"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini
“Ho abiurato la Trilogia della vita”
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La crisi antropologica dell’Italia contemporanea
Il 15 giugno 1975, Pier Paolo Pasolini scrive un testo destinato a imprimere una svolta radicale non solo nella propria poetica, ma nel dibattito culturale italiano: l’«Abiura dalla Trilogia della vita». Pubblicato postumo sul «Corriere della Sera» il 9 novembre 1975, pochi giorni dopo la sua tragica uccisione, questo scritto scandisce una crisi personale e collettiva, attraverso la quale l’intellettuale non solo riflette sulle ragioni politiche, estetiche e ideologiche dei suoi ultimi film, ma dichiara il proprio rifiuto di una stagione e di un’intera visione della realtà. Al centro della riflessione pasoliniana si staglia una critica virulenta alla mutazione antropologica e culturale dell’Italia degli anni Settanta: la strumentalizzazione del potere, la trasformazione dei corpi e della sessualità, la falsificazione dei valori progressisti, la crisi della gioventù e un doloroso concetto di adattamento alla degradazione. Questi temi, densi e profetici, trovano il loro tragico compimento nel film 'Salò o le 120 giornate di Sodoma', che diventa manifesto visivo di una sconfitta antropologica e di una denuncia feroce al nuovo potere. Questo saggio intende portare alla luce le tensioni, le aporie, e la drammatica lucidità del pensiero pasoliniano in quella fase finale e cruciale, collocando il testo nell’orizzonte storico e culturalmente stratificato dell’Italia del 1975 e analizzando le sue ripercussioni filosofiche, letterarie e cinematografiche.
L’Italia del 1975 è un paese in profonda trasformazione, attraversato da tensioni sociali, economiche e politiche che segnano la fine del “miracolo economico” e l’avvento di una modernità contraddittoria. Gli anni Settanta sono spesso etichettati come “Anni di Piombo”, segnati da terrorismo di destra e di sinistra, violenza politica e instabilità governativa. Tuttavia, ridurre il decennio a un perimetro di conflittualità sarebbe fuorviante: la stagione è altresì quella di grandi conquiste sociali e riforme civili (la legge sul divorzio nel 1970, la riforma del diritto di famiglia nel 1975, i primi movimenti femministi, l’approvazione della legge Basaglia, la discussione sull’aborto e il dibattito sulla riforma della scuola).
La fine del sistema produttivo agricolo e la massiccia industrializzazione, già avviata nel dopoguerra, avevano ormai trasformato il tessuto sociale italiano: masse di ex-contadini e sottoproletariato urbano erano stati risucchiati dalla metropoli industriale, abbandonando modi di vita millenari. Il cosiddetto “boom economico” degli anni Cinquanta e Sessanta aveva portato a nuove forme di consumo, stili di vita, massificazione dei modelli culturali, uniformazione linguistica e la definitiva consacrazione della televisione come medium dominante.
Il 1975, in particolare, vede il riflesso diretto dei cambiamenti sociali anche nella politica: le elezioni amministrative vedono per la prima volta il voto ai diciottenni e la significativa avanzata del Partito Comunista Italiano, a scapito della Democrazia Cristiana. Tuttavia, né il PCI né la DC sembrano cogliere appieno la portata della “mutazione antropologica” evidenziata da Pasolini nello stesso anno nei suoi articoli e saggi. I valori di riferimento delle classi popolari, delle vecchie culture regionali e popolari vengono dissolti dentro una narrativa di “progresso” che in realtà accompagna la diffusione del neocapitalismo come nuova religione laica – una società in cui, secondo Pasolini, «nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della società dei consumi».
Il tempo è segnato da profonde contraddizioni tra la retorica dell’emancipazione – la liberalizzazione sessuale, la democratizzazione dell’espressione, il femminismo, il laicismo e i diritti civili – e una realtà di crescente omologazione, disagio generazionale, perdita dei legami sociali, alienazione e infelicità diffusa tra le nuove generazioni.
