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giovedì 6 novembre 2025

Pier Paolo Pasolini: Cultura dopo l’«impegno» - Vie Nuove, numero 34, 26 agosto 1965, pag. 30

 "Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Immagine: Archivio La Notte

Pier Paolo Pasolini
Cultura dopo l’«impegno»

Vie Nuove

numero 34

26 agosto 1965

pag. 30

( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )


Egregio Sig. Pasolini, qualche tempo addietro le scrissi in merito al suo «Vangelo secondo Matteo», non per discutere il film, di cui ella ha sempre detto di averne abbastanza, ma per sentire il suo giudizio etico sui Vangeli in genere. A tale lettera, coraggiosamente ella non ha risposto ed ha tutto il diritto di farlo, anche se per dovere chi dirige una rubrica deve rispondere al più oscuro sconosciuto. Ora le scrivo nuovamente circa la presunta crisi del marxismo da lei tanto decantata. Associandomi a quanto le ha ben detto il sig. Luigi Natale (che non conosco e non so chi sia), lei crede di poter dare lezioni e giudizi su tutto e su tutti; ma si sbaglia, egregio signor Pasolini, in quanto l’italiano d’oggi pensa con la propria testa e non con quella di chi è pagato per dirigere una rubrica.

Se il marxismo è in crisi, come si spiega che sui due terzi dell’umanità dilaga il marxismo? Come si spiega la lotta del proletariato e l’indipendenza dei popoli? Non è forse il marxismo che ha condannato per sempre il colonialismo? Non è merito dell’idea marxista se nazioni quali la Cina, l’Egitto, Cuba, l’Algeria, ecc. ecc. hanno nazionalizzato le loro economie? La stessa Inghilterra, patria di Adam Smith, la nazione più conservatrice del mondo è ricorsa ad alcune nazionalizzazioni, in attesa di farne altre. Mi dica, signor Pasolini, cosa ne pensa di queste mie osservazioni? Perciò se crisi vi è, non è nel marxismo, ma nei partiti politici che non sanno o non vogliono applicare la vera dialettica marxista (vedi revisionismo di cattiva memoria kruscioviana e sue conseguenze). 

E dato che mi ci trovo voglio ancora dirle una cosa. Lasci la politica e continui ad interessarsi di romanzi, poesie e soggetti cinematografici, poiché poche persone sono disposte a seguirla in tale direzione. Ne vuole una prova? Lanci un referendum su «Vie nuove» e se ne convincerà. Se vuole può cestinare anche questa lettera, ma, chi dirige una rubrica deve avere il coraggio civile di trattare qualsiasi argomento gli venga posto. 

Attilio Micale – Pescara

Lascio che il lettore giudichi da sé quanto di non buono c’è in questa lettera. È un caso limite che io prendo come pretesto per una risposta che, anche senza occupare per intero «Vie nuove», come il Micale sembrerebbe pretendere, ritorni utile ad approfondire il nostro tema di queste ultime settimane.

Dall’immediato dopoguerra all’inizio degli anni Sessanta, il motivo letterario in Italia è stato unico, e così profondamente individuato da fondare quasi una forma di civiltà: è stato chiamato impegno. Il riferimento ideale di esso era la Resistenza e il suo fine era «rivelare» una realtà fino a quel momento mistificata, la società italiana. Esso presupponeva una sorta di elastico dogmatismo, proiettato verso il futuro: la prospettiva, o, più sentimentalmente, la speranza. Ecco. Su questi dati – che sono esteriori, «da manuale» – si era fondato tutto un capitolo della nostra storia e della nostra letteratura.

La situazione era caotica, perché da una parte consentiva il respiro della libertà e della scoperta (sono nati in quegli anni il cinema e il romanzo italiano) dall’altro si prestava ad irrigidimenti moralistici, a un radicalismo ricattatorio. Tutta la critica marxista media di quel periodo, accettava per buoni i dati che ho qui sopra schematizzato: essi costituivano la «linea» culturale del partito. Ma appunto per questo – per l’essere in possesso di una linea – c’era sempre in tale critica il pericolo dell’irrigidimento moralistico e del radicalismo ricattatorio.

