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lunedì 22 aprile 2013

Il Teorema Pasolini secondo Grzegorz Jarzyna

"Le pagine corsare " 
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Eretico e Corsaro


Il Teorema Pasolini secondo Grzegorz Jarzyna

Tra i drammi scritti nel 1965 da Pier Paolo Pasolini c’era anche un primo abbozzo di Teorema, che sarebbe stato pubblicato tre anni dopo in forma di romanzo (con inserti di poesia), pochi mesi prima dell’uscita in sala dell’omonimo film. La storia di un giovane e affascinante sconosciuto che, ospite di una rispettabile famiglia milanese, finisce per diventare l’anomalia incontrollata in grado di frantumare in mille pezzi un intero mondo di ipocrisie borghesi fece scandalo. Il ragazzo seduce sistematicamente tutti gli abitanti della casa: domestica, madre, figlia, figlio e addirittura lo stesso pater familias Paolo, industriale meneghino che – come in altre opere pasoliniane – compone il simbolo della società dei consumi e dell’apparenza.
Dopo più di 40 anni ci capita di assistere a una riduzione teatrale firmata nel 2009 da Grzegorz Jarzyna, probabilmente il maggiore regista polacco attualmente in attività. Classe 1968, direttore dell’innovativo teatro TR Warsawa dal ’98, le sue messinscene sono state ospitate, applaudite e premiate in tutto il mondo. A giudicare dallo stile molto netto e pulito della recitazione, coadiuvata da radiomicrofoni e che dunque restituisce una qualità acustica quasi radiofonica, Jarzyna sembra avere ben presente il film. Tuttavia la parola cede volentieri il passo alla scena e alle luci riempiendo la profondità del palco con corpi e ambienti, lasciando loro lo spazio per creare un dialogo muto, fatto di movimenti ampi, sapiente gioco sulla prossemica e attenta conquista dello spazio.
Visivamente impeccabile, lo spettacolo procede per quadri: la messa in scena meticolosa di ogni piccolo dettaglio come la scelta dell’arredamento – sfacciatamente in stile Italia anni Sessanta -, gli oggetti posizionati in scena, la partitura musicale e sonora, i passi calcolati dagli attori per raccogliere le luci, tutto ricostruisce alla perfezione la vuota routine borghese fatta di lunghi minuti di rituale trucco e parrucco di fronte allo specchio, ripetizione insensata di gesti e una glacialità di rapporti che mette i brividi. L’arrivo dell’ospite, chiamato semplicemente “ragazzo”, una figura segaligna con il fascino trasandato dello zingaro, spezza la corda di queste insopportabili piattezza e superficialità, ben rese dalla regia tramite la ripetizione di scene identiche se non per qualche minuscolo spostamento dei mobili e cambi scena che, nella penombra, lasciano intravedere gli attori impegnati in frenetici movimenti di insofferenza.
Da qui pare riaffiorare una memoria del romanzo ancora più viva di quella del film, grazie alla scelta di far evolvere la storia senza reali colpi di scena, ma lasciando piuttosto allo spettatore tempo e modo di osservare, in una vertigine pornograficamente voyeuristica ed estremamente letteraria, il verificarsi degli effetti.
La sistematica distruzione delle certezze borghesi avviene con lo stesso ritmo dilatato con cui esse ci erano state presentate; il ragazzo agisce quasi completamente in silenzio, muovendo da una seduzione all’altra con un passo viscido simile a quello degli insetti necrofagi nei documentari naturalistici. Mentre nella prosa il ragazzo riparte all’improvviso, misteriosamente come era apparso, qui è il capofamiglia Paolo ad allontanarlo, in una scena che, tentando di recuperare lo slancio poetico del romanzo, esplode in una catarsi verbale tuttavia sopra le righe. Più efficace è - ancora una volta – la freddamente schematica carrellata sulle reazioni della famiglia, orchestrate in una pantomima: la domestica che se ne torna in campagna finendo i suoi giorni su una panchina in stato catatonico, il figlio che sfoga la rabbia nella pittura astratta, la figlia internata in manicomio, la madre che si concede violentemente alla fame sessuale di una schiera di ragazzi di strada e infine Paolo, che si denuda nel mezzo della stazione centrale.
Il personaggio di Angiolino (che fu di Ninetto Davoli, attore-feticcio di Pasolini) funge qui come agente estraneo, figura liminale e termometro dell’intera metafora; a lui è affidato l’epilogo che narra, come un delirio, il viaggio di Paolo in un deserto arso e arido. In questa ultima tirata raccoglie le forze l’intero intento allegorico della storia, evocata da Jarzyna con grande sapienza tecnica e stilistica e tuttavia forse troppo autocompiaciuta. Come se, pur date per buone certe strizzate d’occhio al gusto estetizzante proprio di Pasolini stesso, mancasse quel calore necessario a far detonare la metafora nei cristalli di urgenza di un messaggio morale.
Sergio Lo Gatto

Fonte:
http://www.teatroecritica.net/2012/03/il-teorema-pasolini-secondo-grzegorz-jarzyna/



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Teorema e la classe borghese - Pier Paolo Pasolini

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Teorema e la classe borghese - Pasolini -

Teorema, infine, delinea la radiografia singolare e impietosa di una classe borghese incapace di reggere lo scontro con le rivoluzionarie e trasgressive tematiche dell’erotismo, visto in chiave contestataria, ed elevato a segno distintivo del cambiamento sociale. Milano, primavera del ‘68. Una famiglia borghese riceve Angelo, ospite inatteso. Il suo arrivo condizionerà progressivamente la vita dei cinque componenti – marito, moglie, un figlio maschio, una figlia femmina e la serva – avvolti dal grigiore esistenziale del loro sopravvivere. Angelo avrà rapporti sessuali con ognuno di loro e un giorno se ne andrà, lasciando un vuoto non più colmabile che sfocerà in un progressivo atto d’auto-annientamento degli stessi. Per Teorema, presentato alla Mostra di Venezia nel 1968, piovvero su Pasolini critiche feroci sia da parte della sinistra, che sostenne che si trattava di un film reazionario, oltre ad accusare Pasolini di misticismo, sia dalla destra, che proclamò il suo disgusto per il modo in cui nel film si affrontava il tema della sessualità. La verità era che né la destra né la sinistra compresero allora, neppure marginalmente, gli intenti dell’autore: rappresentare la totale e irrimediabile perdita di identità della borghesia nel momento in cui essa si avvia – dopo essere entrata in contatto con un "Altro", del tutto estraneo alle certezze prefabbricate, indelebili e indistruttibili dalla "ragione dominante" – a una presa di coscienza che non può che svelare drammaticamente il "vuoto", l’impotenza, la "non esistenza" che costituiscono l’essenza stessa della borghesia. Una perdita d’identità, d’altronde, che non offre alla borghesia alcun motivo di riscatto, ma che le crea intorno soltanto il "deserto", il nulla. "Lo sforzo espressivo di Pasolini è tutt’altro che irrazionalista, tutt’altro che reazionario o mistico", scrive il sopracitato critico Serafino Murri. "Infatti, va a toccare le basi concettuali di una cultura che del proprio mezzo, la ragione illuministica, aveva fatto la gabbia in cui imbalsamare definitivamente, con tutto il carico di ingiustizia presente, la società nei suoi schemi irremovibili, nei suoi antagonismi tutti interni ad essa." Teorema era nato come tragedia in versi, si era trasformato poi in un libro (romanzo / racconto) molto frammentario che mantiene alcuni capitoli, o meglio "frammenti" in versi, per raggiungere infine la forma della sceneggiatura cinematografica nella quale Pasolini riduce drasticamente la presenza del "parlato", cioè dei dialoghi o della narrazione per mezzo di una voce fuori campo, riservando principalmente alle immagini, e secondariamente alla musica – qui incentrata su citazioni dal Requiem di Mozart – la narrazione degli eventi e delle mutazioni dei propri personaggi. L’Ospite che giunge nella villa della famiglia borghese, e che determina in ciascuno dei componenti di quella famiglia una crisi profonda, una totale perdita di identità, appunto, non ha qualità sovrumane, tanto meno rappresenta un’allegoria divina come qualche commentatore ha voluto intravvedere. È semplicemente il suo essere "Altro" rispetto alla logica borghese su cui si fonda il teorema dell’autoperpetuazione della borghesia stessa, che conduce alla perdita di identità tutti i membri della suddetta famiglia, e all’irrecuperabile "deserto" che ne consegue. Secondo lo stesso Pasolini, è proprio nel sovvertimento della logica che sorregge l’ideologia (o la totale assenza di ideologia) della società borghese capitalistica che consiste l’unica possibilità di una rivoluzione. Pasolini stesso presentò Teorema sulla rivista francese "Quinzaine littéraire" dicendo del suo film tra l'altro: "Dio è lo scandalo. Il Cristo, se tornasse, sarebbe lo scandalo; lo è stato ai suoi tempi e lo sarebbe oggi. Il mio sconosciuto – interpretato da Terence Stamp, esplicitato dalla presenza della sua bellezza – non è Gesù inserito in un contesto attuale, non è neppure Eros identificato con Gesù; è il messaggero del Dio impietoso, di Jehovah che attraverso un segno concreto, una presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. È il Dio che distrugge la buona coscienza, acquisita a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi". Teorema (il libro) è stato per me il 'primo incontro' con Pasolini scrittore e poeta: un incontro che ha rappresentato una vera e propria 'scossa' spirituale; un messaggio che ancora oggi considero prezioso, se non fondante, per prendere coscienza dei problemi e degli squilibri sociali e politici, che può fortemente aiutare a scoprire regioni e ragioni inesplorate dell’animo e del pensiero umano.

di Gherardo Fabretti
Fonte:
http://www.tesionline.it/v2/appunto-sub.jsp?p=78&id=579
 
http://www.tesionline.it/v2/appunto-sub.jsp?p=78&id=579




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Teorema (Pier Paolo Pasolini, 1968) - il film

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Teorema (Pier Paolo Pasolini, 1968) - il film