Decisivi nell’elaborazione pasoliniana sono la presenza totalizzante dei media (prima di tutto la TV) e la riforma scolastica: strumenti che da “veicoli di emancipazione” diventano rapidamente macchine di omologazione culturale, secondo l’autore. L’attenzione, dunque, si sposta dalla vecchia lotta tra conservatorismo e progresso verso la critica di un nuovo potere che agisce mediante la persuasione occulta, la falsa tolleranza edonistica, la mercificazione dei corpi e delle relazioni.
È in questo contesto che si colloca l’«Abiura dalla Trilogia della vita»: una riflessione insieme personale, letteraria e meta-politica, che prende le mosse dalla crisi di una intera civiltà, ben oltre la mera sfera individuale.
L’incipit dell’«Abiura» mette in scena una tensione fondamentale tra sincerità e necessità: Pasolini rivendica la coerenza delle ragioni che lo avevano spinto a realizzare la 'Trilogia della vita' (Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte) – ovvero la democratizzazione del diritto all’espressione e la liberazione della sessualità – ma riconosce che il mondo è ormai cambiato e la sua stessa opera appare, alla luce del presente, irrimediabilmente falsata:
“Io abiuro dalla ‘Trilogia della vita’, benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso. (...) Ora tutto si è rovesciato. (...) Anche la ‘realtà’ dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana.”
Questa autocritica non è, come Pasolini precisa sferzando i benpensanti, la resa alle loro critiche moralistiche: non è la conversione del peccatore, ma la dolorosa presa d’atto della sconfitta storica di un intero modello esistenziale e cosmologico. Il processo della “degenerazione dei corpi” agisce retroattivamente: la perdita di innocenza nel presente svaluta anche il passato, rovesciando il senso delle gesta, dei gesti, dei volti.
Il cuore della denuncia pasoliniana riguarda la capacità del nuovo potere – identificato non più con la Chiesa o con la borghesia fascista, ma con il sistema produttivo e consumistico – di assorbire, svuotare e manipolare qualsiasi possibile opposizione, anche quella erotica:
“Le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia (...). Anche la ‘realtà’ dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico.”
Il sesso e la libertà sembrano, agli occhi del nuovo potere, strumenti di controllo molto più efficaci della repressione aperta: depotenziate la sacralità, la vergogna, il mistero, la pornografia e la permissività diventano merci e veicoli di omologazione – “la peggiore delle repressioni della storia umana”. Il consumismo mercifica e inocula i valori della tolleranza solo per meglio neutralizzare ogni anelito di differenza e alterità.
In questa logica, il corpo, che nella Trilogia rappresentava il baluardo finale di una vitalità popolare, arcaica e sovversiva, diventa oggetto di manipolazione e oggetto di scarto. L’innocenza è irrecuperabile: ciò che appariva puro e vitale nel sottoproletariato romano o napoletano ora retrocede a figura di una potenzialità già segnata dalla futura degradazione. Non è un caso che il Pasolini maturo, in piena convergenza con alcune riflessioni foucaultiane, consideri la sessualità e il corpo come dispositivi in cui il potere investe direttamente, ridefinendo normalità, devianza, potenzialità politica di ogni atto erotico.
Se prima l’omosessualità o il dionisismo corporeo erano vissuti dall’autore come “controtipo pericoloso per la riproduzione dei modelli ideologici familiari”, ora assistiamo a una omologazione radicale dei corpi, che annienta ogni differenza e fa della forma esteriore il vettore della sottomissione.
Aspetto centrale dell’«Abiura» è la critica alle componenti progressiste della società, accusate di non aver compreso come la “lotta per il progresso, la liberalizzazione, la tolleranza, il collettivismo,” sia stata «vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza».
“I miei critici (…) avevano dei cretini ‘doveri’ (…) la lotta per il progresso, il miglioramento, la liberalizzazione, la tolleranza, il collettivismo, ecc. Non si sono accorti che la degenerazione è avvenuta proprio attraverso una falsificazione dei loro valori. Ed ora essi hanno l’aria di essere soddisfatti! Di trovare che la società italiana è indubbiamente migliorata, cioè è divenuta più democratica, più tollerante, più moderna ecc.”
