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lunedì 20 novembre 2023

Abrogare Pasolini? - Corriere della sera, 26 luglio 1974, pag. 2, rubrica tribuna aperta

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Abrogare Pasolini?

Corriere della sera

26 luglio 1974

pag. 2

rubrica tribuna aperta



Leggendo la risposta «ufficiale» di Maurizio Ferrara al mio intervento su Pannella, mi sono cascate le braccia. Dunque era vero. Tutta la polemica di Ferrara a nome del pci contro la mia persona, era fondata su niente altro che sull'estrapolazione di una frase dal mio testo («Corriere della sera», 10 giugno 1974), frase accepita letteralmente, e infantilmente semplificata. Tale frase è: «La vittoria del «no» è in realtà una sconfitta... Ma, in certo senso, anche di Berlinguer e del partito comunista.»

Ora, anche un bambino avrebbe capito la «relatività» di tale affermazione: e che mentre la parola «sconfitta», riferita alla DC e al Vaticano, suona nel suo pieno significato letterale e oggettivo, la stessa parola riferita al PCI, ha un significato infinitamente più sottile e composito. Anche un bambino avrebbe capito quanto c'è di paradossale nell'identificazione di due sconfitte in realtà così sostanzialmente differenti. Resta però il fatto che anche quella del PCI è comunque una «sconfitta», e questo non doveva essere detto. E se qualcuno lo avesse detto, non avrebbe dovuto venire in nessun modo ascoltato. Avrebbe dovuto - come dice Pannella - essere abrogato.
Chi avesse la necessità primaria di «abrogarmi» - cancellando da ogni possibile realtà, anche figurata, la parola «sconfitta» riferita al PCI (ingrata incombenza affidata appunto a Maurizio Ferrara) - era aprioristicamente negato a comprendere qualsiasi altra cosa io dicessi: perché, come sanno bene gli avvocati, bisogna screditare senza pietà tuta la persona del testimone per screditare la sua testimonianza.

Ecco spiegata l'incredibile incapacità di Maurizio Ferrara a capire i miei argomenti; incapacità non dunque dovuta a rozzezza, disinformazione, ristrettezza mentale, tutte ragioni a cui sarebbe spinto a pensare subito un lettore maligno o esasperato.

Al di fuori che sul famoso punto (la «sconfitta»), in cui Ferrara usa degli argomenti perfettamente giusti (la presenza imponente e decisiva del PCI ecc.) ma altrettanto inutili, appunto perché da me stesso ritenuti talmente giusti da non poter essere ribaditi senza offesa dell'intelligenza del lettore - tutto il resto che ho detto nei miei «pazzeschi» interventi ha subito nell'interpretazione di Ferrara una deformazione caricaturale, oltre che slealmente riduttiva. Siamo, per meglio dire, al linciaggio. Perché si lincia una persona quando si dice che egli definisce «volgari» otto o nove milioni di comunisti, laddove egli invece definisce «volgare» la politica ufficiale delle oligarchie dirigenti. Si lincia una persona quando gli si attribuisce l'affermazione che DC e PCI sono «uguali nel potere», riassumendo meschinamente un concetto ben più complicato e drammatico. Si lincia una persona quando gli si attribuisce la affermazione che «Fumagalli ha diritto di accesso alla tv», laddove tale affermazione (ma non concernente l'accesso alla tv», bensì, in senso infinitamente più liberale, i «diritti civili») è contenuta nel discorso - da me riportato - di un altro (nella fattispecie Pannella, che, tuttavia, ne parlava paradossalmente, in linea di principio). Si lincia una persona quando si prende un suo concetto, lo si riduce come fa comodo, e lo si rende delatoriamente facile bersaglio del disprezzo o dell'ilarità pubblica: cosa che fa Ferrara a proposito delle mie idee, certo non nuove, ma certo drammatiche, su ciò che sono oggi fascismo e antifascismo, confrontati con la massiccia, impenetrabile, immensa ideologia consumistica, che è l'«inconscia ma reale» ideologia delle masse, anche se i valori ne sono vissuti ancora solo esistenzialmente.