Teorema è un film sulla crisi della borghesia italiana della fine anni sessanta e inizio anni settanta, sul vuoto vivere delle classi abbienti e sugli effetti nefasti causati da una rottura del fragile equilibrio, di un mondo retto da leggi e regole e condizioni di vita consolidate (benessere, educazione). Un mondo apparentemente libero e sorretto dalle certezze (borghesia come élite, guida del paese, esempio per le classi meno abbienti, fiducia nella credenza di essere depositaria di un'etica assoluta) viene prima sconvolto poi distrutto dall'arrivo di un visitatore che coinvolge tutti i componenti della famiglia (serva, figlio, figlia, madre e padre) in un rapporto amoroso, rompendo ogni legame con le apparenze ma allo stesso tempo (con l'abolizione dei falsi idoli quali status sociale, convenienze, ecc.) rendendoli consapevoli del vuoto che li circonda. Le conseguenze saranno nefaste. Lo sviluppo del film vuole sottolineare (dimostrare come un teorema) la logica di questo mondo vuoto, la facilità con cui può essere frantumato e l'atroce consapevolezza della perdita di ogni certezza. Teorema, anche soltanto con queste premesse, sarebbe comunque un film importante, ma ciò che interessa è il modo in cui questo teorema viene dimostrato. Pasolini lavora soprattutto su quegli aspetti che caratterizzano il cinema moderno, lasciando implodere la narrazione, facendo uscire il discorso alla superficie. La narrazione è tutta in una frase: un uomo venuto da fuori sconvolge la vita di una famiglia borghese. Il resto è tutta una matematica degli eventi, ma non solo.
Gilles Deleuze non crede che Teorema sia un film teorematico ma soprattutto problematico:

"[...] il teorema sviluppa rapporti interni di massima con conseguenze, mentre il problema fa intervenire da fuori un avvenimento, ablazione, aggiunta, sezione, che costituisce le proprie condizioni e determina il "caso", o i casi, così come l'ellisse, l'iperbole la parabola, le rette, il punto sono i casi di proiezione del cerchio su dei piani secanti, in rapporto alla sommità di un cono." (1)Per Deleuze la deduzione di Pasolini in Teorema è più problematica che teorematica. "L'inviato del fuori è l'istanza a partire dalla quale ogni membro della famiglia sente un avvenimento o affetto decisivi, che costituisce un caso del problema [...]. Ogni caso, ogni sezione, sarà considerata come una mummia, la figlia paralizzata, la madre fossilizzata nella propria ricerca erotica, il figlio con gli occhi bendati che urina sul proprio quadro, la serva in preda alla levitazione mistica, il padre animalizzato, naturalizzato"(2). C'è ancora un fuori che interviene provocando una metamorfosi, un fuori che trascina con sé l'imponderabile, non un nuovo sapere (che dovrebbe sostituire il falso sapere dell'incipit: "[...] la deduzione problematica immette nel pensiero l'impensato, perché lo destituisce di ogni interiorità per scavarvi un fuori, un rovescio irriducibile, che ne divorano la sostanza" (3). Il pensiero insomma prende il sopravvento sull'immagine (o almeno sull'immagine senso-motoria) o meglio, come si domanda Deleuze, potremmo trovarci di fronte a un cinema giunto a "[...] un proprio rigore matematico che non concerne l'immagine (come nel vecchio cinema che già la sottometteva a rapporti metrici o armonici), ma al pensiero dell'immagine [...](4). Questo pensiero allenta la narrazione (tramite la poesia) e mostra un nuovo tipo di immagine (l'immagine-pensiero o l’immagine-emozione?). Gli aspetti più interessanti di questa metamorfosi riguardano soprattutto. 1) Incipit, 2) Spazio-tempo, 3) Montaggio, 4) Esistenti, 5) Cinema di Poesia.

1) Dopo un brevissimo incipit da film documentario (intervista agli operai divenuti proprietari di una fabbrica regalata loro dal padrone che si è spogliato non solo di tutti i beni ma pure dei vestiti) e l'immagine di un deserto (che ritorna durante tutta la durata del film), le prime sequenze in bianco e nero mostrano la vita quotidiana precedente l'arrivo del visitatore, la routine di una ricca famiglia borghese: uscita in auto dalla fabbrica di Paolo (il padre), il figlio (Pietro) che esce da scuola e che fa lo scemo con gli amici, uscita di Odette (la figlia) dalla scuola, la madre Lucia seduta nella villa intenta a leggere un libro, Emilia la serva, infine la famiglia riunita al tavolo da pranzo. Questo incipit sembra direttamente estratto dal cinema muto (solo musica extradiegetica e immagini in b/n) come se la normale e gradevole vita del prima (di un mondo senso-motorio) fosse un'opera muta del cinema degli inizi, una storia qualunque che potrebbe essere stata presa a caso dal passato o da un presente già morto. Sempre all'interno del cinema muto il fuori dà i suoi primi segnali (stacchi tra sequenze o all'interno di sequenze con l'immagine del deserto e quindi l'arrivo di un postino danzante che consegna una lettera alla serva). Nell'inquadratura sempre in b/n della famiglia seduta al tavolo intenta a pranzare, la serva consegna al padre il telegramma su cui è scritto: "Arrivo domani". A questo punto nel film irrompe il sonoro e l'immagine diventa a colori. La corruzione del prima ha avuto inizio, ciò che sembrava purezza delle origini, era solo un inconsapevole vagare nel deserto, mentre adesso sta per rivelarsi come vuoto incolmabile e irrecuperabile. Il mondo che irrompe con i suoni e il colore non è poi tanto più "rumoroso" del cinema muto (pochissimi dialoghi e rumori di fondo ridotti all'essenziale), ma si sgretola ogni volta di più dopo che ogni membro della famiglia viene sedotto (ma in realtà ognuno di loro lo ha sempre voluto anche quando non lo sapeva) dal visitatore esterno: una sorta di messia che porta il verbo della conoscenza o demone a cui interessa solo corrompere e sconvolgere?

2) La vita milanese che "circonda" gli esistenti è solo intravista, appena abbozzata. La fabbrica, proprietà del padre, è mostrata nell'incipit in campo lungo per mezzo di brevi inquadrature: sono immagini di capannoni senza alcuna presenza umana, senza i suoni e il vissuto classico di una fabbrica (ad esempio gli operai che escono o scherzano o lavorano). L'uscita dalla fabbrica del padre si rifà ovviamente al cinema delle origini (b/n e muto) ma non è, non può essere il cinema delle origini. Dalla fabbrica non escono le operaie come nell'Uscita dalle officine Lumière (il cinema delle origini possedeva un che di mitico che riusciva a rendere il movimento come parte fondante della vita), esce solamente Paolo, padrone non del mondo e della vita di una cittadina ma di edifici vuoti e muti. Così la scuola, la villa e gli interni della villa: cucina, sala, ingressi ecc., sembrano più luoghi deputati di un museo dove vengono raccolti oggetti. Lo spazio non è quello reale di una Milano efficiente e funzionale della fine anni sessanta, ma è uno spazio mentale, relegato ai margini, uno spazio qualsiasi, insignificante. Potremmo essere a Milano o Parigi o Londra o in nessun altro posto. Il tempo sembra non esistere, non funzionare non seguire una narrazione che stenta a mettersi in mostra, perché (così come lo spazio) deve essere funzionale all'istanza problematica (o volendo teorematica), deve dimostrare la prevalenza del nulla, l'assenza di qualsiasi punto di riferimento (che poi sarà per un breve periodo incarnato dall'ospite). Gli episodi dei familiari, i loro rapporti col visitatore, le loro reazioni all'abbandono potrebbero essere capovolti, spostati, allungati, ridotti, proprio perché il tempo del racconto è indebolito, non si mostra cronologicamente, ma utilizzando una sorta di sincronia diacronica. Diacronia dell’accadente o sincronia dell'accaduto, o di ciò che capita o è già capitato (e le inquadrature del deserto che frammentano il plot sembrano sottolineare l'avvenuto, il dipanamento della pellicola che mostra solo l'ineluttabile avvento-avvenuto del vuoto). Sintetizzando inquadrature statiche e "mute" (fabbrica, scuole con vita cittadina mostrata di sfuggita, casa vuota e arida), tempo vago e imprecisato e sviluppo degli eventi contemporaneamente sincronico e diacronico.

3) Le sequenze sono composte da molte inquadrature, campi controcampi, carrellate (anche con mdp a mano) come per mostrare uno spazio-tempo insulso che non funziona ma che fa affondare gli esistenti in un magma fluido, in un fango di immobilismo e disperazione. Pasolini non vuole mostrare uno spazio e definire un tempo, ma soltanto utilizzare questo spazio e questo tempo per dimostrare un teorema, o meglio per dedurre un problema. Pertanto le immagini degli ambienti sembrano più la proiezione del mondo interiore dei personaggi, il loro modo di sentire e percepire una realtà distante, incomprensibile, vuota. Il montaggio per Pasolini (tipico del film e non del cinema) deve dare senso al cinema come la morte dà senso alla vita, mentre il cinema è un infinito piano sequenza proprio come la realtà vista dal nostro sguardo è un'infinita soggettiva. Pertanto "[il] montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita.(5)

4) Allo stesso modo i personaggi sono sfuggenti e fragili. Inquadrati da lontano sembrano non andare da nessuna parte, si muovono incerti nell'ambiente, leggono od osservano, i volti sono inespressivi, vuoti, il loro sguardo osserva un altrove che sperano di trovare, un altrove che arriva quando sopraggiunge l'ospite. Parlano raramente e spesso per scusarsi, avendo terrore di oltrepassare la linea delle convenzioni. L'ospite al contrario è sicuro di sé e dona alla famiglia la certezza di poter superare in un attimo il nulla che li avvolge. Ma il deserto incombe, c'è e c'è sempre stato. Non è questione di salvezza o speranza ma di presente storico che si realizza nel film, in ogni film. Il visitatore è come un'istanza poetica che conduce al compimento del proprio destino, legge Rimbaud e sembra amare i suoi protetti. Ma non c’è amore, bensì una evanescente desertificazione dell'anima. I suoi gesti sembrano quasi automatici: quando abbraccia Pietro o si adagia sopra Emilia o Lucia non sembra colto da passione. Quando bacia Odette i suoi occhi sembrano fissare il vuoto. Il suo sguardo non irradia amore perché è lo sguardo distratto e insignificante che osserva il mondo contemplando il suo ineluttabile mistero, che osserva una classe sociale accompagnandola al suo declino. Interessante il momento dell'abbandono. Tutti i familiari faranno un breve monologo, con l’acquisita consapevolezza della loro perdita, il senso di un mondo vacuo ed evanescente. Pietro dice: "Lo capisco adesso che tu stai partendo e sapere di perderti è diventato la coscienza della mia diversità. Che cosa sarà di me d'ora in poi?" Lucia: "Dunque partendo non distruggi niente di ciò che c'era in me prima, se non una reputazione di borghese casta, ma che importa?, ma ciò invece che tu stesso mi hai dato: l'amore nel vuoto della mia vita lasciandomi lo distruggi tutto". Odette: "Ma adesso lasciandomi non solo mi fai riprecipitare indietro ma mi fai andare ancora più indietro. È questo che volevi?". Paolo: "Tu sei certamente venuto qui per distruggere. In me la distruzione che hai causato non poteva essere più totale. Hai distrutto semplicemente l'idea che ho sempre avuto di me". Dolore, distruzione, disperazione. Odette che diventa catatonica, Pietro che diventa artista inquieto, insoddisfatto, Lucia che inizia a frequentare tanti uomini e Paolo che si spoglia di tutto percorrendo nudo quel deserto che è sempre stato nel film sin dall'inizio. In Teorema si ha l’enunciazione formale e precisa di un cinema che toglie ogni illusione, perché distrugge il "vuoto" meccanismo della mimesi, dona consapevolezza, richiede spirito critico, annulla qualsiasi punto di riferimento: è il cinema della “soggettiva libera indiretta” la cui caratteristica è di non essere linguistica, ma stilistica. È il cinema di poesia (6).


