo stesso prodotto. Poi guardi, vedi quello che è successo. Quello che è successo è "anche" quello che hai fatto o voluto. Ma c'è qualcosa che vedi per la prima volta. Io ho sentito disagio e paura. 

   — Hai fatto il film pensando a "quella" Salò, alla tetra storia di allora, o i tuoi incubi su questa violenza sono in avanti, qualcosa che viene dopo? 

   — Ma non vedi che gli assassini del Circeo cercavano disperatamente una divisa, un travestimento? Che avrebbero dato chissà che cosa per avere in mano un ordine, una ragione, un'idea che desse un senso al loro massacro? Non lo sapevano, ma erano già travestiti. Travestiti da nuovi assassini.



Ultima sera 

   Pasolini parlava, verso le cinque, mentre veniva sera, tirandosi sempre più dentro di sé, con gli occhi sempre più lucidi, con quella specie di disperata felicità di chi sa di più perché viene fra la parte in luce del mondo — la razionalità, l'immaginare, il creare, il dibattere, le polemiche, i confronti dell'intelligenza — e la zona tetra in cui si vede da vicino, senza le maschere, una faccia vera e tremenda. Pasolini si era dedicato, come a una ossessione, alla descrizione di quella faccia. La vedeva venire vicina. Era, in modo misterioso ma vero, l'identikit del suo o dei suoi assassini. 

   Pasolini parlava, rispondendo attento, puntiglioso, alle domande di una lunga intervista, per Tuttolibri. E intanto sembrava constatare in sé nel suo essere vivo, testimone disperato di cose che sapeva da solo, l'unica garanzia, l'unico segno. 

   — Io dico che le vostre obiezioni sono sbagliate perché non vi siete accorti che dai codici della malavita, come da quelli che chiamate « politica » è ormai esclusa l'umanità. Oggi «si deve uccidere», voi non avete idea in quanti siano a crederlo. La morte è un comportamento di massa. 

   Però non era triste. Non lo angosciava quel panorama vuoto della città che finisce davanti alle sue finestre, nei cespugli di Fiumicino. Pasolini si alza, mette da parte con cura le pagine che abbiamo scritto. E va a farsi uccidere. 


Mancavano sei ore e trentacinque minuti al massacro. 

Furio Colombo

*****

Segue l'intervista fatta da Furio Colombo, il 31 ottobre del 1975 a Pasolini, sei ore e trentacinque minuti prima della morte e pubblicata l'8 novembre del 1975, da Tuttolibri:  
"SIAMO TUTTI IN PERICOLO".





Curatore, Bruno Esposito

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Omicidio Pasolini - Le notizie trasformate in sentenze.

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Omicidio Pasolini - Le notizie trasformate in sentenze.
LA STAMPA 
Anno 109 - Numero 255
Martedì 4 Novembre 1975 

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)

Sono in un caffè di Roma, col mio pacco di giornali sotto il braccio, tutti con i titoli grandi e le fotografie emozionanti. Pasolini è stato assassinato. Intorno a me preme la folla romana del cappuccino. Sento le voci della mattina, accalorate, confuse Parlano tutti di Pasolini. Involontariamente le ascolto; voci uguali e sfasate, chiare e confuse, come in un montaggio alla radio. E questo groviglio di voci — che sono gli «editoriali spontanei» della gente, degli ascoltatori e lettori dei mezzi di comunicazione di massa, la mattina dopo lo scoppio di una tragedia — mi fa venire in mente una immagine tragica e grottesca dei tempi della pop-art. Un giorno in una galleria d'arte ho visto uno strano carro funebre. Davanti era una limousine, nera, lucente, foderata di velluto di cuoio. Dietro era un carro dell'immondizia. In mezzo c'era un cristallo come quelli che separavano una volta l'autista dai suoi padroni.

