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lunedì 22 aprile 2013

Il Teorema Pasolini secondo Grzegorz Jarzyna

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Il Teorema Pasolini secondo Grzegorz Jarzyna

Tra i drammi scritti nel 1965 da Pier Paolo Pasolini c’era anche un primo abbozzo di Teorema, che sarebbe stato pubblicato tre anni dopo in forma di romanzo (con inserti di poesia), pochi mesi prima dell’uscita in sala dell’omonimo film. La storia di un giovane e affascinante sconosciuto che, ospite di una rispettabile famiglia milanese, finisce per diventare l’anomalia incontrollata in grado di frantumare in mille pezzi un intero mondo di ipocrisie borghesi fece scandalo. Il ragazzo seduce sistematicamente tutti gli abitanti della casa: domestica, madre, figlia, figlio e addirittura lo stesso pater familias Paolo, industriale meneghino che – come in altre opere pasoliniane – compone il simbolo della società dei consumi e dell’apparenza.
Dopo più di 40 anni ci capita di assistere a una riduzione teatrale firmata nel 2009 da Grzegorz Jarzyna, probabilmente il maggiore regista polacco attualmente in attività. Classe 1968, direttore dell’innovativo teatro TR Warsawa dal ’98, le sue messinscene sono state ospitate, applaudite e premiate in tutto il mondo. A giudicare dallo stile molto netto e pulito della recitazione, coadiuvata da radiomicrofoni e che dunque restituisce una qualità acustica quasi radiofonica, Jarzyna sembra avere ben presente il film. Tuttavia la parola cede volentieri il passo alla scena e alle luci riempiendo la profondità del palco con corpi e ambienti, lasciando loro lo spazio per creare un dialogo muto, fatto di movimenti ampi, sapiente gioco sulla prossemica e attenta conquista dello spazio.
Visivamente impeccabile, lo spettacolo procede per quadri: la messa in scena meticolosa di ogni piccolo dettaglio come la scelta dell’arredamento – sfacciatamente in stile Italia anni Sessanta -, gli oggetti posizionati in scena, la partitura musicale e sonora, i passi calcolati dagli attori per raccogliere le luci, tutto ricostruisce alla perfezione la vuota routine borghese fatta di lunghi minuti di rituale trucco e parrucco di fronte allo specchio, ripetizione insensata di gesti e una glacialità di rapporti che mette i brividi. L’arrivo dell’ospite, chiamato semplicemente “ragazzo”, una figura segaligna con il fascino trasandato dello zingaro, spezza la corda di queste insopportabili piattezza e superficialità, ben rese dalla regia tramite la ripetizione di scene identiche se non per qualche minuscolo spostamento dei mobili e cambi scena che, nella penombra, lasciano intravedere gli attori impegnati in frenetici movimenti di insofferenza.
Da qui pare riaffiorare una memoria del romanzo ancora più viva di quella del film, grazie alla scelta di far evolvere la storia senza reali colpi di scena, ma lasciando piuttosto allo spettatore tempo e modo di osservare, in una vertigine pornograficamente voyeuristica ed estremamente letteraria, il verificarsi degli effetti.
La sistematica distruzione delle certezze borghesi avviene con lo stesso ritmo dilatato con cui esse ci erano state presentate; il ragazzo agisce quasi completamente in silenzio, muovendo da una seduzione all’altra con un passo viscido simile a quello degli insetti necrofagi nei documentari naturalistici. Mentre nella prosa il ragazzo riparte all’improvviso, misteriosamente come era apparso, qui è il capofamiglia Paolo ad allontanarlo, in una scena che, tentando di recuperare lo slancio poetico del romanzo, esplode in una catarsi verbale tuttavia sopra le righe. Più efficace è - ancora una volta – la freddamente schematica carrellata sulle reazioni della famiglia, orchestrate in una pantomima: la domestica che se ne torna in campagna finendo i suoi giorni su una panchina in stato catatonico, il figlio che sfoga la rabbia nella pittura astratta, la figlia internata in manicomio, la madre che si concede violentemente alla fame sessuale di una schiera di ragazzi di strada e infine Paolo, che si denuda nel mezzo della stazione centrale.
Il personaggio di Angiolino (che fu di Ninetto Davoli, attore-feticcio di Pasolini) funge qui come agente estraneo, figura liminale e termometro dell’intera metafora; a lui è affidato l’epilogo che narra, come un delirio, il viaggio di Paolo in un deserto arso e arido. In questa ultima tirata raccoglie le forze l’intero intento allegorico della storia, evocata da Jarzyna con grande sapienza tecnica e stilistica e tuttavia forse troppo autocompiaciuta. Come se, pur date per buone certe strizzate d’occhio al gusto estetizzante proprio di Pasolini stesso, mancasse quel calore necessario a far detonare la metafora nei cristalli di urgenza di un messaggio morale.
Sergio Lo Gatto

Fonte:
http://www.teatroecritica.net/2012/03/il-teorema-pasolini-secondo-grzegorz-jarzyna/



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