(1) Gilles Deleuze, L'immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, p. 195.
(2)
Ib.(3) Ivi, p. 196. Voglio citare qui anche parte dell nota a pie' pagina (n. 37): "Il tema del Fuori, e del suo rapporto con il pensiero, è uno dei temi più costanti di Blanchot (in particolare L'infinito intrattenimento) [...].
(4) Ivi, p. 194.
(5) Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2000(3), p. 241.
(6) Ivi, pp. 167-187.

Fonte:
http://cinemante.blogspot.it/2010/07/teorema-pier-paolo-pasolini-1968-13-il.html


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Teorema (Pier Paolo Pasolini, 1968) - Le ceneri di Gramsci

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Teorema (Pier Paolo Pasolini, 1968)  - Le ceneri di Gramsci

Per Pasolini la tradizione cinematografica che si è formata sin dalle origini (a parte alcune esperienze isolate) "[...] sembra essere quella di una «lingua della prosa», o almeno di una «lingua della prosa narrativa» anche se il cinema è un "[...]linguaggio artistico e non filosofico[...]" e pertanto tutto ciò dovrebbe far pensare che il cinema sia [...] fondamentalmente una «lingua della poesia»"(1). Eppure, nonostante questa violenza subita (poiché il cinema ha imboccato sin dall'inizio la strada di spettacolo di evasione, vista la mole di pubblico all'epoca impensabile per qualsiasi altra arte), "[...] i suoi elementi irrazionalistici, onirici, elementari e barbarici sono stati tenuti sotto il livello della coscienza" ma non aboliti. Pertanto questo strato di segni onirici e irrazionali sopravvive sotto la narrazione del film (racconto e messaggio), come una sorta di "terzo senso", un livello che Barthes definisce «evidente erratico ostinato» (2). Pasolini si chiede se oggi sia spiegabile e possibile nel cinema «la lingua della poesia» (3) ritenendo che per rispondere a questa domanda si debba trasformarla in un'altra domanda: «È possibile nel cinema la tecnica del discorso libero indiretto?» (4) ossia è possibile per l'autore l'immersione nell'animo di un suo personaggio anche nell'uso della sua lingua? Anche nel cinema è possibile un discorso libero indiretto ossia una «soggettiva libera indiretta». Ma se l'autore si immerge in un personaggio e "[...] attraverso lui racconta la vicenda e rappresenta il mondo, non può valersi di quel formidabile strumento differenziante in natura che è la lingua. La sua operazione non può essere linguistica ma stilistica" (6). La soggettiva libera indiretta offre non solo delle possibilità stilistiche molto articolate ma può ritrovare "[...] l'originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria. Insomma è la soggettiva libera indiretta a instaurare una possibile tradizione di lingua tecnica della poesia nel cinema" (7).

1. Teorema cinema di poesia?

Bisogna leggere Teorema come si legge una poesia. Il monologo interiore è il tentativo dell'autore di formare immagini come fossero proiezioni di personaggi malati, nevrotici, che non sono in grado di rapportarsi al mondo, di entrare in sintonia con lo stato bruto delle cose. Non dico niente di nuovo nell'affermare che il film ha un andamento anaforico evidenziato soprattutto dall'iterazione continua, quasi assillante, delle immagini del deserto come per riportarci in un passato lontanissimo dell'umanità (il deserto è metafora del vuoto ma anche origine e termine di una storia). Il deserto appare nell'incipit ma anche, e non solo, nell'epilogo. Anzi nell'epilogo ingloba la nudità di Paolo che sembra come uscito da un mondo borghese, cittadino: abbandonando la sua vita costruita sul niente entra direttamente nella brutalità delle cose senza alcun appagamento o visione che gli indichi una strada da percorrere, una riva su cui approdare: oltre il deserto c'è solo il deserto non metaforizzato. La nudità dei personaggi ad esempio è un altro aspetto che sottolinea il desiderio di spogliarsi della propria corazza borghese indossata come status symbol, come forma "immutabile" o cliché omologato dalle apparenze. L'atto di spogliarsi non è solo il desiderio di uscire da una forma, di attuare una metamorfosi, ma anche l'atto di donarsi all'altro e in questo caso di donare se stesso a un misterioso ospite per affidargli una sorta di personale lirismo, illudendosi di aprire una finestra sull'altrove. La nudità è un tuffo nell'aperto, un modo di aprire il proprio mondo, di mostrare le proprie debolezze all'altro: ad esempio Lucia, vedendo rientrare l'ospite dallo jogging, si denuda gettando i vestiti e sdraiandosi sul parquet del terrazzo, e Odette mostra il suo seno all'ospite nella speranza di perdere la sua timidezza e di non avere più paura degli uomini. Ma può essere anche metafora di morte civile: il corpo nudo come perdita del proprio status; infatti Paolo si denuda in pubblico abbandonando tutti i suoi averi e il suo modo di vivere, diventando un eremita per aver perso completamente se stesso (8). Persino la danza reiterata del postino che identifica un mondo subalterno (classi sociali inferiori) e forse ridicolo agli occhi dei borghesi (il postino, interpretato da Ninetto Davoli, pare felice, danza portando la posta e si complimenta della bellezza di Emilia) presenta un andamento metaforico. Le due lettere aprono e chiudono un evento e la sequenza della famiglia seduta al tavolo da pranzo, quando Emilia consegna la lettera a Paolo, si completa e ha senso in relazione all'altra inquadratura del pranzo, quando Emilia entra in sala per consegnare la lettera all'ospite. Le immagini architettoniche sottolineano e amplificano un mondo filtrato dall'animo dei personaggi. L'uscita dalla fabbrica del padre, con rapide inquadrature in campo lungo di capannoni, riflettono e annunciano le immagini del traffico milanese che evidenziano l'uscita di scuola dei due figli, nonché le immagini della villa ripresa in esterno e nell'interno che ci introducono dentro la malattia dei protagonisti. L'arredamento minimalista della casa, le stanze linde, la cucina, troppo pulita e ordinata da sembrare inutilizzata, evidenziano un che di falso e artefatto. Sono inquadrature che ci introducono dentro l'apocalisse, come in un'annunciazione già scritta che l'ospite (più angelo della morte che messia) contribuisce ad accelerare. L'anafora si presenta anche nel suono delle campane di molte sequenze: suonano mentre la madre, nel vedere i vestiti dell'ospite, decide poi di attenderlo nuda sul ballatoio; quando l'ospite e il figlio sfogliano un catalogo di opere di Bacon o quando Emilia è seduta sulla panchina del suo villaggio apparentemente immobilizzata in un frame stop, o la figlia è orami distesa in stato catatonico sul suo letto. Il rintocco riaffiora nella colonna sonora sempre nel paese di Emilia nel momento in cui i paesani le portano del cibo e lei accetta solo ortiche, e di nuovo quando Emilia sta seduta mentre le cucinano le ortiche. E viene riudito quando Lucia è a letto con un ragazzo e prosegue quando esce dall'appartamento. Infine le campane vengono suonate nel paese per annunciare il miracolo di Emilia che levita sopra il tetto della chiesa. Finalmente abbiamo modo anche di vederle direttamente come “metonimia” di un miracolo. Anche l'atto di scusarsi diventa (due volte) una breve anafora: Pietro, temendo di essere respinto, si scusa con l'ospite, così come si scusa Lucia, ed entrambi lo fanno subito dopo i loro approcci amorosi. Anche la musica viene utilizzata come produttrice di senso poetico: in particolare la Messa di Requiem di Mozart non è soltanto una musica extradiegetica qualsiasi ma una rima sonora (pertanto si propone come rima nel vero senso della parola) che emerge durante la malattia di Paolo (a letto leggendo Tolstoj e "guarito" dall'ospite) e soprattutto accompagna l'uscita di scena di ciascun famigliare (Odette che viene portata via dall'ambulanza, Pietro che abbandona la famiglia per andare a fare il pittore roso dall’impossibilità di dare senso a una forma sulla tela, Lucia che va in cerca di ragazzi per fare l'amore, e infine Paolo che vaga nudo nel deserto prima dell'urlo finale).

2. Le ceneri Gramsci

Le Ceneri di Gramsci è forse la raccolta di poesie più importante del corpus poetico di Pasolini. Leggendo quest'opera pubblicata nel 1957 ci si rende conto del percorso inverso intrapreso da Pasolini rispetto a Teorema (anzi, poiché la raccolta poetica è anteriore, il percorso inverso è stato fatto con Teorema). Mentre Teorema è cinema di poesia, Le ceneri di Gramsci potrebbe essere definito come "poesia di cinema", mentre in Teorema la narrazione rimane sospesa lasciando emergere "elementi barbarici, irrazionali e onirici", nelle Ceneri di Gramsci la poesia sembra voler costruire una storia organica. Si tratta di undici poemetti articolati in capitoli e sezioni che, se letti d'un fiato e intrecciati insieme, lasciano emergere una sorta di trama, un tenue racconto che lascia esprimere le idee, le riflessioni, i sentimenti di Pasolini. Causa i limiti espositivi di un blog, mi limiterò qui a prendere in esame solo alcune parti della raccolta. Recit ad esempio è un poemetto molto interessante, innanzitutto perché Pasolini ha scelto il settenario doppio di Jacopo Martello, un verso doloroso da leggere per il suo ritmo quasi "osceno" ma proprio per questo adattissimo a restituire l'oscenità del vissuto pasoliniano, ossia la notizia portatagli dall'Amico Attilio Bertolucci della condanna del suo romanzo Ragazzi di vita per, appunto… oscenità (10). Tutt'intorno pulsa la vita di Monteverde: voci gioiose, grida, canti di garzoni, di serve, operai. Questo contrasto di gioia e dolore (che rammenta il bailamme convulso dello stato d’animo dei protagonisti di Teorema in rapporto all’immobile aridità di oggetti e paesaggi) restituisce non solo l'emozione del momento, il vissuto del "personaggio" Pasolini, ma anche una perfetta e incommensurabile storicizzazione (la vita che pulsa oggi nei quartieri produce suoni diversi). La trama della vita emerge oltre il disegno, di là dalla poesia, si struttura in racconto martellante, quasi come un'iterazione filmica che vuol riprendere l'intermittente fracasso della vita di un quartiere popolare di una Roma degli anni cinquanta:

Com'era nuovo nel sole Monteverde Vecchio!
Con la mano, ferito, mi facevo specchio
per guardare intorno viali e strade in salita
vivi di gente nuova nella sua vecchia vita.