Il fiume di notizie sulla morte di Pasolini, le voci che sento e che ripetono senza fine i comunicati dell'Ansa, mi ricordano quella costruzione scombinata e tristemente ridicola. Di qua c'è il ricordo serio e commosso di letterati e di artisti, le parole del dolore e quelle del ritratto di artista. Ma di là c'è la storia morbosa e «completa» del fatto. E qui c'è qualcosa di terribile che colpisce in faccia coloro che si occupano di comunicazioni e che hanno la responsabilità delle notizie. Muore Pasolini, nel modo tragico che sappiamo e in poche ore viene fuori una storia completa di ogni dettaglio: il modo, il luogo, le tappe, il «tipo di rapporti», e (per usare l'espressione del famoso film di Scola)


«tutti i particolari in cronaca». 

Ma di che particolari si tratta? Si tratta di un collage deformato, composto mettendo insieme la legittima e disperata difesa del ragazzo, e tutte le cose che Pasolini avrebbe detto e fatto. All'uno, all'imputato viene tolto il diritto sacro di tutte le società democratiche, di essere considerato solo come indiziato. All'altro, alla vittima — o alla parie civile che ne dovrà rappresentare i diritti — viene buttata addosso la pietra del fatto compiuto, della narrazione completa, ora che la sua voce di «parte lesa» non può più essere ascoltata. Nel mio caffè romano all'ora del cappuccino tutti avevano in mano i giornali pieni di grandi titoli commossi. Ma tutti si raccontavano a voce la storia diffusa dall'Ansa, il racconto completo in cui i verbi al condizionale sono sfuggiti alla gente che, come un tribunale di milioni conclude:


eh già, quelli muoiono tutti così. 

Se un fatto del genere avvenisse in Inghilterra o in America (dove ogni ricostruzione del fatto, ogni narrazione è vietata agli organi ufficiali di una inchiesta) il giudice dichiarerebbe che «il processo è impossibile». Impossibile perché la gente ha già giudicato e archiviato il caso. Il problema è specialmente grave se visto dalla parte dei giornalisti. Infatti i cronisti che sono stati tutto il giorno a contatto con la polizia parlano di cautela, di perplessità, di discrezione e rispetto.

Ma qualcuno, nelle agenzie, ha compilato la storia con «tutti i particolari in cronaca» che milioni di italiani hanno ascoltato, formulata e accettata come un verdetto finale. Questo modo, di fare diventare certezza ciò che non è né compiuto né certo né giuridicamente autentico (e persino: non consentito, si tratta di segreto istruttorio fino a una sentenza) fa nascere quel continuo moto pendolare dell'opinione pubblica in Italia: credere a tutto subito, dubitare di tutto in seguito, con una sfiducia che erode sempre di più il rapporto fra il cittadino e le sue istituzioni.

Il torrente di notizie e dettagli — giunti alla gente come finali e sicuri sulla morte di Pasolini — si è trasformato in una sentenza illegittima. Viola il diritto della difesa, pubblicandone le ragioni (che sono ragioni di parte e diventano invece narrazione del fatto). E viola le ragioni della vittima, lasciando affiorare abbastanza chiaramente che sotto c'è il pregiudizio per questo tipo di vittima.

Pregiudizio vuol dire letteralmente « giudicare in anticipo ». Questo giudicare in anticipo non è un diritto, anzi è la violazione del diritto contro cui è urgente che chi ha responsabilità di informazione protesti. Io mi aspetto che protesti anche il giudice. E' come se qualcuno gli avesse tolto di mano il privilegio esclusivo, che il giudice esercita a nome di tutti, di indagare, ascoltare, confrontare, concludere. Anche il suo diritto, dall'informazione apparentemente «completa», è stato violato.
Furio Colombo.





Curatore, Bruno Esposito

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giovedì 29 ottobre 2020

Pasolini - Tragico viaggio nelle borgate Roma - La Stampa 3 novembre 1975.