Pasolini accusa la Sinistra – e in particolare il PCI – di essersi lasciata trascinare da una narrazione del progresso coincidente con la crescita economica, lo sviluppo tecnocratico, la laicità anodina, dimenticando la funzione del legame popolare e l’esistenza di un livello subalterno irriducibile a semplici statistiche di benessere o di diritti civili. La liberalizzazione e la conquista dei nuovi diritti finiscono, nella sua prospettiva, per essere il volano stesso dell’omologazione, promuovendo una democratizzazione che coincide con la borghesizzazione delle esperienze e degli stili di vita, senza emancipazione reale.
Uno dei passaggi più dolorosi dell’«Abiura» è la diagnosi sulla condizione della gioventù italiana, che da potenziale portatrice di energia vitale e oppositiva diviene protagonista della più ferrea omologazione. I giovani, travolti dalla nuova società dei consumi, dalla televisione, dalla scuola d’obbligo, sono “infelici, chiusi, stupidamente presuntuosi e aggressivi”, svuotati da una liberalizzazione sessuale che non dà felicità ma opprime con nuovi modelli di nevrosi, razzismo di seconda mano, miseria interiore.
“Non si accorgono che la televisione, e forse ancora peggio la scuola d’obbligo, hanno degradato tutti i giovani e i ragazzi a schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie: ma considerano ciò una spiacevole congiuntura, che certamente si risolverà – quasi che un mutamento antropologico fosse reversibile.”
L’accettazione dell’adattamento è la diagnosi estrema della condizione contemporanea: “L’Italia non sta vivendo altro che un processo di adattamento alla propria degradazione. (…) Tutti si sono adattati o attraverso il non voler accorgersi di niente o attraverso la più inerte sdrammatizzazione”.
L’«Abiura» pasoliniana va intesa come un gesto di lacerazione non solo nei confronti della propria opera, ma nei confronti di una stagione storica e di una visione positiva dell’umano. Laddove nella prima fase della sua produzione l’autore ricercava nella marginalità, nella vitalità popolare, nella corporeità, la radice di una forza oppositiva, con la «Trilogia della vita» aveva inteso rappresentare la “realtà preservata del corpo” come ultimo baluardo contro la dissoluzione prodotta dai mass media e dal capitalismo. Ora, in una presa d’atto che può essere letta alla luce della “dialettica negatività/sogno”, dell’estetica della disfatta e della catastrofe, si assiste a una ritrattazione che investe tutto il percorso precedente:
“Ora tutto si è rovesciato (...) il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine”.
Sul piano della poetica, questa abiura è anche una riflessione meta-artistica: Pasolini si interroga sul senso dell’opera d’arte in un’epoca in cui ogni alterità è immediatamente assorbita e neutralizzata dal potere. Infilare il proprio lavoro nella storia significa accettare che la sua funzione di scandalo, opposizione, provocazione, sia solo uno degli ingranaggi del meccanismo totale del consumo.
Il percorso teorico e poetico tracciato nell’«Abiura» trova il suo compimento estremo – e visivamente sconvolgente – in 'Salò o le 120 giornate di Sodoma', film concluso nell’estate del 1975 e uscito postumo, dopo la morte del regista. Il film è l’antitesi definitiva della Trilogia della vita: là dove i corpi erano offerta e resistenza, qui sono tortura e oggetto di annichilimento.
Pasolini sposta il romanzo di de Sade durante la Repubblica di Salò, scegliendo la stagione fascista come “metafora del nuovo fascismo prodotto dal neocapitalismo”. I quattro Signori che guidano le sevizie sui giovani prigionieri impersonano le forme del potere contemporaneo: nobiliare, ecclesiastico, politico, economico. Il corpo umano diventa il luogo della riduzione a cosa: non più strumento di resistenza ma puro oggetto della volontà arbitraria del potere.
In 'Salò', la sessualità non è più gioiosa, liberante, oppositiva: si trasforma in un orribile obbligo di massa, imposto da una forza invisibile, a cui tutti si adeguano. La pornografia, come denuncia Pasolini, non ha più funzione eversiva; si dissolve ogni energia vitale ed è solo rappresentazione della legge del più forte, prodotto di una “perversa logica dei potenti”:
“Il reale senso del sesso nel mio film è quello di essere una metafora del rapporto del potere con chi gli è sottoposto: la riduzione del corpo umano a cosa, la mercificazione del corpo.”