Giunsi nella piazza,accaldato e tremante,
chè gelo e sole insieme il quartiere accecante

sbiancavano con muta ed estasiata noia.
Ricco era il quartiere, ma popolana gioia

ne invadeva interrati ed attici con voci
vaghe ma violente, canti lieti e feroci

di garzoni, di serve e d'operai perduti
su bianche impalcature, tra bianchi rifiuti.

Come non sentire, con la vita il cuore
esser diverso e uno, essere gelo e sole?

Come non sentire ch'è pura gratitudine
per il mondo anche l'essere umiliati e nudi?

Mi aspettava nel sole della vuota piazzetta
l'amico, come incerto... Ah che cieca fretta

nei miei passi, che cieca la mia corsa leggera.
Il lume del mattino fu lume della sera:

subito me ne avvidi. Era troppo vivo
il marron dei suoi occhi, falsamente giulivo...

Mi disse ansioso e mite la notizia.
Ma fu più umana, Attilio, l'umana ingiustizia

se prima di ferirmi è passata per te,
e il primo moto di dolore che

fece sera del giorno, fu pel tuo dolore.
Intanto nulla era mutato sotto il fresco sole. (11)

...........
Ed ecco affiorare alla superficie i campi lunghi di Teorema, paesaggi tristi e freddi filtrati dall’animo del poeta. E come restituire nel cinema ad esempio la sofferenza di questi primi stupendi versi de Il pianto della scavatrice?:

Solo l'amare, solo il conoscere
conta, non l'aver amato,
non l'aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato
amore. L'anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

echeggia ancora di mille vite,
disamore, mistero e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche

le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d'esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti
agli ultimi prati. ... (12)

Non sembra l'incipit di Teorema, quando Paolo esce in auto dalla fabbrica? Quei luoghi tristi, in bianco e nero, quei campi lunghissimi e lunghi non compongono una sequenza naturalistica. Non siamo in un racconto dove lo sguardo si sofferma ad osservare la vita quotidiana di una famiglia dell'alta borghesia milanese della fine degli ani sessanta, ma stiamo entrando "dentro" lo sguardo di Paolo, in una sorta di monologo interiore (peraltro per Pasolini impossibile da comporre nel cinema): il primo piano di Paolo seduto sul retro dell'auto collega in un percorso ideale il paesaggio freddo e triste che ci porta a provare le stessa sofferenza del protagonista. È l'angoscia che Pasolini vuole portare alla superficie, non il racconto di una giornata triste, e pur usando molte metafore (deserto, sesso, nudità, citazioni dalla Bibbia) e tralasciando per motivi di spazio il discorso sull'allegoria cara a Pasolini, ritengo che (come nelle Ceneri di Gramsci) l'ossimoro e la metonimia siano le due figure più utilizzate per scavare nel profondo del dramma. Come ad esempio in Recit usa vari ossimori: (nuovo... Monteverde vecchio; gente nuova... vecchia vita; gelo e sole; fresco sole) in Teorema l'ossimoro risulta la figura più interessante: l'esempio forse più illuminante si riferisce alla sequenza in cui i vari personaggi si lamentano con l'ospite per il fatto che la sua partenza li possa gettare in turbamento esistenziale da cui non potranno più fare ritorno. Ma alla disperazione che questi brevi monologhi esprimono non corrisponde una recitazione degli attori nevrotica ed esasperata: in fondo vogliono comunque bene all'ospite, il quale li ascolta con apparente serenità e li conforta o con carezze o appoggiando la mano sulle spalle. Quando l'ospite parte tutti i familiari lo accompagnano al cancello come si accompagna un amico che è venuto a farci visita e si accinge a tornare da dove è venuto. Tanto dramma nelle parole affiora solo nelle sequenze dell'epilogo che ci mostreranno la "fine" dei personaggi, ma adesso l'ossimoro mostra molto bene l'apparente serenità del mondo borghese (fine anni sessanta) e riferendomi ad oggi oserei dire l'apparente serenità del mondo occidentale in generale.

3. Monologo interiore, ossia metonimia: ceneri per mondo.

La potenza della metafora, “che implica un trasferimento di significato” (esempio: paesaggio ripreso con una certa luce con un certo tipo di campo lungo, con una certa angolazione e anche ad esempio in plongée per restituire lo stato d'animo di chi osserva questo paesaggio, magari mostrando il suo volto anche inespressivo, tanto per citare l'effetto Kulešov) e la delicata nostalgia dell'allegoria (come la metafora ma con una interpretazione razionale) sono due aspetti importanti per comprendere il cinema di Pasolini, ma secondo me, in questo film, che rappresenta come l'inizio di un percorso ante litteram della morte (13), della fine (insieme a Salò o le 120 giornate di Sodoma e forse anche del film che avrebbe visto la luce se Pasolini non fosse morto, ossia Porno-Teo-Kolossal), la metonimia, prende l'abbrivo lentamente per occupare nell'epilogo, in tutta la sua maestosità, l'ampiezza dello schermo. L'urlo di Paolo non rappresenta solo la rabbia o lo sfogo di chi, pur abbandonando la sua "falsa e vuota" vita borghese, non ha trovato nient'altro che un deserto (pertanto c'è stato un passaggio da deserto metaforizzato a deserto fisico), ma è la constatazione che non è possibile uscire dalla propria metonimia. C'è insomma un inglobamento fra i due termini nel senso che mentre per comprendere la metafora è sufficiente analizzare i suoi componenti (differenti campi semantici), per la metonimia bisogna ogni volta ipotizzare una diversa base per spiegare ogni singola figura. “La metonimia, figura per ‘contiguità’, lavora all’interno di un’unità semantica data, entro la quale si relazionano tratti eterogenei, piuttosto che fra unità semantiche alternative che necessitano di una mediazione retorica” (13). La metonimia rappresenta la presa di coscienza di essere una parte e di credere di rappresentare un tutto perché quello che oggi è presunzione (sicurezza della borghesia per Pasolini, o di una contemporanea società anni 2000 in cui ogni uomo ha assunto un modo di ragionare borghese, di inglobare un universo - dal vocabolario alla cultura, ai luoghi comuni al cliché, all'etica - di elaborare un modus vivendi - pretendendo che il proprio stile di vita sia status inalienabile - di formulare una strategia di sviluppo "sociale") domani potrebbe divenire tormento (per modifiche strutturali della società o del mondo o per qualsiasi evento casuale esterno - il visitatore potrebbe essere il messia ma anche una tragedia planetaria). L'angoscia dell'urlo finale è la scoperta di avere vissuto in una perenne metonimia che non si è mai trasformata in metafora per mancanza di vocabolario. Siamo rimasti sempre all’interno dello stesso campo semantico. In altri termini Paolo, con la scoperta del deserto fisico dell'epilogo, che sin dall'incipit sembrava (ed è) metafora della sua vita vuota, scopre l'impossibilità di uscire dal suo vuoto e il gesto di essersi spogliato di tutti gli averi ed essersi incamminato lungo la strade del deserto lo ha portato a vedere da fuori quello che prima vedeva da dentro. L'urlo equivale ad una presa di coscienza, equivale a constatare che per (all'epoca) la classe borghese non c'è speranza, che (oggi) per un certo modo di vedere il mondo (Legge, Metafisica, Classicismo, ecc.) non c'è speranza. Paolo (ma anche gli altri componenti della famiglia ad esclusione forse di Emilia) è una parte del deserto, lo è sempre stato e continuerà come prima a vivere la propria vuota vita.

(1) Pier Paolo Pasolini, Il cinema di poesia, in Empirismo eretico, Garzanti, Milano 20003, p. 172.
(2) Roland Barthes, Il terzo senso (1970) in L'ovvio e l'ottuso, Torino, Einaudi 1985, pp. 43 sgg. (vedi qual è la tua edizione e correggi). Una interessante analisi dell'argomento in oggetto si trova in: Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Le Lettere, Firenze 1994 p. 103 e sgg.
(3) cit., p. 175.
(4) ib.
(5) ivi, p. 177.
(6) ivi, p. 179.
(7) ib.
(8) Riferisco il senso di alcune frase dette nel film dal padre all'ospite dopo che ha saputo della sua partenza
(9) Martelliano: verso italiano di quattordici sillabe, imitazione del verso alessandrino francese, accoppiato in distici baciati.
(10) Il romanzo uscito nel 1955 procurò a Pasolini la denuncia di oscenità. Cito da
http://www.pasolini.net/processi_brevedescrizione.htm: La Presidenza del Consiglio dei ministri promuove un'azione giudiziaria contro il romanzo Ragazzi di Vita, Pasolini viene citato in giudizio, insieme all'editore Livio Garzanti, dal procuratore della Repubblica di Milano, per contenuto osceno del romanzo, segnatamente alle pagine 47, 48, 101, 130, 174, 227, 231, 242. Il processo viene rinviato perché i giudici non hanno letto il libro. Il P.M. chiede l'assoluzione degli imputati "perché il fatto non costituisce reato". I giudici accolgono la richiesta e dissequestrano il libro.
(11) Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti 1976, pp. 81-82
(12) Ivi, pp. 91-92
(13) I film della trilogia della vita, Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte,
sono rispettivamente del 1971, 1972 e 1974, Salò (che doveva essere il primo della trilogia della morte) è del 1975 mentre Teorema essendo precedente alla trilogia della vita non è, almeno cronologicamente, da assimilare alla trilogia della morte, ma credo che in fondo tra Teorema e Salò vi siano delle affinità.
(14) cfr. Umberto Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi 1984


Fonte:
 http://cinemante.blogspot.it/2010/08/teorema-pier-paolopasolini-23-le-ceneri.html


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Pasolini - Cinema strumento di poesia

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Cinema strumento di poesia
di Corrado Benigni

La creatura, quali siano gli occhi suoi, vede/ l’aperto. Soltanto gli occhi nostri son/ come rigirati, posti tutt’intorno ad essa,/ trappole ad accerchiare la sua libera uscita.
R.M. RILKE, ELEGIE DUINESI