Ma qui forse Ferrara non ha capito, proprio in senso mentale, il problema. Come non ha capito il senso dei miei discorsi sull'«acculturazione omologante» (di cui io parlavo riferendomi esclusivamente ai giovani, e alle culture «particolari e reali» del paese). Cose queste, che se non si capiscono, sembrano stupidaggini. Così che io devo sentirmi prendere in giro a causa di idee nate esclusivamente nella testa di chi mi prende in giro (da uomo di potere - questa è la cosa grave -, da persona che rappresenta otto o nove milioni di elettori).

Quello che io invece vorrei sapere da Maurizio Ferrara, senza riserve mentali e senza cattiverie polemiche, è perché i comunisti «ritengono sbagliata» - come laconicamente annuncia Ferrara, quasi si trattasse della opinione del Papa - la richiesta degli otto referendum.

Tutto ciò che ho detto sulla ideologia «inconscia e reale» dell'edonismo consumistico coi suoi effetti di livellamento di tutte le masse nel comportamento e nel linguaggio fisico - per cui le scelte politiche della coscienza non corrispondono più con le scelte esistenziali -, tutto ciò che ho detto sulla violenta, repressiva, terrificante acculturazione dei centri del potere e la conseguente scomparsa delle vecchie culture particolari e reali (coi loro valori) - era già stato detto, e per di più (cosa definitivamente rassicurante) anche «denominato»? Si sono fatti, anzi, su questi problemi dei convegni internazionali di sociologi? E' quanto mi oppone gentilmente Ferrarotti («Paese Sera», 15 luglio 1974) per ridurmi a sua volta al silenzio e all'inesistenza. Ma proprio i nomi, proprio i nomi che tanto, e tanto piacevolmente, sembrano esaustivi a Ferrarotti, proprio i nomi (melting pot!), e proprio i luoghi internazionali dove tali nomi vengono fatti, dimostrano che il problema «italiano» non è stato neanche lontanamente affrontato. Ed è quello che io affronto. Perché lo vivo. E non gioco su due tavoli (quello della vita e quello della sociologia) perché altrimenti la mia ignoranza sociologica non avrebbe quel «candore accattivante» di cui parla Ferrarotti stesso.

Ebbene ritengo di poter ragionevolmente sostenere che il problema italiano non ha problemi equivalenti nel resto del mondo capitalistico. Nessun paese ha posseduto come il nostro una tale quantità di culture «particolari e reali», una tale quantità di «piccole patrie», una tale quantità di mondi dialettali: nessun paese, dico, in cui si sia poi avuto un così travolgente «sviluppo».

Negli altri grandi paesi c'erano già state in precedenza imponenti «acculturazioni»: a cui l'ultima e definitiva, quella del consumo, si sovrappone con una certa logica. Anche gli Stati Uniti sono culturalmente enormemente compositi (sottoproletariati venuti a concentrarsi caoticamente da tutto il mondo), ma in senso verticale, e, come dire, molecolare: non in senso così perfettamente geopolitico come in Italia. Quindi del problema italiano non se ne è mai parlato.

O, se lo si è fatto, non lo si è saputo. Il felice nominalismo dei sociologi pare esaurirsi dentro la loro cerchia. Io vivo nelle cose, e invento come posso il modo di nominarle. Certo se io cerco di «descrivere» l'aspetto terribile di un'intera nuova generazione, che ha subito tutti gli squilibri dovuti a uno sviluppo stupido e atroce, e cerco di «descriverlo» in «questo» giovane, in «questo» operaio, non sono capito: perché al sociologo e al politico di professione non importa personalmente nulla di «questo» giovane, di «questo» operaio. Invece a me personalmente è la sola cosa che importa.

Anche qualche giovane «estremista» di sinistra ha capito male le mie parole (ho ricevuto delle lettere, peraltro molto care, da Milano, da Bergamo). Ma sia ben chiaro. Io ho condannato l'identificazione degli opposti estremismi fin dal 13-14 dicembre 1969. E, facendo il nome di Saragat, inauguratore ufficiale di tale identificazione, ho reso la mia condanna anche abbastanza solenne (nella poesia Patmos, scritta appunto il giorno dopo la strage di Milano e pubblicata su «Nuovi argomenti», n. 16 dell'ottobre-dicembre 1969). Non sono gli antifascisti e i fascisti estremisti che si identificano. D'altronde le poche migliaia di giovani estremisti fascisti sono in realtà forze statali: l'ho detto più volte, e ben chiaramente.