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Tragico viaggio nelle borgate Roma

3 novembre 1975
La Stampa 


Sono quaranta chilometri tra la borgata « Sette ville » — baracche, rovine e palazzi senza fognatura e senza asfalto — il luogo in cui è cresciuto il ragazzo assassino, e il campo fangoso in cui hanno trovato il corpo massacrato di Pasolini. Lungo quei quaranta chilometri c'è la pasticceria dove i ragazzi di « Sette ville » si trovano, dondolano e si guardano attorno, immusoniti, con le mani cacciate in fondo alle lasche dei blue jeans di velluto, come se avessero armi. C'è il locale dei biliardini, dove fanno le scommesse, in attesa. Uno, lo vedo al lavoro, avrebbe le mani agili la faccia sveglia di un bravo meccanico. Ripara il bigliardino. E poi? Continua la veglia, con gli altri giovani della borgata « Sette ville ». Per vivere non c'è nessuna ragione al mondo. A meno che succeda qualcosa. 
Qualcosa certe volte succede. Ai bordi della via Tiburtina su cui sboccano le strade di polvere della borgata, sostano due o tre grosse automobili coi colori sgargianti. Appoggiati alle macchine aspettano e fumano individui vestiti come le comparse di un film. Tutto è di lusso fuorché la faccia, che si è salvata da chissà quanti scontri, quanti corpo a corpo, di giorno e di notte. Giù, in mezzo al prato — dove c'è ancora un prato — uno dice: « Ecco, quella è mia madre ». E' la donna romana robusta, preparata per ogni evenienza sta lì in mezzo e veglia sui figli piccoli, che giocano dove c'è ancora un po' d'erba, fino a quando non « scappano ». 
Da una collinetta già mezza sventrata scendono in gruppo. Sono ragazzini di scuole elementari, l'accento, il dialetto, esagerato, vendetta contro « la gente per bene », nelle loro grida si sente appena. Anche le facce hanno la dolcezza della vita in famiglia. Ma appena scoppia una lite uno, che intanto mi tiene d'occhio, afferra un pezzo di legno, si butta sull'altro e gli grida: « Guarda che prendo questo asse e te lo sbatto in 'testa ma tanto ma tanto che ti lascio li steso, sai? », e gli altri ridono. Deve essere lo scherzo di borgata « Sette ville », a due passi da via Fenati, dal numero cinque, interno dodici, dove vive la famiglia Pelosi. Uno di quei ragazzi, l'altra notte è diventato assassino. 
Dal muretto di fronte un gruppo mi guarda. Fanno vedere come sono cambiati dal tempo in cui sono « scappati » — come ha detto ai cronisti la signora Pelosi parlando del figlio. Le facce sono dure e piene di sfida. Si toccano appena co', gomito, nei loro golfetti tirati ma nuovi, nei jeans ben stirati. Qualcuno provvede. Sono facce senza un pensiero. Non viene niente prima, non viene niente dopo nella vita di borgata « Sette ville ». Da qui Roma non si vede neanche. Se piove queste strade sono un pantano. Due cabine telefoniche nuove luccicano nel vuoto in mezzo alla polvere. Un ragazzino fa la ronda lì intorno. « Guardi che rubeno ». Intende dire i telefoni, le uniche macchine messe qui dal Comune. Infatti si mette il gettone ma non c'è comunicazione e il gettone non torna. « Glielo avevo detto che rubeno » il ragazzino, che ha esperienza, va via. 
Sulla porta della palazzina numero cinque un uomo quasi vecchio lavora, sporco di calcinacci, col cappello di carta da muratore. « Io qui avevo la trattoria. Poi un giorno metto a lavorare mio figlio (indica il gruppo di là dal muretto). Che aveva? Diciassette anni? No. Sedici. Qui se fai il garzone sei fortunato. Io potevo farlo lavorare, mio figlio. La sera chiudevo i conti e mi mancavano cinquemila lire. Cinquemila ogni sera. Mio figlio è un ladro. Ma che glielo dici a tuo figlio che è un ladro? Glielo dici sì, se lo prendi. Io non l'ho preso mai. Ho chiuso, vede, sto murando la porta. Mi mancavano cinquemila lire tutte le sere ». 
