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lunedì 22 aprile 2013

Teorema (Pier Paolo Pasolini, 1968) - il film

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Teorema (Pier Paolo Pasolini, 1968) - il film

Teorema è un film sulla crisi della borghesia italiana della fine anni sessanta e inizio anni settanta, sul vuoto vivere delle classi abbienti e sugli effetti nefasti causati da una rottura del fragile equilibrio, di un mondo retto da leggi e regole e condizioni di vita consolidate (benessere, educazione). Un mondo apparentemente libero e sorretto dalle certezze (borghesia come élite, guida del paese, esempio per le classi meno abbienti, fiducia nella credenza di essere depositaria di un'etica assoluta) viene prima sconvolto poi distrutto dall'arrivo di un visitatore che coinvolge tutti i componenti della famiglia (serva, figlio, figlia, madre e padre) in un rapporto amoroso, rompendo ogni legame con le apparenze ma allo stesso tempo (con l'abolizione dei falsi idoli quali status sociale, convenienze, ecc.) rendendoli consapevoli del vuoto che li circonda. Le conseguenze saranno nefaste. Lo sviluppo del film vuole sottolineare (dimostrare come un teorema) la logica di questo mondo vuoto, la facilità con cui può essere frantumato e l'atroce consapevolezza della perdita di ogni certezza. Teorema, anche soltanto con queste premesse, sarebbe comunque un film importante, ma ciò che interessa è il modo in cui questo teorema viene dimostrato. Pasolini lavora soprattutto su quegli aspetti che caratterizzano il cinema moderno, lasciando implodere la narrazione, facendo uscire il discorso alla superficie. La narrazione è tutta in una frase: un uomo venuto da fuori sconvolge la vita di una famiglia borghese. Il resto è tutta una matematica degli eventi, ma non solo.
Gilles Deleuze non crede che Teorema sia un film teorematico ma soprattutto problematico:

"[...] il teorema sviluppa rapporti interni di massima con conseguenze, mentre il problema fa intervenire da fuori un avvenimento, ablazione, aggiunta, sezione, che costituisce le proprie condizioni e determina il "caso", o i casi, così come l'ellisse, l'iperbole la parabola, le rette, il punto sono i casi di proiezione del cerchio su dei piani secanti, in rapporto alla sommità di un cono." (1)Per Deleuze la deduzione di Pasolini in Teorema è più problematica che teorematica. "L'inviato del fuori è l'istanza a partire dalla quale ogni membro della famiglia sente un avvenimento o affetto decisivi, che costituisce un caso del problema [...]. Ogni caso, ogni sezione, sarà considerata come una mummia, la figlia paralizzata, la madre fossilizzata nella propria ricerca erotica, il figlio con gli occhi bendati che urina sul proprio quadro, la serva in preda alla levitazione mistica, il padre animalizzato, naturalizzato"(2). C'è ancora un fuori che interviene provocando una metamorfosi, un fuori che trascina con sé l'imponderabile, non un nuovo sapere (che dovrebbe sostituire il falso sapere dell'incipit: "[...] la deduzione problematica immette nel pensiero l'impensato, perché lo destituisce di ogni interiorità per scavarvi un fuori, un rovescio irriducibile, che ne divorano la sostanza" (3). Il pensiero insomma prende il sopravvento sull'immagine (o almeno sull'immagine senso-motoria) o meglio, come si domanda Deleuze, potremmo trovarci di fronte a un cinema giunto a "[...] un proprio rigore matematico che non concerne l'immagine (come nel vecchio cinema che già la sottometteva a rapporti metrici o armonici), ma al pensiero dell'immagine [...](4). Questo pensiero allenta la narrazione (tramite la poesia) e mostra un nuovo tipo di immagine (l'immagine-pensiero o l’immagine-emozione?). Gli aspetti più interessanti di questa metamorfosi riguardano soprattutto. 1) Incipit, 2) Spazio-tempo, 3) Montaggio, 4) Esistenti, 5) Cinema di Poesia.

