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sabato 8 novembre 2025

Pier Paolo Pasolini, Versi dal testamento - da Trasumanar e organizzar (1971) - Con commento

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Carlo Bavagnoli
Pier Paolo Pasolini sullo sfondo dei palazzi della borgata, 1960 ca.
© Collezioni d’Arte
Fondazione Cariparma – Donazione Carlo Bavagnoli


Pier Paolo Pasolini
Versi del testamento

da Trasumanar e organizzar

(1971)


(Prima i versi e a seguire un breve commento)


   La solitudine: bisogna essere molto forti

   per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe

   e una resistenza fuori del comune; non si deve rischiare

   raffreddore, influenza o mal di gola; non si devono temere

   rapinatori o assassini; se tocca camminare

   per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera

   bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;

   specie d’inverno; col vento che tira sull’erba bagnata,

   e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;

   non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,

   oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte

   senza doveri o limiti di qualsiasi genere.

   Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri

   – e anche d’inverno, per le strade abbandonate al vento,

   tra le distese d’immondizia contro i palazzi lontani,

   essi sono molti – non sono che momenti della solitudine;

   più caldo e vivo è il corpo gentile

   che unge di seme e se ne va,

   più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;

   è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso,

   non il sorriso innocente o la torbida prepotenza

   di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza

   enormemente giovane; e in questo è disumano,

   perché non lascia tracce, o meglio, lascia una sola traccia

   che è sempre la stessa in tutte le stagioni.

   Un ragazzo ai suoi primi amori

   altro non è che la fecondità del mondo.

   È il mondo che così arriva con lui; appare e scompare,

   come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose,

   e tu potrai percorrere mezza città, non lo ritroverai più;

   l’atto è compiuto, la sua ripetizione è un rito. Dunque

   la solitudine è ancora più grande se una folla intera

   attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni –

   l’andarsene è fuggire – e il seguente incombe sul presente

   come un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia di morte.

   Invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire,

   specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,

   e per te non è mutato niente; allora per un soffio non urli o piangi;

   e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo stanchezza,

   e forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe dire

   che il tuo desiderio di solitudine non potrebbe esser più soddisfatto,

   e allora cosa ti aspetta, se ciò che non è considerato solitudine

   è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?

   Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,

   che valga una camminata senza fine per le strade povere,

   dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.

Pier Paolo Pasolini


Commento

La poesia "Versi del testamento" di Pier Paolo Pasolini, inserita nella raccolta Trasumanar e organizzar (1971), rappresenta una testimonianza emblematica della fase più matura della produzione poetica pasoliniana, in cui confluiscono tensioni politiche, esistenziali e formali. 

Tra il 1968 e il 1971 Pasolini attraversa forse il periodo più difficile e determinante della sua vita: ostracismo pubblico, ripetute denunce e processi per motivi legati alla sua omosessualità, opera di isolamento e ostilità anche a sinistra, chiusura e crisi sul piano affettivo. Nel 1971 Pasolini si trova reduce da numerose persecuzioni giudiziarie,  è in polemica col PCI ma sempre impegnato su tutti i fronti del dibattito pubblico e letterario. In questo periodo la vena poetica, già ampiamente maturata con Le ceneri di Gramsci, Poesia in forma di rosa e La religione del mio tempo, abbandona i residui di classicismo (anche nella forma) e si dispiega in una 'prosa poetica' libera, aspramente polemica, radicalmente critica verso la società italiana contemporanea.

La poetica di Pasolini, soprattutto dagli anni Sessanta, si pone in aperta antitesi rispetto sia all’ermetismo che al neorealismo. Attraverso la riattivazione di moduli lirici pre-novecenteschi e l’adozione di una lingua profondamente legata all’esperienza quotidiana e urbana, Pasolini mira a una 'poesia della polemica ideologica e personale', una poesia civile, oggettiva ma profondamente partecipata. Trasumanar e organizzar è la testimonianza di questa tensione tra storicizzazione brutale del presente e ricerca di un senso universale e metafisico, di una spiritualità senza trascendenza.

Per la sua funzione programmatica e la densità di riflessione esistenziale, "Versi del testamento" è una piccola summa della poetica e del pensiero pasoliniano tardo. Al suo interno si intrecciano vari temi: la solitudine, il desiderio e la sessualità, la corporeità, la città e i suoi spazi, la dimensione del rito e dell’incontro.