In fondo alla strada ci sono negozi che sembrano quasi di lusso hanno tutto ciò che non serve. Le ragazzine con i jeans attillati fanno la ressa intorno all'unico telefono che funziona. « E' lui? E' lui? E' quello co' la macchina rossa? Se è lui digli sì, no scema? ». La palazzina del ragazzo bruciato è pulita pulita. Sulle scale appena lavate ci sono cicche di sigarette. « I ragazzi fumano e buttano le cicche appena vedono che è pulito. Lo fanno apposta », dice l'ex padrone del ristorante che sta murando il locale. 
Viene avanti uno con gli occhi furbi, svelto, uno che può essere utile. « Li conosco, io so tutto. La Pelosi, la madre, prende sempre l'aperitivo nel bar dove lavoravo. Poi mi hanno licenziato, riduzione del personale. Da sola no. Però neanche con suo marito ». Fa capire che avrebbe rivelazioni da fare. Sta diventando buio. Fidarsi? Eppure non vuole neppure un compenso. Sta cercando, a suo modo una promozione sociale. « Lei è giornalista, no? Com'è la madre del ragazzo assassino? La madre è quasi bella, avrà trentacinque anni, o trentotto. Veste sempre coi pantaloni e certe magliette (fa un fischio). Dicono tutti che è sempre elegante ». Al citofono e alla porta nessuno risponde. I ragazzi continuano la loro veglia sul muro fumando e toccandosi il gomito l'uno con l'altro. Uno grida, con le mani intorno alla bocca: « Chi è dritto è giusto che è dritto » come se fosse un proverbio, o una frase che nel gruppo capiscono. 
Si può andare di qui in mezz'ora di macchina a Ostia senza vedere mai Roma, incontrando altre case, altre baracche, altre borgate, come alla periferia di Bombay. Quando arrivo a Ostia è già buio. Mi fermo sul lungo mare. Un giovane si fa avanti staccandosi dalla parete di un bar. Dice senza aspettare domande: «Cercate Pierpaolo? Laggiù laggiù in fondo ». Lo dice con rispetto, sottovoce. Da questo momento mi accorgo che Ostia « questa brutta città che sembra l'incubo di un remoto " anteguerra " » è divisa in due. Una parte vorrebbe sputare su quel corpo massacrato, e lo dice. Una parte sa solo chi era e che l'hanno ucciso. Sta lì in silenzio e non dice « Pasolini » dice « Pierpaolo ». Con me è venuto Antonioni. Abbiamo lasciato il lungomare, siamo entrati in un campo di spaventose baracche; ci guida un lumino. Hanno messo le pietre intorno al luogo dove c'era tutto quel sangue. 
C'è gente venuta da Roma, due o tre. donne e uomini, con giacche di velluto e gli occhiali. « Io gli darei una rosa a quel giovane. Ma lo sa quanti ragazzi ha corrotto? Ha corrotto l'Italia. Gente da uccidere ». Non so a chi parlano Una piccola folla è uscita dalle baracche e sta intorno nel buio. Uno sistema i sassi della piccola tomba, l'altro aggiunge dei fiori. La candela si sta spegnendo. Un gruppo romano va via. « Io mi chiamo Salvetti — dice un uomo robusto, con i capelli bianchi — vivo qui (indica la baracca). Ho visto com'era, al mattino. So chi è Pasolini. Ho sentito come abbaiavano i cani. Io vivo qui. Mi chiamo Salvetti. Sono pratico della vita qui dentro. Mi creda. Loro erano in tanti ». va ad aggiungere una candela. Di certo i morti sono due, la vittima e l'assassino. 

Furio Colombo Roma
3 novembre 1975. 


Curatore, Bruno Esposito

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