Si era formata nella testa del critico marxista una specie di scala di valori sostanzialmente manicheistica: così che egli applicava a un testo uno schema critico monotono fino all’ossessione: si faceva delle domande (esteriori) cui si dava delle risposte (esteriori) e il giudizio di valore, infine, era sempre dunque moralistico. Egli si chiedeva se un’opera era populistica, umanitaria, cristianeggiante ecc. ecc.: se era tale, andava condannata. Se invece rispondeva a un certo spirito operaistico, se la prospettiva ottimistica era esplicita ecc. ecc., allora andava esaltata.

Naturalmente parlo della critica marxista minore, della gran massa, non di quella più raffinata e problematica. Tuttavia c’è da osservare che tale moralismo si è oggi conservato accumulandosi nella parte più rigida e in un certo senso pura dello schieramento marxista, mettiamo nella politica culturale del PSIUP o in quella di certi scontenti marxisti, «compagnie picciole» sdegnose e sconosciute, che nel loro massimalismo moralistico, condannano tutto e tutti (forse a ragione: ma il loro torto è il riferimento ossessivo al loro aver ragione). Mi riferisco, per es., al gruppo dei «Quaderni piacentini», dove si è rifugiato il gruppo dei migliori critici marxisti peggiori: lo stalinismo beatnik (che è tipico del resto anche di molti gruppi d’avanguardia, a fare da paravento a un vecchio anarchismo borghese).

Ufficialmente, invece, il PCI – caduto e superato il decennio dell’Impegno, della Realtà e della Speranza – con la Resistenza più commemorata che ricordata – ha abbandonato ogni atteggiamento protettivo, dogmatico, parenetico e moralistico.

Il paragrafo culturale del X Congresso del PCI dà carta bianca a tutti gli esperimenti letterari possibili: «Fate quello che volete, poi vedremo» si legge tra le righe di quel paragrafo. Una sorta di liberismo culturale, una dichiarazione ufficiale di mancanza totale di programmi e di idee, una disponibilità completa.

Apparentemente questa liberalizzazione, si presenta come una conseguenza del periodo kruscioviano e antistalinista. Ma a guardar bene, in quel paragrafo si ha una ontologizzazione della libertà (l’artista è libero di fare i tentativi che crede: ma una libertà senza confronti è una libertà mitica, è la libertà del liberalismo borghese, una libertà, infine, pretestuale); in secondo luogo, la mancata dichiarazione di nuovi programmi culturali, o, se vogliamo, di una nuova «linea» culturale, non garantisce affatto una reale libertà di giudizio. Anzi, il critico marxista militante, che deve ogni giorno scrivere il suo pezzo, è, da tale paragrafo del X Congresso del PCI, autorizzato a continuare il suo vecchio metodo dogmatico-tatticistico (appena mascherato da maggiore spregiudicatezza liberalistica), perché in realtà non sa cosa volere e cosa richiedere a uno scrittore.

Ecco dunque un segno di crisi: anzi, una vera e propria crisi della politica culturale marxista. Il realismo «impegnato» è caduto, e al suo posto il marxismo italiano e non italiano, non ha saputo elaborare nulla di nuovo. Ha deferito l’elaborazione di qualcosa di nuovo ai tentativi «da zero» degli scrittori, adottando la «tattica» della liberalizzazione.

Da qui l’interesse e l’appoggio tattico alle «avanguardie». Che è semplicemente mostruoso. Sarebbe come se gli uomini politici del PCI si attendessero delle idee sociali e politiche utili dalla nuova sociologia, che sta rispetto alla vecchia sociologia del Durkheim o del Weber, esattamente come le nuove avanguardie stanno rispetto alle avanguardie del primo Novecento.

Pier Paolo Pasolini


Curatore, Bruno Esposito

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