La poesia si apre con una sorta di massima esistenziale, che affonda le sue radici nell’esperienza vissuta, ma che diventa programma e paradigma dell’essere di Pasolini. La solitudine è presentata non come condizione negativa, ma come compagna necessaria – un’energia da domare, uno stato che richiede “resistenza fuori dal comune”. Non è una scelta d’élite, ma un bisogno vitale, un lusso “senza doveri o limiti di qualsiasi genere”. Tuttavia la solitudine di Pasolini assume una doppia valenza: essa è insieme scelta e condanna. È la forza di chi “non deve temere rapinatori o assassini”, di chi si espone e si mette in gioco, camminando “per mezza città” senza una meta, senza appigli, fraternizzando con la marginalità umana e canina. Al tempo stesso è lo spazio interiore nel quale il poeta si misura con la propria esclusione (sociale e psichica), con la consapevolezza della propria diversità, con il progressivo svuotarsi delle energie ("invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire"). La solitudine pasoliniana non è quella degli eremiti o degli aristocratici dello spirito; è una solitudine corporale e urbana, esperita nelle strade fredde e sporche delle periferie romane, ma anche in presenza di altri (“una folla intera attende il suo turno”). In questo senso, la “solitudine piena” di cui parla Pasolini si configura come una metafora della condizione umana moderna – tra i sibili del vento e sotto il peso di una stanchezza che è fame di senso.

Il secondo tema, quello del desiderio, emerge con l’irruenza tipica di tutta l’opera pasoliniana. A differenza delle rappresentazioni convenzionali, il sesso qui non è risposta al bisogno, né compimento di un legame: “il sesso è un pretesto”, e gli incontri – anche se numerosi – “sono solo momenti della solitudine”. Si avverte l’ambivalenza e la tragicità della corporeità erotica: ogni amplesso, tanto più “caldo e vivo”, tanto più lascia dietro di sé il deserto, la morte, l’assenza. Il piacere fisico è la traccia fuggevole e disumana di qualcosa che non può trattenersi, non lascia segni, lascia solo la “sempre la stessa traccia in tutte le stagioni”. Pasolini riconosce nella ricerca intensa e ripetuta del piacere sensuale il segno di un desiderio infinito e inappagato, che diventa rito, coazione, ripetizione. Il desiderio qui sembra coincidere con la tensione verso l’innocenza e la giovinezza sempre in fuga (“egli si porta dietro una giovinezza enormemente giovane; e in questo è disumano”), ma questa tensione si ripete sino allo stremo: “la sua ripetizione è un rito” - è l'unica forma di sacro rimasta a un'umanità che ha perso altri riti.

Il corpo, in questa prospettiva, è uno strumento di esperienza, di contatto, ma anche di perdita e di abbandono. Il corpo "ungente di seme", ma subito portato via dalla “torbida prepotenza di chi poi se ne va”, veicola la contraddizione tra vicinanza e distanza, dono e assenza, energia vitale e fredda morte del "diletto deserto". Pasolini, in linea con alcune suggestioni della filosofia biblica sulla corporeità come luogo integrale dell'umano, rappresenta la fisicità nella sua dimensione più aspra, concreta e insieme sacrale. Il bisogno fisico e il piacere non vengono censurati né demonizzati: sono manifestazioni di una necessità primordiale, quasi animale, che collega l’uomo ai cani fratelli di strada nella notte. Allo stesso tempo, però, la corporeità non soddisfa il desiderio ultimo di pienezza e comunione; anzi, evidenzia la solitudine radicale dell’essere umano, incapace di superare il proprio limite, proiettato in una ricerca incessante che ritorna sempre su sé stessa.

L’ambientazione della poesia è chiaramente urbana, anzi, periferica: i “pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi”, il "vento che tira sull’erba bagnata", le “strade abbandonate al vento” costituiscono non solo il luogo materiale dell’azione, ma anche il correlativo obiettivo dello stato d’animo dell’io poetante. Roma e le sue borgate sono non tanto sfondo quanto universo morale ed esistenziale, laboratorio di una “vita vera” che la città dei ricchi non conosce. La città, per Pasolini, diventa mito personale e universale, luogo della miseria e della marginalità, ma anche spazio di resistenza e di sopravvivenza. "Non c’è proprio nessun conforto", dice il poeta, tranne la libertà di “avere davanti tutto un giorno e una notte senza doveri o limiti di qualsiasi genere”. Persino la possibilità di “camminare senza fine per le strade povere” è vissuta come momento di grazia, di conquista, superiore a qualsiasi soddisfazione borghese: “Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo, che valga una camminata senza fine per le strade povere dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani”.

Versi del testamento appartiene a quella stagione della poesia pasoliniana in cui “ogni assetto metrico viene stravolto da una assoluta libertà strutturale”. Il testo si presenta come una lunga prosa poetica, priva di punteggiatura forte, inframezzata solo da pochi segni ortografici che suggeriscono pause e sospensioni. Questa scelta stilistica corrisponde a una precisa idea di poesia come atto di resistenza all’organizzazione formale, come getto discorsivo e confessionale senza retorica o mediazioni. La versificazione, dunque, è libera, sciolta, priva di schemi canonici: i periodi si allungano, si frammentano, si infrangono attraverso l’enjambement e la paratassi. Il ritmo, spezzato e discontinuo, accentua il senso di smarrimento, la fatica del cammino, l’assenza di centri di gravità.

