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lunedì 22 aprile 2013

Pasolini - Cinema strumento di poesia

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Cinema strumento di poesia
di Corrado Benigni

La creatura, quali siano gli occhi suoi, vede/ l’aperto. Soltanto gli occhi nostri son/ come rigirati, posti tutt’intorno ad essa,/ trappole ad accerchiare la sua libera uscita.
R.M. RILKE, ELEGIE DUINESI


“Il cinema è strumento di poesia con tutto ciò che questa parola può contenere di significato liberatorio, di sovversione, di soglia attraverso cui si accede al mondo meraviglioso del subconscio”, ha scritto Luis Buñuel.(1) Tanto cinema “è” poesia. I tramonti di John Ford, i primi piani di volti e corpi di Ingmar Bergman, la surreale follia di Peter Greenaway, per citare solo alcuni esempi. La fascinazione della settima arte passa necessariamente attraverso una visione lirica del mondo, senza per questo doversi a tutti i costi contrapporre ad una concezione “realistica” del narrare per immagini.
Se da un punto di vista rigorosamente letterario il cinema sembra avere più parentela con la prosa (perché tanti film sono tratti da opere di narrativa, o più semplicemente perché alla base c’è sempre “una prosa”, la sceneggiatura), è altresì vero che le suggestioni immaginarie di molti registi si nutrono di poesia, magari senza citarla direttamente bensì “ricreandola” stilisticamente, proprio come i grandi autori citati sopra. Vi è un particolare mondo, appartenente alla dimensione umana, che si esprime solamente attraverso immagini significanti: “il mondo della memoria e dei sogni”, ha detto Buñuel.)2) Ecco dunque la corrispondenza di sensibilità tra cinema e poesia: la natura fortemente onirica di questi due linguaggi. Sulla stessa linea, secondo Pasolini “lo strumento linguistico su cui si basa il cinema è di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema”.(3)
Il cinema come la poesia è una forma di espressione più che di comunicazione. Tuttavia tra i due linguaggi il rapporto è disomogeneo. Forse ciò che veramente li accomuna è che alla base di questi due linguaggi c’è il tentativo di scandagliare – da prospettive diverse – il problema della visione, di cercare uno spazio di visione, una visione “esistenziale”, in quel gioco di ombre che fa scoprire che tutto il mondo è metafora di qualcosa, e da qui l’urgenza di “dare perimetro a ciò che è smisurato” come scrive Milo De Angelis nel suo saggio su Fuoco fatuo di Louis Malle. Questo bisogno è ancora più sentito nell’uomo contemporaneo, in questo tempo di “mancanza di visione”, dove a un eccesso di immagini si contrappone spesso l’incapacità di comprendere il reale, l’assenza di quell’attitudine dello sguardo che tende a vedere l’inclinazione del mondo, di cosa son fatte le cose e le persone, e dove vanno, che è poi il senso del nesso tra particolare e infinito.
Il celebre prologo di Un chien andalou di Buñuel(4), in cui vediamo accostate l’immagine “lirica” di una sottile nuvola che passa davanti alla luna e quella, letteralmente insopportabile, della lama di un rasoio che squarcia l’occhio di una donna, può essere assunto come il manifesto programmatico dell’incontro tra surrealismo e cinema, ma è soprattutto un perentorio invito a sovvertire tutte le convenzioni del vedere. L’occhio tagliato è l’occhio depurato, l’occhio hypocrite, potremmo dire ripensando al lecteur baudeleriano, che non cerca visioni ovvie, rassicuranti, distruttive, destinate ad esaurirsi con il consumo, bensì una scrittura di immagini mai udita che possa continuare ad essere letta e decifrata con gli occhi del pensiero.
“L’immagine è un’impressione della verità sulla quale ci è concesso di gettare uno sguardo con i nostri occhi ciechi”(5): così il cineasta Andrei Tarkovskij, figlio del poeta russo Arsénij. Il regista di Solaris associava la poesia al cinema evocando quella verità a cui è possibile accedere solo attraverso uno sguardo cieco. Un’inibizione dell’occhio, quella del poeta, ma sempre desta e sul punto di spiccare il salto. Viene in mente a questo proposito il film di Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House, dove un personaggio così replica al protagonista, che è un giovane pittore. “Io credo, Mr Neville, che un uomo intelligente possa essere soltanto un mediocre pittore, perché dipingere richiede una certa cecità, un parziale rifiuto ad accettare tutte le possibilità”.(6)
Per restare solo in Italia, da D’Annunzio alle avanguardie degli anni Venti, passando per Gozzano, Saba, Montale, Sereni, fino ai giorni nostri, come ci dimostrano gli autori di questa rassegna, fortissimo è da sempre il legame tra poeti e cinema. Come avvertiva Freud “il cinema è una dimensione della parola”, e la parola stessa è grafema, fonema e cinèma; l’immagine – nella metafora – è parte della parola.