“Il cinema è strumento di poesia con tutto ciò che questa parola può contenere di significato liberatorio, di sovversione, di soglia attraverso cui si accede al mondo meraviglioso del subconscio”, ha scritto Luis Buñuel.(1) Tanto cinema “è” poesia. I tramonti di John Ford, i primi piani di volti e corpi di Ingmar Bergman, la surreale follia di Peter Greenaway, per citare solo alcuni esempi. La fascinazione della settima arte passa necessariamente attraverso una visione lirica del mondo, senza per questo doversi a tutti i costi contrapporre ad una concezione “realistica” del narrare per immagini.
Se da un punto di vista rigorosamente letterario il cinema sembra avere più parentela con la prosa (perché tanti film sono tratti da opere di narrativa, o più semplicemente perché alla base c’è sempre “una prosa”, la sceneggiatura), è altresì vero che le suggestioni immaginarie di molti registi si nutrono di poesia, magari senza citarla direttamente bensì “ricreandola” stilisticamente, proprio come i grandi autori citati sopra. Vi è un particolare mondo, appartenente alla dimensione umana, che si esprime solamente attraverso immagini significanti: “il mondo della memoria e dei sogni”, ha detto Buñuel.)2) Ecco dunque la corrispondenza di sensibilità tra cinema e poesia: la natura fortemente onirica di questi due linguaggi. Sulla stessa linea, secondo Pasolini “lo strumento linguistico su cui si basa il cinema è di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema”.(3)
Il cinema come la poesia è una forma di espressione più che di comunicazione. Tuttavia tra i due linguaggi il rapporto è disomogeneo. Forse ciò che veramente li accomuna è che alla base di questi due linguaggi c’è il tentativo di scandagliare – da prospettive diverse – il problema della visione, di cercare uno spazio di visione, una visione “esistenziale”, in quel gioco di ombre che fa scoprire che tutto il mondo è metafora di qualcosa, e da qui l’urgenza di “dare perimetro a ciò che è smisurato” come scrive Milo De Angelis nel suo saggio su Fuoco fatuo di Louis Malle. Questo bisogno è ancora più sentito nell’uomo contemporaneo, in questo tempo di “mancanza di visione”, dove a un eccesso di immagini si contrappone spesso l’incapacità di comprendere il reale, l’assenza di quell’attitudine dello sguardo che tende a vedere l’inclinazione del mondo, di cosa son fatte le cose e le persone, e dove vanno, che è poi il senso del nesso tra particolare e infinito.
Il celebre prologo di Un chien andalou di Buñuel(4), in cui vediamo accostate l’immagine “lirica” di una sottile nuvola che passa davanti alla luna e quella, letteralmente insopportabile, della lama di un rasoio che squarcia l’occhio di una donna, può essere assunto come il manifesto programmatico dell’incontro tra surrealismo e cinema, ma è soprattutto un perentorio invito a sovvertire tutte le convenzioni del vedere. L’occhio tagliato è l’occhio depurato, l’occhio hypocrite, potremmo dire ripensando al lecteur baudeleriano, che non cerca visioni ovvie, rassicuranti, distruttive, destinate ad esaurirsi con il consumo, bensì una scrittura di immagini mai udita che possa continuare ad essere letta e decifrata con gli occhi del pensiero.
“L’immagine è un’impressione della verità sulla quale ci è concesso di gettare uno sguardo con i nostri occhi ciechi”(5): così il cineasta Andrei Tarkovskij, figlio del poeta russo Arsénij. Il regista di Solaris associava la poesia al cinema evocando quella verità a cui è possibile accedere solo attraverso uno sguardo cieco. Un’inibizione dell’occhio, quella del poeta, ma sempre desta e sul punto di spiccare il salto. Viene in mente a questo proposito il film di Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House, dove un personaggio così replica al protagonista, che è un giovane pittore. “Io credo, Mr Neville, che un uomo intelligente possa essere soltanto un mediocre pittore, perché dipingere richiede una certa cecità, un parziale rifiuto ad accettare tutte le possibilità”.(6)
Per restare solo in Italia, da D’Annunzio alle avanguardie degli anni Venti, passando per Gozzano, Saba, Montale, Sereni, fino ai giorni nostri, come ci dimostrano gli autori di questa rassegna, fortissimo è da sempre il legame tra poeti e cinema. Come avvertiva Freud “il cinema è una dimensione della parola”, e la parola stessa è grafema, fonema e cinèma; l’immagine – nella metafora – è parte della parola.
D’Annunzio all’inizio del Novecento fu tra i primi a capire lo straordinario talento “metamorfico” della settima arte, al punto da designare come nume tutelare di essa Ovidio. Un decennio più tardi saranno Gozzano e Marinetti a difendere il cinema dagli attacchi dei letterati, anche se per motivi opposti. Al primo interessava la capacità del cinema di rendere liricamente la “prosa” quotidiana; al secondo, oltre al dinamismo dell’immagine in movimento, la sua capacità di dar vita a vaste reti di analogie e di associazioni mentali (da cui il “manifesto del cinema futurista”). Negli anni Venti Montale evidenzia le potenzialità artistiche ancora tutte da valorizzare del cinema. E a proposito di Montale, il primo a riconoscere proprio una dimensione cinematografica nei versi dell’autore delle Occasioni è stato Italo Calvino, che analizzando la poesia Forse un mattino(7) – tratta dalla raccolta Ossi di Seppia ha osservato: “La ricostruzione del mondo avviene “come s’uno schermo” e qui la metafora non può che richiamare il cinema. La nostra tradizione poetica ha abitualmente usato la parola “schermo” nel significato di “riparo-occultamento” o di “diaframma”, e se volessimo azzarderei ad affermare che questa è la prima volta che un poeta italiano usa “schermo” nel senso di superficie su cui si proiettano immagini, credo che il rischio d’errare non sarebbe molto alto. Questa poesia (datata fra il 1921 e il 1925) appartiene chiaramente all’era del cinema, in cui il mondo corre davanti a noi come ombre d’una pellicola, alberi, case e colli si stendono su una tela di fondo bidimensionale, la rapidità del loro apparire (“di gitto”) e l’enumerazione evocano una successione di immagini in movimento. Che siano immagini proiettate non è detto, il loro “accamparsi” (mettersi in campo, occupare un campo, ecco il campo visivo chiamato direttamente in causa) potrebbe anche non rimandare a una fonte a matrice dell’immagine, scaturire direttamente dallo schermo (come abbiamo visto avvenire nello specchio), ma anche l’illusione dello spettatore al cinema è che le immagini vengano dallo schermo. L’illusione del mondo veniva tradizionalmente resa da poeti e drammaturghi con metafore teatrali, il nostro secolo sostituisce al mondo come teatro il mondo come cinematografo, vorticare di immagini sulla tela”.(8)
E’ della rivelazione del nulla dunque che ci parla questa poesia di Montale. L’uomo che ha l’esperienza del vuoto come sfondo delle cose, vede queste ultime presentificarsi su di esso. Quest’uomo è colui il quale, diversamente dagli altri, ha lo sguardo fisso in entrambe le direzioni: dietro (il nulla come origine), avanti (il mondo, con i suoi enti). Ciò che è significativo nella riflessione di Calvino sui versi di Forse un mattino è che, partendo dall’analisi di un testo poetico, egli stabilisce un nesso tra il linguaggio cinematografico e quello della poesia. Da un lato infatti Calvino ci descrive l’illusione del cinema, ovvero che ciò che vediamo sullo schermo è vero, dall’altro invece la rapidità con cui la poesia di Montale è in grado di fulminare la realtà. Ma cogliere l’istante non è sufficiente perché tutto si muove e l’illusione che ciò che vediamo ci sia sul serio riprende il sopravvento. Esattamente ciò che accade quando guardiamo un film. Dunque ancora una volta tutto si concentra intorno al problema della “visione”, una visione del mondo da parte dell’uomo moderno che appare problematica perché egli ha smarrito la fiducia nella realtà. E l’uomo di oggi è come se avvertisse ancora più forte l’imperfezione della realtà, quella “maglia rotta”, per usare un’espressione montaliana, quello sbaglio di natura, che lo fa sentire sospeso su un abisso tra smarrimento e attesa. Per questo un’educazione dello sguardo oggi è più che mai imprescindibile.
A evidenziare quanto il legame tra i linguaggi espressivi del cinema e della poesia fosse più stretto rispetto a quello con la prosa, è stato Pier Paolo Pasolini, che ha teorizzato il cosiddetto “cinema di poesia”, mettendo in luce, nella complessità della sua stessa esperienza artistica, il cinema non solo come linguaggio, ma lingua a tutti gli effetti. La cinepresa, dunque, come penna capace di scrivere del mondo.
Frontalità ossessiva delle inquadrature, fotografia in bianco e nero “sporca” e contrastata, adozione di un gergo aspro e greve, scelta di musiche sacre a commentare drammatiche sequenze di degradazione, doppiaggio babelico, volti e corpi “sgradevoli”, paesaggi di desolate periferie. Questo è il “cinema di poesia” teorizzato da Pasolini: rompere con le tradizioni, per evidenziare la dimensione stilistica del film.
Come la poesia, anche il cinema è un’arte dell’“astrazione” e “dell’estrazione”, come la poesia, anch’esso è di natura psichica, e, come diceva Jean Epstein, “è il riflesso di un riflesso” che presenta “una quintessenza, un prodotto doppiamente distillato”.(9) Più o meno quello che ci ricordava ancora una volta Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, ovvero che il film “è il risultato di una successione di fasi, immateriali e materiali, in cui le immagini prendono forma … Questo “cinema mentale” è sempre in funzione in tutti noi, e lo è sempre stato, anche prima dell’invenzione del cinema e non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vita interiore”.(10?… In fondo proprio ciò che accade anche con la poesia.
Immagine tratta da Lo specchio (1974) di Andrej Tarkovskji
  1. Luis Buñuel, Il cinema strumento di poesia. Scritti letterari e cinematografici, Marsilio, 1996. 
  2. Ibidem 
  3. Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, 2000. 
  4. Luis Buñuel, Un chien andalou, 1929. 
  5. Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, 2002. 
  6. Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House, 1982. 
  7. Eugenio Montale, Tutte le poesie, Oscar Mondadori, 1996. 
  8. Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, 1995. 
  9. Jean Epstein, L’essenza del cinema. Scritti sulla settima arte, Marsilio, 2002. 
  10. Italo Calvino, Lezioni americane, Mondadori, 2000. 
Fonte:
http://www.nazioneindiana.com/2010/01/26/cinema-strumento-di-poesia/


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Paesaggio a-sonoro nel cinema di Pasolini. La poetica del silenzio

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Alessandro Cadoni
Paesaggio a-sonoro nel cinema di Pasolini. La poetica del silenzio
A. Cadoni, Paesaggio a-sonoro nel cinema di Pasolini. La poetica del silenzio, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.3 Novembre-Febbraio 2003/2004, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/14.htm