1) Dopo un brevissimo incipit da film documentario (intervista agli operai divenuti proprietari di una fabbrica regalata loro dal padrone che si è spogliato non solo di tutti i beni ma pure dei vestiti) e l'immagine di un deserto (che ritorna durante tutta la durata del film), le prime sequenze in bianco e nero mostrano la vita quotidiana precedente l'arrivo del visitatore, la routine di una ricca famiglia borghese: uscita in auto dalla fabbrica di Paolo (il padre), il figlio (Pietro) che esce da scuola e che fa lo scemo con gli amici, uscita di Odette (la figlia) dalla scuola, la madre Lucia seduta nella villa intenta a leggere un libro, Emilia la serva, infine la famiglia riunita al tavolo da pranzo. Questo incipit sembra direttamente estratto dal cinema muto (solo musica extradiegetica e immagini in b/n) come se la normale e gradevole vita del prima (di un mondo senso-motorio) fosse un'opera muta del cinema degli inizi, una storia qualunque che potrebbe essere stata presa a caso dal passato o da un presente già morto. Sempre all'interno del cinema muto il fuori dà i suoi primi segnali (stacchi tra sequenze o all'interno di sequenze con l'immagine del deserto e quindi l'arrivo di un postino danzante che consegna una lettera alla serva). Nell'inquadratura sempre in b/n della famiglia seduta al tavolo intenta a pranzare, la serva consegna al padre il telegramma su cui è scritto: "Arrivo domani". A questo punto nel film irrompe il sonoro e l'immagine diventa a colori. La corruzione del prima ha avuto inizio, ciò che sembrava purezza delle origini, era solo un inconsapevole vagare nel deserto, mentre adesso sta per rivelarsi come vuoto incolmabile e irrecuperabile. Il mondo che irrompe con i suoni e il colore non è poi tanto più "rumoroso" del cinema muto (pochissimi dialoghi e rumori di fondo ridotti all'essenziale), ma si sgretola ogni volta di più dopo che ogni membro della famiglia viene sedotto (ma in realtà ognuno di loro lo ha sempre voluto anche quando non lo sapeva) dal visitatore esterno: una sorta di messia che porta il verbo della conoscenza o demone a cui interessa solo corrompere e sconvolgere?

2) La vita milanese che "circonda" gli esistenti è solo intravista, appena abbozzata. La fabbrica, proprietà del padre, è mostrata nell'incipit in campo lungo per mezzo di brevi inquadrature: sono immagini di capannoni senza alcuna presenza umana, senza i suoni e il vissuto classico di una fabbrica (ad esempio gli operai che escono o scherzano o lavorano). L'uscita dalla fabbrica del padre si rifà ovviamente al cinema delle origini (b/n e muto) ma non è, non può essere il cinema delle origini. Dalla fabbrica non escono le operaie come nell'Uscita dalle officine Lumière (il cinema delle origini possedeva un che di mitico che riusciva a rendere il movimento come parte fondante della vita), esce solamente Paolo, padrone non del mondo e della vita di una cittadina ma di edifici vuoti e muti. Così la scuola, la villa e gli interni della villa: cucina, sala, ingressi ecc., sembrano più luoghi deputati di un museo dove vengono raccolti oggetti. Lo spazio non è quello reale di una Milano efficiente e funzionale della fine anni sessanta, ma è uno spazio mentale, relegato ai margini, uno spazio qualsiasi, insignificante. Potremmo essere a Milano o Parigi o Londra o in nessun altro posto. Il tempo sembra non esistere, non funzionare non seguire una narrazione che stenta a mettersi in mostra, perché (così come lo spazio) deve essere funzionale all'istanza problematica (o volendo teorematica), deve dimostrare la prevalenza del nulla, l'assenza di qualsiasi punto di riferimento (che poi sarà per un breve periodo incarnato dall'ospite). Gli episodi dei familiari, i loro rapporti col visitatore, le loro reazioni all'abbandono potrebbero essere capovolti, spostati, allungati, ridotti, proprio perché il tempo del racconto è indebolito, non si mostra cronologicamente, ma utilizzando una sorta di sincronia diacronica. Diacronia dell’accadente o sincronia dell'accaduto, o di ciò che capita o è già capitato (e le inquadrature del deserto che frammentano il plot sembrano sottolineare l'avvenuto, il dipanamento della pellicola che mostra solo l'ineluttabile avvento-avvenuto del vuoto). Sintetizzando inquadrature statiche e "mute" (fabbrica, scuole con vita cittadina mostrata di sfuggita, casa vuota e arida), tempo vago e imprecisato e sviluppo degli eventi contemporaneamente sincronico e diacronico.