D’Annunzio all’inizio del Novecento fu tra i primi a capire lo straordinario talento “metamorfico” della settima arte, al punto da designare come nume tutelare di essa Ovidio. Un decennio più tardi saranno Gozzano e Marinetti a difendere il cinema dagli attacchi dei letterati, anche se per motivi opposti. Al primo interessava la capacità del cinema di rendere liricamente la “prosa” quotidiana; al secondo, oltre al dinamismo dell’immagine in movimento, la sua capacità di dar vita a vaste reti di analogie e di associazioni mentali (da cui il “manifesto del cinema futurista”). Negli anni Venti Montale evidenzia le potenzialità artistiche ancora tutte da valorizzare del cinema. E a proposito di Montale, il primo a riconoscere proprio una dimensione cinematografica nei versi dell’autore delle Occasioni è stato Italo Calvino, che analizzando la poesia Forse un mattino(7) – tratta dalla raccolta Ossi di Seppia ha osservato: “La ricostruzione del mondo avviene “come s’uno schermo” e qui la metafora non può che richiamare il cinema. La nostra tradizione poetica ha abitualmente usato la parola “schermo” nel significato di “riparo-occultamento” o di “diaframma”, e se volessimo azzarderei ad affermare che questa è la prima volta che un poeta italiano usa “schermo” nel senso di superficie su cui si proiettano immagini, credo che il rischio d’errare non sarebbe molto alto. Questa poesia (datata fra il 1921 e il 1925) appartiene chiaramente all’era del cinema, in cui il mondo corre davanti a noi come ombre d’una pellicola, alberi, case e colli si stendono su una tela di fondo bidimensionale, la rapidità del loro apparire (“di gitto”) e l’enumerazione evocano una successione di immagini in movimento. Che siano immagini proiettate non è detto, il loro “accamparsi” (mettersi in campo, occupare un campo, ecco il campo visivo chiamato direttamente in causa) potrebbe anche non rimandare a una fonte a matrice dell’immagine, scaturire direttamente dallo schermo (come abbiamo visto avvenire nello specchio), ma anche l’illusione dello spettatore al cinema è che le immagini vengano dallo schermo. L’illusione del mondo veniva tradizionalmente resa da poeti e drammaturghi con metafore teatrali, il nostro secolo sostituisce al mondo come teatro il mondo come cinematografo, vorticare di immagini sulla tela”.(8)
E’ della rivelazione del nulla dunque che ci parla questa poesia di Montale. L’uomo che ha l’esperienza del vuoto come sfondo delle cose, vede queste ultime presentificarsi su di esso. Quest’uomo è colui il quale, diversamente dagli altri, ha lo sguardo fisso in entrambe le direzioni: dietro (il nulla come origine), avanti (il mondo, con i suoi enti). Ciò che è significativo nella riflessione di Calvino sui versi di Forse un mattino è che, partendo dall’analisi di un testo poetico, egli stabilisce un nesso tra il linguaggio cinematografico e quello della poesia. Da un lato infatti Calvino ci descrive l’illusione del cinema, ovvero che ciò che vediamo sullo schermo è vero, dall’altro invece la rapidità con cui la poesia di Montale è in grado di fulminare la realtà. Ma cogliere l’istante non è sufficiente perché tutto si muove e l’illusione che ciò che vediamo ci sia sul serio riprende il sopravvento. Esattamente ciò che accade quando guardiamo un film. Dunque ancora una volta tutto si concentra intorno al problema della “visione”, una visione del mondo da parte dell’uomo moderno che appare problematica perché egli ha smarrito la fiducia nella realtà. E l’uomo di oggi è come se avvertisse ancora più forte l’imperfezione della realtà, quella “maglia rotta”, per usare un’espressione montaliana, quello sbaglio di natura, che lo fa sentire sospeso su un abisso tra smarrimento e attesa. Per questo un’educazione dello sguardo oggi è più che mai imprescindibile.
A evidenziare quanto il legame tra i linguaggi espressivi del cinema e della poesia fosse più stretto rispetto a quello con la prosa, è stato Pier Paolo Pasolini, che ha teorizzato il cosiddetto “cinema di poesia”, mettendo in luce, nella complessità della sua stessa esperienza artistica, il cinema non solo come linguaggio, ma lingua a tutti gli effetti. La cinepresa, dunque, come penna capace di scrivere del mondo.
Frontalità ossessiva delle inquadrature, fotografia in bianco e nero “sporca” e contrastata, adozione di un gergo aspro e greve, scelta di musiche sacre a commentare drammatiche sequenze di degradazione, doppiaggio babelico, volti e corpi “sgradevoli”, paesaggi di desolate periferie. Questo è il “cinema di poesia” teorizzato da Pasolini: rompere con le tradizioni, per evidenziare la dimensione stilistica del film.
Come la poesia, anche il cinema è un’arte dell’“astrazione” e “dell’estrazione”, come la poesia, anch’esso è di natura psichica, e, come diceva Jean Epstein, “è il riflesso di un riflesso” che presenta “una quintessenza, un prodotto doppiamente distillato”.(9) Più o meno quello che ci ricordava ancora una volta Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, ovvero che il film “è il risultato di una successione di fasi, immateriali e materiali, in cui le immagini prendono forma … Questo “cinema mentale” è sempre in funzione in tutti noi, e lo è sempre stato, anche prima dell’invenzione del cinema e non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vita interiore”.(10?… In fondo proprio ciò che accade anche con la poesia.
Immagine tratta da Lo specchio (1974) di Andrej Tarkovskji
  1. Luis Buñuel, Il cinema strumento di poesia. Scritti letterari e cinematografici, Marsilio, 1996. 
  2. Ibidem 
  3. Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, 2000. 
  4. Luis Buñuel, Un chien andalou, 1929. 
  5. Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, 2002. 
  6. Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House, 1982. 
  7. Eugenio Montale, Tutte le poesie, Oscar Mondadori, 1996. 
  8. Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, 1995. 
  9. Jean Epstein, L’essenza del cinema. Scritti sulla settima arte, Marsilio, 2002. 
  10. Italo Calvino, Lezioni americane, Mondadori, 2000. 
Fonte:
http://www.nazioneindiana.com/2010/01/26/cinema-strumento-di-poesia/


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Curatore, Bruno Esposito

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