La sintassi è paratattica: brevi sequenze coordinate, spesso enumerate, senza nessi logici evidenti. L’andamento è discorsivo, insieme colloquiale e filosofico, con frequenti anafore (“bisogna essere molto forti… bisogna avere buone gambe… bisogna saperlo fare…”), che conferiscono al testo un tono sentenzioso e oracolare. L’io poetante si rivolge genericamente a un tu, forse se stesso, forse il lettore, in una dimensione di umana universalità. Il lessico alterna registri elevati (si veda “diletto deserto”, “fecondità del mondo”) a espressioni fortemente concrete e popolari (“pietroni”, “immondizia”, “ungere di seme”): la dissoluzione delle barriere fra lirico e prosaico, nobile e triviale, è una delle cifre del Pasolini maturo.

Il testo è disseminato di immagini ad altissimo valore simbolico, che denotano e connotano le condizioni psicologiche, sociali e quasi archetipiche dell’io poetico. La ricorrenza del vento (“col vento che tira sull’erba bagnata… sulle pietre tra l’immondizia…”) ha un duplice valore: da una parte rappresenta la difficoltà fisica delle lunghe camminate nelle borgate fredde, d’inverno; dall’altra è metafora della prova morale, della solitudine, ma anche della gioia “come un vento miracoloso” che invade l’io nei momenti rari della vita. L’immondizia è uno degli oggetti/simboli. Essa diventa emblema del degrado non solo delle borgate, ma dell’intera Italia neo-capitalista. Si tratta di un simbolo doppio: da un lato denuncia dell’abbiezione sociale e della modernità sotto forma di rifiuto; dall’altro luogo di verità, autenticità, rifiuto della patina borghese, realtà in cui il poeta cerca ancora “la fecondità del mondo”, cioè la vita vera, anche se mescolata al fango. L’immagine dei “fratelli dei cani” chiude la poesia in un movimento di empatia con il più derelitto degli animali, il randagio. Il cane è simbolo di sopravvivenza, di fedeltà nella miseria, di forza disperata: è un compagno autentico per chi cammina ai margini della società – emblema dell’umiltà come dignità, antifrasi ai valori borghesi e “umani” della soddisfazione materiale.

Uno degli aspetti più moderni della poesia di Pasolini è la capacità di partire da sé, dal proprio vissuto irripetibile e scandaloso, per arrivare a una riflessione universale: nascendo come “diario”, la sua poesia si fa “poesia civile”, coinvolgendo l’intero corpo sociale. Nei "Versi del testamento" si fondono in modo compatto da un lato le precise esperienze biografiche (le camminate nelle periferie, gli amori giornalieri, la stanchezza della maturità, il senso di esclusione) e, dall’altro, la domanda “cosa ti aspetta, se ciò che non è considerato solitudine è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?” che rimanda a una condizione esistenziale universale, la crisi del soggetto moderno, la sazietà impossibile, la categorie della perdita e della mancanza. Questa tensione tra biografia e universalità si risolve nel ruolo pedagogico e 'profetico' che Pasolini attribuisce alla poesia: testimonianza, esemplarità, esortazione (“bisogna essere...”, “non c'è...”) e, insieme, tragico riconoscimento dei limiti dell’uomo e dell’eros (il sesso come pretesto, l’amore come rito inappagante, la solitudine come destino).

Nella poetica pasoliniana i “Versi del testamento” rappresentano il tentativo estremo di “dire tutto”, senza mediazioni, senza alcun compiacimento estetico, con dolorosa verità. È un testamento non solo esistenziale, ma anche civile, persino polemico: la strada, il corpo, il disagio, la marginalità diventano argomenti di pedagogia per il lettore. “Bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.” La poesia si fa allora discorso pubblico, perché ciò che vale per l’io poetante diventa parabola per tutti: nella crisi del neopositivismo, della rivoluzione tradita, della cultura ridotta a consumo, solo la capacità di stare “dalla parte del desiderio”, dalla parte dell’indecenza e della verità scomoda, segnala una via etica di resistenza.

I "Versi del testamento" sono una delle più alte e travagliate confessioni della poesia pasoliniana: attraversando la solitudine, il desiderio, la città, il corpo e la ripetizione del rito, Pasolini costruisce un testamento che è insieme privato e universale, singolare e paradigmatico. Lo fa con uno stile che rompe gli schemi della lirica tradizionale, dissolvendo la metrica e la sintassi, disarticolando le convenzioni letterarie per lasciare spazio a una parola necessaria, cruda, apodittica. Questa poesia diventa una sorta di manifesto della 'resistenza' morale e linguistica nel tempo dell’omologazione; una poesia che scommette tutto sulla verità e sull’autenticità dell’esperienza, che invita a “essere forti, disgraziati e fratelli dei cani”, denunciare la falsità degli idoli, abbandonare le illusioni della comunità borghese, e attraversare fino in fondo il deserto del reale.

Bruno Esposito


Curatore, Bruno Esposito

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