3) Le sequenze sono composte da molte inquadrature, campi controcampi, carrellate (anche con mdp a mano) come per mostrare uno spazio-tempo insulso che non funziona ma che fa affondare gli esistenti in un magma fluido, in un fango di immobilismo e disperazione. Pasolini non vuole mostrare uno spazio e definire un tempo, ma soltanto utilizzare questo spazio e questo tempo per dimostrare un teorema, o meglio per dedurre un problema. Pertanto le immagini degli ambienti sembrano più la proiezione del mondo interiore dei personaggi, il loro modo di sentire e percepire una realtà distante, incomprensibile, vuota. Il montaggio per Pasolini (tipico del film e non del cinema) deve dare senso al cinema come la morte dà senso alla vita, mentre il cinema è un infinito piano sequenza proprio come la realtà vista dal nostro sguardo è un'infinita soggettiva. Pertanto "[il] montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita.(5)

4) Allo stesso modo i personaggi sono sfuggenti e fragili. Inquadrati da lontano sembrano non andare da nessuna parte, si muovono incerti nell'ambiente, leggono od osservano, i volti sono inespressivi, vuoti, il loro sguardo osserva un altrove che sperano di trovare, un altrove che arriva quando sopraggiunge l'ospite. Parlano raramente e spesso per scusarsi, avendo terrore di oltrepassare la linea delle convenzioni. L'ospite al contrario è sicuro di sé e dona alla famiglia la certezza di poter superare in un attimo il nulla che li avvolge. Ma il deserto incombe, c'è e c'è sempre stato. Non è questione di salvezza o speranza ma di presente storico che si realizza nel film, in ogni film. Il visitatore è come un'istanza poetica che conduce al compimento del proprio destino, legge Rimbaud e sembra amare i suoi protetti. Ma non c’è amore, bensì una evanescente desertificazione dell'anima. I suoi gesti sembrano quasi automatici: quando abbraccia Pietro o si adagia sopra Emilia o Lucia non sembra colto da passione. Quando bacia Odette i suoi occhi sembrano fissare il vuoto. Il suo sguardo non irradia amore perché è lo sguardo distratto e insignificante che osserva il mondo contemplando il suo ineluttabile mistero, che osserva una classe sociale accompagnandola al suo declino. Interessante il momento dell'abbandono. Tutti i familiari faranno un breve monologo, con l’acquisita consapevolezza della loro perdita, il senso di un mondo vacuo ed evanescente. Pietro dice: "Lo capisco adesso che tu stai partendo e sapere di perderti è diventato la coscienza della mia diversità. Che cosa sarà di me d'ora in poi?" Lucia: "Dunque partendo non distruggi niente di ciò che c'era in me prima, se non una reputazione di borghese casta, ma che importa?, ma ciò invece che tu stesso mi hai dato: l'amore nel vuoto della mia vita lasciandomi lo distruggi tutto". Odette: "Ma adesso lasciandomi non solo mi fai riprecipitare indietro ma mi fai andare ancora più indietro. È questo che volevi?". Paolo: "Tu sei certamente venuto qui per distruggere. In me la distruzione che hai causato non poteva essere più totale. Hai distrutto semplicemente l'idea che ho sempre avuto di me". Dolore, distruzione, disperazione. Odette che diventa catatonica, Pietro che diventa artista inquieto, insoddisfatto, Lucia che inizia a frequentare tanti uomini e Paolo che si spoglia di tutto percorrendo nudo quel deserto che è sempre stato nel film sin dall'inizio. In Teorema si ha l’enunciazione formale e precisa di un cinema che toglie ogni illusione, perché distrugge il "vuoto" meccanismo della mimesi, dona consapevolezza, richiede spirito critico, annulla qualsiasi punto di riferimento: è il cinema della “soggettiva libera indiretta” la cui caratteristica è di non essere linguistica, ma stilistica. È il cinema di poesia (6).


(1) Gilles Deleuze, L'immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, p. 195.
(2)
Ib.(3) Ivi, p. 196. Voglio citare qui anche parte dell nota a pie' pagina (n. 37): "Il tema del Fuori, e del suo rapporto con il pensiero, è uno dei temi più costanti di Blanchot (in particolare L'infinito intrattenimento) [...].
(4) Ivi, p. 194.
(5) Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2000(3), p. 241.
(6) Ivi, pp. 167-187.

Fonte:
http://cinemante.blogspot.it/2010/07/teorema-pier-paolo-pasolini-1968-13-il.html


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Curatore, Bruno Esposito

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