Il più sgradevole degli interventi che hanno portato confusione, frantumandola, in una discussione che poteva essere utile a tutti, è quello di Giorgio Bocca. Il mio amico ha fatto, anche lui, prima di tutto, delle illazioni personali, ricostruendo a suo piacimento, avvocatescamente, un episodio della mia biografia. Se una folla di studenti, com'egli dice in un inesatto e quindi sleale rendiconto, mi ha aggredito nel 1968, egli allora avrebbe dovuto subito prendere la penna in mano e difendermi impavidamente, visto che proprio lui in quel periodo aveva scritto, a proposito degli intellettuali italiani, che io «ero il migliore di tutti»! Come ha facilmente cambiato idea, il nostro amico! Gli è bastato che l'indice di popolarità, a quanto pare, mi si fosse messo contro. La logica di Bocca è peraltro fondata su un buon senso pragmatico molto sospetto. Risulta che mentre io chiacchiero, lui si rimbocca le maniche e lavora. Con una rozzezza che in Ferrara è comprensibile o spiegabile, ma in lui no, per nessuna ragione, Bocca ha preso alla lettera - forse attraverso un semplificatissimo referto orale di qualche collega (perché non mi pare possibile che egli mi abbia letto) - l'identificazione tra fascisti e antifascisti (nel senso che ho detto sopra), e la qualificazione di fascista attribuita al nuovo potere nominalmente antifascista. Bocca ha ridotto questi concetti a bersaglio blasfemo, ed è partito anche lui al linciaggio. Io dunque strido come aquila solitaria e lui intanto umile e indefesso lavora. Lavora, attualmente, a un «servizio» sul fascismo: «servizio» che io ho definito un compitino sbagliato e noioso. Ora aggiungo, sbagliato, noioso e anche copiato. Infatti nello stesso numero del «Giorno» (7-7-1974) in cui egli mi attacca, c'è la seconda puntata di tale «servizio» di cui una gran parte è letteralmente copiata da Valpreda più quattro a cura di «Magistratura democratica», con presentazione di Giuseppe Branca (edit. Nuova Italia), naturalmente non citato.

Ogni zelo nasconde sempre qualcosa di poco bello: anche lo zelo antifascista.

Se Ferrara e Bocca hanno capito «male» ciò che ho scritto -riducendolo attraverso un'orrenda semplificazione - Prezzolini ha capito esattamente il contrario. Lo scandalo di Pannella consiste nel lottare in nome di tutte le minoranze, non solo Dom Franzoni, ma anche maomettani, buddisti, magari fascisti e magari gli stessi avversari del momento (compreso Prezzolini). Dunque Prezzolini sfida con bassa ironia Pannella a fare qualcosa che infatti Pannella fa, in base a un principio supremamente formale di democrazia che Prezzolini non è in grado di capire. Come non ha capito che il paese dove ha vissuto per trentadue anni non è il regno della democrazia, ma del pragmatismo. E' in nome di tale pragmatismo, che Prezzolini (con mia grande soddisfazione: è una nemesi) tiene bordone a Bocca.

Ultimo (per ora) il repubblicano Adolfo Battaglia, che mi dà del «buffone», solo perché sono un intellettuale-letterato. Non so se la cosa sia di derivazione scelbiana («culturame») o sociologica (Schumpeter, Kernhauser, Mannheim, Hoffer, von Mises, De Juvenel, Shils, Veblen ecc.): è da supporsi tuttavia che si tratti del solito moralismo all'italiana, grazie al quale automaticamente il «buffone» diviene «capro espiatorio», ristabilendosi così (oh, certo involontariamente) la verità.

Mi scuso con il lettore per averlo trascinato in questo labirinto di «coscienze infelici», in questa frantumazione di un discorso che poteva essere pieno e civile.

Pier Paolo Pasolini


Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog

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