Non è raro, nella produzione cinematografica di Pier Paolo Pasolini, incontrare sequenze in cui è quasi o addirittura totalmente assente l'uso dei dialoghi, e gli effetti di senso sono, nel contesto, affidati alla pura suggestione visiva. (1) In ogni caso, se si considera la natura del mezzo cinematografico, il fatto che un film possa fare a meno del supporto dialogico non dovrebbe stupire in modo particolare. La base del linguaggio cinematografico è in primo luogo costituita dalla successione delle immagini, dal montaggio. (2) La vista, quel senso della opsis proprio del teatro, secondo Aristotele, (3) è referente fondamentale, a volte unico, nella comprensione di un film. Il silenzio dei personaggi in scena dunque, alle condizioni che da qui in avanti si cercherà di mettere in luce, è un dato assolutamente significativo nell'ambito della colonna sonora, al pari dei dialoghi, delle musiche e dei suoni in generale.
Il primo "silenzio" significativo lo troviamo in Accattone, precisamente nella sequenza del sogno, una delle più riuscite dell'intero film. (4) Nella rappresentazione del sogno del protagonista regna un silenzio irreale, spettrale, che anticipa il finale tragico, facendo da pendent con il Coro finale (n. 68) della Matthäus Passion di Johann Sebastian Bach, che accompagna le inquadrature di Accattone che dorme nella misera stanzetta, introducendo alla visione del sogno vero e proprio. Scrive a proposito Serafino Murri:
Ma fra tutte vi è una scena che merita senz'altro di essere ricordata per la sconvolgente efficacia della sua essenzialità: quella del sogno di Accattone. La scena sovraesposta e polverosa in cui si aggirano, tra detriti e calcinacci, vestiti a lutto […] gli amici di Accattone che vanno al suo funerale, il senso di morte emanato dai mariuoli napoletani, l'angoscia di vedersi scavare la propria fossa all'ombra anziché al sole, sono sottolineati in maniera superlativa da un silenzio sordo, dall'assenza di qualsiasi rumore, un silenzio senza ampiezza, senza respiro, senza spazio. (5)
Con un lungo salto si giunge a Medea, dove si trovano intere sequenze in cui la parte dialogica è quasi del tutto assente, ma la drammaticità delle immagini e la suggestività del sonoro costituiscono un piano semantico assolutamente compiuto. È il caso della lunga sequenza del sacrificio in Colchide (che va dall'inquadratura 27 alla 180), nella quale le uniche parole sono pronunciate da Medea (nello spazio di una sola inquadratura). (6) Ma è soprattutto il caso, eccezionalmente importante per come affronta il problema del rapporto fra cinema, realtà e sogno e di quello fra cinema, realtà e visione (o delirio), (7) della doppia sequenza della vendetta di Medea: doppia perché essa viene proposta per due volte nel film (caso assai raro, almeno per quanto riguarda la mia esperienza di spettatore), con variazioni quasi impercettibili. Il fatto che le due sequenze rappresentino realtà e sogno oppure realtà e visione (o delirio) non è qui, per quanto molto interessante, motivo di discussione. Ciò che ci interessa notare, al fine di questa analisi, è come il cinema di Pasolini riesca a riportare sullo schermo due sequenze, anche uguali e diegeticamente contigue, e a dar loro vita mediante la pura espressione visiva, che è uno dei sensi della realtà e che in questi momenti diviene per lo spettatore il referente principale per la comprensione dell'esperienza cinematografica (ed è anche il mezzo più efficace per tradurre nel cinema l'esperienza onirica, nei limiti del verosimile).
La sfiducia nella razionalità, nel logos da parte di Pasolini, che si manifesta pienamente in Medea, (8) è uno dei temi principali in tutto il ciclo del cinema d'élite, e spesso si traduce in astrazione e silenzio. Se già in Edipo re e Teorema prendono forma lunghi tratti di angosciante afasia, il film in cui questa strategia di sottrazione si manifesta pienamente è sicuramente Porcile. Nell'episodio del cannibalismo, infatti, non viene pronunciata dai protagonisti neanche una parola; si ottiene così la contrapposizione violenta fra un mondo arcaico, mitico-realistico e a-storico e la degenerazione della moderna borghesia, in cui i discorsi non legati alle logiche di potere e profitto si sciolgono in un vacuo nichilismo.


I silenzi di Maria: note su Il Vangelo secondo Matteo

È nota la straordinaria abbondanza di presenze musicali nella colonna sonora de Il Vangelo secondo Matteo. Qui Pasolini, dando sfoggio di grande sensibilità musicale, accosta i generi più disparati (da Bach e Mozart ai repertori di musica popolare russa, statunitense o africana), secondo il principio "auerbachiano" della contaminazione degli stili a lui tanto caro. Gianni Rondolino, nella sua monografia sulla musica nel cinema, accenna alla componente sonora del film, definendola "orgia musicale", (9) con un'espressione che non rende certo giustizia alla qualità dei brani utilizzati e alla cultura musicale dell'autore, ma dà tuttavia l'idea della strategia espressiva utilizzata. Uno dei miracoli di equilibrio che prendono vita ne Il Vangelo secondo Matteo, del quale molti critici parvero non accorgersi, è la sintesi espressiva raggiunta fra le diverse forme linguistiche e comunicative nel film: parlo soprattutto del perfetto contrasto fra la strategia di accumulo delle presenze musicali, contrapposta, o per meglio dire, accordata con quella di sottrazione a livello di comunicazione verbale, alla quale concorrono i vari elementi tipici del linguaggio pasoliniano, come il gusto estetico, i richiami pittorici, l'espressività in funzione della drammaticità. Tutti fattori che si caricano ancor più di significati e chiavi di lettura; qui il "silenzio cinematografico" (10) costituisce per lunghi tratti l'elemento predominante dell'azione filmica. Non è un caso che le sequenze più significative da questo punto di vista abbiano quasi tutte per protagonista Maria. Già la prima costituisce forse l'esempio più rilevante dell'intera pellicola; in essa si racconta di come Maria, promessa sposa di Giuseppe, si sia trovata a essere incinta per opera dello Spirito Santo e di come Giuseppe sia stato convinto da un Angelo del Signore a tenerla con sé e a dare al bambino il nome di Gesù. (11) Come si può già chiaramente intuire il film inizia seguendo quella che sarà una regola nel corso del suo svolgimento, cioè la fedeltà al Vangelo di Matteo. Infatti nella sequenza i personaggi non proferiscono una sola parola, come avviene in Matteo (fatta eccezione per ciò che dice l'Angelo a Giuseppe (12) e per la voce fuori campo che riporta le parole del profeta). (13) Si ha così modo di vedere come Pasolini sia in grado di far "parlare" le facce, i visi mediante le loro espressioni: accade in questo caso che la colonna visiva ci sveli e ci descriva, nello stesso momento, gli stati d'animo dei personaggi, descrizione che rispecchia, a mio avviso, quella dei Vangeli Apocrifi. (14) Vediamo, di seguito, come tutto ciò possa accadere.

Inq. 1: PP di Maria che tace, non guarda in macchina (si direbbe quasi che cerchi negli occhi di chi ha davanti aiuto, comprensione). (15)

Inq. 2: in controcampo PP di Giuseppe tace, non guarda in macchina (guarda certamente Maria che sta di fronte a lui, l'espressione del viso denota uno stato d'animo profondamente combattuto, incerto, (16) sembra quasi celare un distante moto di indignazione, forse un atto d'accusa, forse un rimprovero). (17)


Inq. 3: la MDP stacca e torna su Maria in PP, tace sempre ma ora abbassa gli occhi (come se non riuscisse più a sostenere lo sguardo di Giuseppe o come se non riuscisse a sopportare che la sua buona fede venga messa in discussione).


Inq. 4: la MDP torna in PP su Giuseppe.


Inq. 5: in CM appare Maria inquadrata in FI (è in piedi, guarda per terra, sempre in silenzio. Solo ora si scorge che è incinta. Sullo sfondo si alza un muro di mattoni con un arco romanico a tutto sesto, che è stato murato ma lascia comunque intravedere una porzione di cielo, che fa quasi da cornice alla figura). (18)


Inq. 6: Giuseppe in CM si allontana e varca una porta (è la prima inq. in cui notiamo un movimento di macchina, panoramico verso destra).


Inq. 7: in CM la MDP mostra frontalmente Maria che si avvicina, avanzando lentamente dall'uscio della casa che sta sullo sfondo. Sull'uscio si affacciano alcune donne (una tiene in braccio un bambino) per vedere. Maria si ferma, inquadrata in PA. Si intuisce che guarda Giuseppe mentre si allontana.


Inq. 8: in CM Giuseppe viene inquadrato di spalle mentre va via per una stradina. 


Inq. 9: PP di Maria, defilata sulla destra dell'inquadratura; sulla sinistra, senza profondità di campo, si intravede lo sfondo, sfocato, con l'uscio della casa e le persone che vi sono affacciate per assistere alla scena (19)


Inq. 10: ancora Giuseppe in CM, di spalle, che cammina.


Inq. 11: PPP di Maria (si intuisce che in un primo momento guarda Giuseppe andare via, poi abbassa gli occhi, tace)
(C'è ora un cambiamento di scena. Inizia la sequenza 2). (20)

Inq. 12: la macchina da presa segue Giuseppe. Si scorge in CL un villaggio arroccato su un colle (è la Palestina di duemila anni fa ricostruita nell'Appennino meridionale, fra i Sassi di Matera e le brulle campagne del Mezzogiorno).

Inq. 13: la MDP, con una panoramica prima verso destra, poi verso sinistra, ci mostra il villaggio e si sofferma su un gruppo di bambini che giocano.


Inq. 14: Giuseppe guarda i bambini e si appoggia a una pietra, dove si assopisce.


Inq. 15: si vedono ancora i bambini.


Inq. 16: Giuseppe, appoggiato alla pietra, dorme.


Inq. 17: ancora i bambini.


Inq. 18: PP di Giuseppe che dorme. Il vociare dei bambini, che finora si sentiva, cessa di colpo e Giuseppe apre improvvisamente gli occhi. (21)


Inq. 19: in controcampo appare l'Angelo in FI, in piedi sopra una roccia, che pronuncia le parole cui si è già accennato (è un'immagine che colpisce per la sacralità, ottenuta grazie all'uso della luce, e per l'impatto emozionale che causa nello spettatore).


Inq. 20: PPP di Giuseppe.
(Nuovo cambio di scena con Giuseppe che fa ritorno verso casa).

Inq. 21: la MDP stringe l'inquadratura verso la casa dove sta Maria.

Inq. 22: Giuseppe, ora inquadrato frontalmente, fa ritorno verso casa.


Inq. 23: la MDP segue Giuseppe. (Queste inquadrature sono accompagnate dal "Gloria" dalla Missa luba, il motivo di gioia, che accompagna diversi momenti del film. È l'unico intervento musicale nella sequenza descritta).
(La scena torna al di fuori della casa, dove la sequenza ha avuto inizio: seq. 3).

Inq. 24: Maria esce di casa per andare incontro a Giuseppe. È inquadrata obliquamente, in FI.

Inq. 25: PP di Maria.


Inq. 26: Giuseppe entra nel cortile e si ferma (ecco che si ripresenta la situazione iniziale).