La ricezione di 'Salò' fu sin dal principio attraversata da uno scandalo senza precedenti (sequestri, censura, processi per oscenità e corruzione di minori), ma le letture più profonde concordano nel cogliere il suo carattere paradigmatico: non si tratta di sadismo gratuito, ma di una parabola intellettuale ed etica sulla capacità del potere moderno di stritolare la vita, annientare l’alterità, programmare la distruzione dell’umano su scala industriale.
Classici interventi di Alberto Moravia, Serafino Murri, Mino Argentieri, Edoardo Bruno, Giovanni Buttafava e Tullio Kezich sottolineano come Pasolini, con questo film, abbia superato la sua stessa poetica precedente, producendo una riflessione metatestuale “al contempo fredda, poetica e funebre”, che non accetta la partecipazione sentimentale agli orrori, ma anzi li universalizza, rendendoli freccia appuntata contro lo spettatore.
L’opera funge, infine, da testamento e profezia: il “genocidio antropologico” rappresentato in Salò, secondo la celebre formula di Pasolini, è la rappresentazione di una sconfitta totale – della democrazia, della libertà, della comunione tra i corpi – più ancora che la denuncia di uno specifico sistema politico.
La critica letteraria ha letto l’«Abiura» come il punto di coagulo delle tesi pasoliniane sulla “mutazione antropologica” italiana: la perdita dell’innocenza, l’ascesa della cultura massmediatica e la disillusione nei confronti delle promesse della modernità. Non mancano accuse di reazionarismo e nostalgia, ma la cifra prevalente oggi è il riconoscimento della potenza profetica e dell’originalità metodologica dell’analisi pasoliniana.
Autori come Gian Maria Annovi, M. Belpoliti, M.A. Bazzocchi, Judith Butler, Leo Bersani e Italo Calvino hanno approfondito i nodi della corporeità, della sessualità e dell’adattamento alla degradazione nell’opera di Pasolini. In particolare, i dialoghi tra la sua visione e quella di Foucault, Sul potere come dispositivo di omologazione, e la lettura della società dei consumi come “nuovo fascismo” hanno profondamente influenzato gli studi postumi.
L’«Abiura dalla Trilogia della vita» resta uno degli apici più contraddittori e fecondi della riflessione intellettuale italiana del Novecento. La radicalità della diagnosi pasoliniana sulla mutazione antropologica del paese, l’incapacità di tutti i “guardiani morali” – siano essi progressisti o conservatori – di cogliere la profondità del cataclisma, la visione del potere nuovo come potere permissivo e omologante, sono – a distanza di cinquant’anni – motivi centrali nel dibattito sulle società di massa, la crisi delle democrazie liberali e la scomparsa di ogni singolarità residua.
Il confronto con 'Salò' e la rottura con la poetica precedente segnano, infine, non la rinuncia al compito della letteratura e del cinema, ma la necessità di adottare una nuova postura critica: meno “profetica”, più analitica e tragicamente consapevole degli esiti senza riscatto della storia. Pasolini paga con la sua stessa morte il prezzo di una lucidità che non trova paracadute nella consolazione ideologica o nel populismo delle nuove identità; con il suo sacrificio, lascia in eredità la domanda su come resistere, analizzare e raccontare, laddove ogni opposizione sembra essere già stata integrata, ogni vitalità già mercificata e ogni differenza ridotta a empty category.
Tra nostalgia e preveggenza, negatività e passione, la riflessione di Pasolini nell’«Abiura» – e la sua incarnazione visiva e metaforica in 'Salò' – rimane una pietra angolare per ogni tentativo di ripensare il rapporto tra cultura, corpo, politica e potere nel contemporaneo. Il suo monito – che la vera repressione non è più la coercizione, ma l’omologazione seduttiva – chiede, ancora oggi, di non smettere di interrogare la modernità: alla ricerca di tracce di resistenza, “sepolte” ma non del tutto cancellate, in ciò che resta dei corpi, delle parole e della storia.
Bruno Esposito
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