Inq. 27: PP di Maria (sorride).


Inq. 28: PP di Giuseppe (anche lui, in segno d'intesa, sorride dolcemente).


Inq. 29: PP di Maria (sorride).


La sequenza è costruita in modo tale che già la consequenzialità delle immagini costituisca di per sé un piano semantico compiuto e che non ci sia bisogno di dialoghi per afferrarne il senso. È possibile individuare al suo interno quattro parti ben distinte, che chiameremo:

A) incontro Maria - Giuseppe (inqq. 1-11);


B) "sogno" di Giuseppe (inqq. 12-20);


C) ritorno a casa di Giuseppe (inqq. 21-23);


D) nuovo incontro tra Maria e Giuseppe (perdono, inqq. 24-29).


Di queste quattro parti, A e D appaiono come un blocco unico, attraversato da B e C che costituiscono una sorta di parentesi, esplicativa all'interno del contesto, o meglio risolutiva ai fini dell'intreccio: grazie alle parole dell'Angelo, infatti, Giuseppe scaccia da sé ogni dubbio e si viene a creare una nuova intesa con Maria. Il costante uso del sintagma alternante in A e D è l'elemento che ci dà l'idea di come queste due parti costituiscano un tratto unico, in cui convergono B e C per dare compimento all'azione. (22) Al di là del discorso diegetico unitario, che ricalca fedelmente, come ho già detto, il Vangelo di Matteo (con un occhio anche al testo degli Apocrifi), (23) non si può non tenere conto dell'unicità e della significazione profonda che in sé e per sé producono le parti A e D, del plus-valore di senso che si viene ad aggiungere sul piano connotativo; già dalla trascrizione appare chiaro il modo della comunicazione fra i due personaggi, fatto essenzialmente di sguardi, impressioni ed espressioni, in cui il silenzio gioca un ruolo primario. Ma è anche importante sottolineare il fatto che esso coinvolge non solo i due protagonisti, ma anche il fruitore del film, lo spettatore: si crea così una sorta di triangolo, in cui il silenzio costituisce i lati che uniscono i tre vertici, cioè il modo di comunicazione fra i personaggi e il mezzo di comprensione (insieme - ovviamente - a quello visivo) per lo spettatore. Questa forma di comunicazione è descritta con elementi denotativi di tipo puramente visivo e il silenzio è un dato di fatto, ma è evidente che non è una mancanza, bensì un elemento portatore di senso, carico di significato a livello connotativo, (24) un dato aggiuntivo ancora più pregnante della parola, che qui non trova spazio, né per esprimere ciò che già è chiaro, né per tentare di spiegarlo.
In questo modo, utilizzando un linguaggio del tutto personale, Pasolini ricollega la sua opera a un topos religioso (e filosofico), quello del silenzio. Lo spettatore si trova così in mano una chiave di lettura aggiuntiva, che rimanda a un'analisi specifica.
Il silenzio, in qualsiasi religione, sta a significare, o meglio accompagna, nella maggior parte dei casi, il momento di raccoglimento, di riflessione, di preghiera dei fedeli. Nella Bibbia (come nella vita degli uomini ) esiste un silenzio sensato e un silenzio imprudente, (25) e ciò dipende dalla situazione, dalla circostanza particolare. (26) La reticenza e il silenzio erano una regola per gli orfici e per i pitagorici. Ancora in ambito biblico, troviamo nel Vecchio Testamento il silenzio di Dio che significa un mancato intervento nella vita dell'uomo, e può essere tragico o benevolo per gli uomini stessi. (27) Con la rivelazione di Cristo nel Nuovo Testamento cessa per sempre il silenzio divino. (28) Nel libro dell' Apocalisse tutto tace per circa mezz'ora dopo l'apertura del settimo sigillo, poco prima che le sventure si abbattano sulla Terra; (29) si tratta, in questo caso, di silenzio del creato (e, ovviamente, delle creature) al cospetto di Dio, tema che troviamo anche nel libro del profeta Zaccaria, dove egli invita gli uomini a tacere di fronte a Dio, " poiché egli si è destato dalla sua santa dimora ". (30)
Molti altri sono i passi delle Scritture in cui è presente questo tema, ma quello che più degli altri coinvolge la nostra analisi, contenuto nel libro del profeta Daniele, (31) è senz'altro l'episodio di Susanna, (32) moglie di un membro della comunità ebraica di Israele, che viene ingiustamente condannata a morte con l'accusa di adulterio da parte di due anziani, senza avere neanche la possibilità di difendersi rispondendo alle accuse che le vengono rivolte. Solo l'intervento del profeta riuscirà a salvarla e a convincere la comunità della reale innocenza della giovane donna.
È molto interessante notare che Susanna, nel momento in cui si sente accusata di quei fatti che pure non ha commesso, rimanga totalmente in silenzio: (33) al di là della ragione contingente di tale silenzio, (34) esiste certamente una spiegazione ermeneutica più profonda che possiamo trovare in Ambrogio. Egli accosta in diverse opere il silenzio di Susanna a quello di Cristo, che, tacendo di fronte alle calunnie che gli venivano mosse contro, andò incontro alla morte per redimere il mondo dai propri peccati, (35) e ignorando le accuse rivoltegli dal tribunale tolse ad esse ogni validità. (36) Perciò quello di Susanna è certamente il tipo di silenzio che Ambrogio, in opposizione a quello otiosum (inerte), definisce, nel De officiis, negotiosum (attivo, sensato), per spiegare al lettore i casi in cui tacere è più conveniente, più utile e persino più significativo che parlare:


Quid igitur? Mutos nos esse oportet? Minime. Est enim tempus tacendi et tempus loquendi. Deinde, si pro otioso verbo reddimus rationem, videamus ne reddamus et pro otioso silentio. Est enim et negotiosum silentium, ut erat Susannae, quae plus egit tacendo quamsi esset locuta. (37)
Susanna dunque, col suo silenzio, dice, secondo Ambrogio, più di quanto avrebbe detto con le parole, e, pur non parlando con gli uomini, riesce in se stessa a comunicare con Dio:
Tacendo enim apud homines locuta est deo nec ullum maius iudicium suae castitatis invenit quam silentium. Conscientia loquebatur, ubi vox non audiebatur, nec quaerebat pro se hominum iudicium quae habebat domini testimonium. (38)

Alla luce di quanto detto finora, è interessante notare le affinità che emergono fra Susanna e il personaggio di Maria (così come appare nella prima sequenza del film, sulla quale ci siamo finora soffermati). Abbiamo già detto di come la comunicazione per mezzo del silenzio sia rappresentata denotativamente attraverso la colonna visiva; si è anche già detto come Pasolini abbia volutamente fatto riferimento a un luogo topico religioso-letterario che contribuisce ad allargare ulteriormente i vari livelli di significazione della sua opera. (39) Maria si trova in una situazione simile a quella di Susanna: Giuseppe, nel vederla incinta, è molto dubbioso sulla sua buona fede, ma lei non ritiene di doversi discolpare con le parole e perciò rimane in silenzio; (40) tuttavia il suo è un silenzio assai eloquente, sa dentro di sé di non aver commesso alcuna colpa e lo comunica a Giuseppe attraverso gli occhi e a Dio attraverso la propria mente, tacendo; e, proprio come accadeva a Susanna, salvata grazie al provvidenziale intervento del profeta, ecco che un Angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe, rivelandogli la verità, fugando così ogni dubbio dalla sua coscienza.
Altre sequenze che coinvolgono il personaggio di Maria sono assai significative dal "punto d'ascolto" del silenzio. Si può parlare, ad esempio, della scena della seconda apparizione dell'Angelo, che in sogno annuncia a Giuseppe che può fare ritorno in Israele (41). È un momento assai toccante del film, in cui la comunicazione fra Giuseppe e Maria avviene per sguardi, espressioni, negli stessi modi descritti nell'analisi della prima sequenza. La giovane Maria, interpretata da Margherita Caruso, continua a comunicare per mezzo del suo viso, i cui enormi occhi dallo sguardo dolce e malinconico riempiono lo schermo, segnando in modo indelebile la memoria visiva dello spettatore. La sequenza è accompagnata dalla musica di Bach (Adagio dal Concerto BWV 1060), che, in mancanza dell'evento sonoro verbale, assume una funzione ancora più evidente di connotazione dello stato emotivo delle immagini. Lo stesso accade in un'altra sequenza "muta", quella della visita dei Magi, in cui lo "spiritual" Sometimes I Feel Like a Motherless Child riempie lo spazio acustico, fungendo da cornice sonora alle splendide immagini che scorrono sullo schermo.
Un'altra sequenza - per concludere - che colpisce per il silenzio di Maria (che, conformemente alla fonte evangelica, non pronuncia una sola parola in tutto il film) è quella della predica in cui Cristo pronuncia le note parole: "Chi è la mia madre, chi sono i miei fratelli?". Il silenzio sta qui a sottolineare il dolore di Maria (ormai vecchia, interpretata dalla madre del regista) nel sentire pronunciare quelle parole, e successivamente nel vedere andare via il proprio figlio. Dolore accompagnato dalle strazianti note del motivo "di morte" di Johann Sebastian Bach, l' Adagio dal Concerto BWV 1042.

Note

(1) Questo non ci stupisce, già sapendo che il gusto cinematografico di Pasolini trae origine dall'arte figurativa ancor prima che dal cinema stesso. Sui rapporti fra il regista e le arti figurative v. GALLUZZI 1994.
(2) Cfr. METZ 1989: 78 e ss. Metz, ripercorrendo attraverso un'analisi semiologica le principali tappe dello sviluppo del linguaggio cinematografico, insiste particolarmente sul "paradosso" del cinema sonoro, e sul fatto che l'avvento, intorno al 1930, del sonoro nei film abbia rivoluzionato il concetto stesso di linguaggio cinematografico (o, se così vogliamo intendere, di espressività delle immagini), e che molti autori del muto pensavano che questo potesse costituire la rovina del cinema stesso. Alla luce di questa analisi, è innegabile che il linguaggio cinematografico abbia subito un'importante evoluzione (ma è un'evoluzione naturale e tuttora in atto), ma è anche vero che, in un panorama in cui la parola assume un effetto drammatico determinante, spesso tendente a un'eccessiva verbosità, la pura espressività delle immagini, in quanto di per sé rara, diviene ancor più notevole e significante.
(3) Cfr. Aristot. Poet. 6
(4) Questa sequenza riporta alla mente quella del sogno iniziale de Il posto delle fragole di Bergman.
(5) MURRI 1994: 28.
(6) "Dai vita al seme, rinasci dal seme": sono le parole pronunciate dall'eroina. Sull'argomento cfr. FUSILLO 1996: 127-179 e RIVOLTELLA: 1991.
(7) Problema che ci riporta a tematiche del cinema più recente, molto care a un autore come David Lynch, che insiste molto sulla percezione sensibile del delirio "surreale" contrapposta alla percezione visiva in dimensione spesso iper-reale del fatto reale. E a proposito di Lynch vorrei qui aprire una breve parentesi, dato che il tema del silenzio, alla base di questa analisi, può fornire spunti di riflessione molto interessanti anche a partire dall'opera del regista statunitense. Citerò due esempi: il primo è Una storia vera, e mi riferisco alla sequenza finale, quella dell'incontro dei due fratelli Straight, al modo della comunicazione fra i due, fatto di sguardi, di gesti, di silenzio, che può essere paragonabile a quello che vedremo ne Il Vangelo secondo Matteo. Il secondo, un caso certo differente, è il recente Mulholland Drive; si ricordi la frase ricorrente (che rimane indelebilmente impressa, e rimbomba nella mente dello spettatore): "no hay banda, no hay orquesta…silencio…". Silencio, una parola che è certamente una delle possibili chiavi di lettura del film, cfr. a proposito CENSI 2002: 11.
(8) Come nota FUSILLO 1996: 127-132.
(9) RONDOLINO 1991: 109.
(10) Così felicemente definito in MURRI 1994: 54.
(11) Cfr. Mt I, 18-25.
(12) Nel film il discorso pronunciato dall'Angelo è ripreso fedelmente da Mt I, 20-21: "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati." V. inqq. 19-20.
(13) Anche qui si segue fedelmente il testo evangelico, che a sua volta si riferisce a un passo biblico (cfr. Is 7, 14); Mt I, 23: "ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi." V. inqq. 21-22.
(14) Cfr.Protovangelo di Giacomo, XIII-XIV, e Ps.-Mt, X-XI.
(15) Fuori dalle parentesi è presente una sintetica descrizione degli elementi denotativi della colonna visiva della sequenza; fra parentesi ho inserito elementi più spiccatamente personali, passibili di interpretazione, senza alcuna pretesa di oggettività.
(16) Cfr. Protovangelo di Giacomo, XIV, 1.
(17) Cfr. Protovangelo di Giacomo, XIII, 2
(18) Con un evidente richiamo figurativo a Piero della Francesca, come ci dice l'autore stesso nella sceneggiatura del film, VSM: 487. In tutta la sequenza notiamo comunque un senso della misura estremamente simmetrico che denota un'ispirazione alla più alta tradizione pittorica italiana; cfr. anche PPC 1: 672-673: "La mescolanza, nel testo sacro, di violenza mitica […] e di cultura pratica […] proiettava nella mia immaginazione una doppia serie di mondi figurativi, spesso connessi fra loro: quello fisiologico, brutalmente vivente, del tempo biblico […], e quello ricostruito dalla cultura figurativa del Rinascimento italiano, da Masaccio ai manieristi neri".
(19) È la prima inquadratura da cui traspare quello che sarà il modulo linguistico predominante nel Vangelo, casualità e asimmetria vs frontalità e rigore geometrico, cfr. CT.
(20) VSM: 488-489.
(21) Si tratta di una rappresentazione del sogno assai essenziale. I rumori di fondo e le voci indistinte dei bambini cessano tutto a un tratto e un silenzio improvviso che si crea ci riporta all'atmosfera indefinita tipica del ricordo che si ha di un sogno avuto. A questo proposito mi sembra interessante notare le affinità con la scena del sogno in Accattone, rappresentato in modo assai più articolato, ma con modi sostanzialmente simili: inquadratura sul protagonista che dorme, sostenuta dalla musica di Bach, stacco della MDP e inizio del sogno, e contemporaneamente stacco della musica e immersione in un silenzio irreale, con assenza di rumori di fondo.
(22) Nel linguaggio filmico esistono tre tipi di sintagma alternante: il sintagma alternativo, che mostrando di seguito due immagini cronologicamente consecutive, presuppone da parte dello spettatore un'operazione intellettiva basata su un nesso analogico, il sintagma alternato, costituito da immagini contemporanee montate arbitrariamente (è il caso della nostra sequenza) e il sintagma parallelo, che mostra di seguito due immagini apparentemente senza alcun nesso analogico o temporale che le leghi. Sull'argomento cfr METZ 1989: 146-148.
(23) Il film e la sequenza in questione ci riportano all'atmosfera di un'opera, liberamente ispirata ai Vangeli Apocrifi, apparsa a distanza di pochi anni e appartenente a un comune tessuto culturale, pervasa da un tipo di religiosità se non simile, almeno paragonabile a quella di Pasolini: parlo dell'album La Buona Novella di Fabrizio De André. Basti pensare, a proposito, ai versi della canzone Il Sogno di Maria: "e la parola ormai sfinita \ si sciolse in pianto, \ ma la paura dalle labbra \ si raccolse negli occhi…"; sull'argomento sono presenti alcuni accenni in GIUFFRIDA - BIGONI 1997: 62-66.
(24) Sul rapporto fra cinema e linguistica, in particolare sui concetti di denotazione e connotazione cfr. METZ 1989: 138-141.
(25) Cfr. Eccle 3, 7.
(26) Cfr. WAU 1971.
(27) Cfr. Is 64, 11, Gb 30, 20, Ab 1,13. Il tema del silenzio di Dio, per rimanere in ambito cinematografico, ha ispirato, in modo molto particolare, il grande maestro svedese Ingmar Bergman. Partendo daI Il Settimo Sigillo per arrivare ai film della "presunta" trilogia sul silenzio di Dio (Come in uno specchio, Luci d'inverno, Il silenzio), Bergman dimostra una grande sensibilità e un'impostazione del tutto personale nell'affrontare il tema, v. TRASATTI 1993: 33-36 e 67-79.
(28) Cfr. Rm 16, 25 : "a colui che ha il potere di confermarvi secondo il vangelo che io annunzio e il messaggio di Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni, ma rivelato ora…"
(29) Cfr. Ap 8, 1 : "Quando l'Agnello aperse il settimo sigillo si fece silenzio in cielo per circa mezzora."
(30) Zc 17,2.
(31) Dn 13.
(32) Sul motivo del silenzio in questo episodio biblico v. PIREDDA 1991.
(33) Cfr. Dn 13, 36-42. Le uniche parole che Susanna pronuncia in tutto l'episodio non sono finalizzate alla difesa della propria innocenza, ma sono un ulteriore atto di fede nei confronti di Dio (Dn 13,42).
(34) La situazione di inferiorità della donna nella società ebraica non le permetteva di parlare a propria discolpa in un processo, PIREDDA 1991: 170.
(35) Cfr. Ambr. expos. ps. CXIII 20,35.
(36) Cfr. Ambr. expos. Luc. X 97.
(37) Ambr. Off. I 3, 9: "e che dunque? È necessario tacere? No davvero. C'è un tempo giusto per tacere e uno per parlare. E poi, se rendiamo conto di un parlare inerte, cerchiamo di non dover rendere conto anche di un silenzio inerte. Esiste infatti un silenzio sensato, come quello di Susanna, che ottenne tacendo più di quanto avrebbe ottenuto con le parole."
(38) Ambr. Off. I 3, 9: "tacendo infatti davanti agli uomini, ella parlò con Dio, e non trovò per la sua castità giustificazione più grande del silenzio. Era la coscienza a parlare, laddove la voce non poteva essere udita, e non chiedeva per sé il giudizio umano, lei che aveva la testimonianza di Dio".
(39) Oltre all'istanza espressa (connotata, che a grandi linee corrisponde, in linguistica, al significante) e a quella rappresentata (denotata, ovvero il significato) si viene ad aggiungere al piano semantico un legame con fonti precedenti non propriamente attinenti al tema trattato dal film (o dalla sequenza in questione). Cfr. METZ 1989: 140.
(40) Sappiamo che anche Giuseppe non pronuncia alcuna parola nell'arco di tutta la sequenza, tuttavia sembra più giusto soffermarsi sul silenzio di Maria, che, proprio per il confronto con Susanna, si carica maggiormente di significato.
(41) Bisogna notare che anche in questa sequenza, come nella prima, si sente l'influenza dell'atmosfera degli Apocrifi, soprattutto nella bellissima immagine di Cristo fanciullo che gioca in maniera gioiosa, come un bambino qualsiasi.
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NOTA BIBLIOGRAFICA
CENSI 2002
Rinaldo Censi, "In Statu Nascendi", Cineforum n. 413, Aprile 2002, pp. 11-13.
CT
Pier Paolo Pasolini, "Confessioni tecniche", in Pier Paolo Pasolini, Pier Paolo pasolini. Per il cinema, a cura si Walter Siti e Franco Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, pp. 2768-2781, vol. II (già in, Uccellacci e uccellini, un film di Pier Paolo Pasolini, Milano, Garzanti, 1966).
FUSILLO 1996
Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini: mito e cinema, Firenze, La Nuova Italia, 1996.
GALLUZZI 1994
Francesco Galluzzi, Pasolini e la pittura, Roma, Bulzoni, 1994
GIUFFRIDA - BIGONI 1997
Romano Giuffrida - Bruno Bigoni, "Canzoni corsare", in Fabrizio De André. Accordi eretici, a cura di Romano Giuffrida e Bruno Bigoni, Milano, Euresis, 1997, pp. 62-66.
METZ 1989
Christian Metz, Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1989. (tit. orig. Essais sur la signification au cinéma, Éditions Klincksieck, 1968).
MURRI 1994
Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Milano, Editrice Il Castoro, 1994.
PPC (1-2)
Pier Paolo Pasolini, Pier Paolo pasolini. Per il cinema, a cura si Walter Siti e Franco Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, 2 vol.
PIREDDA 1991
Anna Maria Piredda, "Susanna e il silenzio. L'interpretazione di Ambrogio", Sandalion" 14, (1991), pp.169-192.
RIVOLTELLA 1991
Pier Cesare Rivoltella, "Per una lettura simbolica del film Medea di Pier Paolo Pasolini", in Sulle orme dell'antico, a cura di A. Cascetta, Milano, Vita e Pensiero, 1991, pp. 263-282.
RONDOLINO 1991
Gianni Rondolino, Cinema e musica, Torino, UTET Libreria, 1991.
TRASATTI 1993
Sergio Trasatti, Ingmar Bergman, Milano, Editrice Il Castoro, 1993.
VSM
Pier Paolo Pasolini, "Il Vangelo secondo Matteo", in Pier Paolo pasolini. Per il cinema, a cura si Walter Siti e Franco Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, vol. 1, pp. 485-682 (I ediz. Il Vangelo secondo Matteo, a cura di G. Gambetti, Milano, Garzanti, 1964).
WAU 1971
Carlos Wau, "Silenzio", in Enciclopedia della Bibbia, Torino-Leumann, ELLE DI CI, 1971, vol. VI, pp. 460-461.
Fonte:
http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/14.htm


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