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lunedì 29 settembre 2025

Pier Paolo Pasolini, L’epoca dell’alienazione - Vie Nuove, numero 19, 10 maggio 1962, pag. 35

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Vie Nuove, il settimanale diretto all’epoca da Maria Antonietta Macciocchi, rappresentava allora uno dei principali organi di discussione e divulgazione culturale vicini al Partito Comunista Italiano.
Dal giugno 1960 al settembre 1965, Pasolini vi tenne una rubrica di “dialoghi con il lettore” che rappresenta una delle esperienze più originali di interazione tra intellettuale e pubblico dell’epoca.
Ne L’epoca dell’alienazione, pubblicato nel n. 19 del 10 maggio 1962, Pasolini apre con una confessione tanto lucida quanto amara: 
«Io patisco ciò che di peggio può patire uno scrittore. La mistificazione della mia opera: una mistificazione totale, completa, irrimediabile. Una vera e propria operazione industriale. Tutto quanto io dico e scrivo subisce, attraverso l’interpretazione calcolata della stampa ‘libera’, una metamorfosi implacabile: discredito, denigrazione e diffamazione, che, un po’ alla volta, finiscono di essere dei puri e semplici strumenti teppistici, e diventano una realtà, che trasforma sociologicamente il mio stile.»

Questa denuncia iniziale introduce una riflessione più ampia sull’impossibilità di una comunicazione artistica e poetica “pura” nell’era della società di massa. L’opera, sostiene Pasolini, cessa di appartenere all’autore nel momento in cui viene interpretata, manipolata, diffusa dagli organi del potere sociale e dai mezzi di informazione. Il testo non è più un luogo di incontro fra l’autore e una comunità viva, ma viene sequestrato, svuotato, piegato alle logiche del sistema industriale e politico vigente.

Pasolini descrive con precisione il meccanismo di questa mistificazione, che non è solo calunnia o diffamazione personale, ma un genuino processo sociologico che investe il valore stesso dei segni e dei significati. L’autore arriva così a introdurre la nozione di “depressione espressiva”: i suoi testi si svuotano effettivamente di significato, subiscono un vero deperimento poetico, perché la loro comprensione e ricezione sono manipolate e deformate dalla collettività guidata dal potere ideologico e industriale. Egli conclude amaramente: 
«Mi rendo conto proprio in questi mesi di quanto grande sia la mia tragedia di scrittore nel mondo che lei dice libero e democratico».
La seconda parte dello scritto si fa corale: Pasolini estende la propria “tragedia” personale a una condizione generalizzata, inaugurando la più brutta epoca della storia umana: l’epoca dell’alienazione industriale, in cui la libertà di giudizio e di espressione sono solo apparentemente reali, mentre di fatto determinano nuove forme di conformismo e repressione. In questa diagnosi, la libertà promessa dalla società democratica e industriale si rivela una “illusione”: essa è già piegata all’adattamento e all’omologazione imposte dall’ideologia del neocapitalismo illuminato, che si maschera dietro la tolleranza e la democrazia parlamentare.

Di seguito l'articolo di Pasolini.
Buona lettura
Bruno Esposito

Pier Paolo Pasolini
L’epoca dell’alienazione

Vie Nuove

numero 19

10 maggio 1962

pag. 35

( © Questa trascrizione da cartaceo è stata curata da Bruno Esposito )


Stimatissimo Pasolini, vorrei che lei, sensibilissimo poeta, e fautore della libertà, mi spiegasse l’arcano motivo per il quale gli Editori Riuniti hanno tagliato di almeno una cinquantina di righe il poemetto di Evtušenko «Non sono nato tardi». 

Pubblicato integralmente in Russia, Evtushenko viene castrato in Italia dai comunisti, più sovietici del Soviet, evidentemente. O mi sbaglio? Mi risponda dalle libere colonne di «Vie nuove». 

Questo fatto dovrebbe interessarla, perché a quanto mi risulta sino ad oggi nessun censore democristiano si è mai permesso di tagliare le sue poesie: eppure siamo sotto il tallone di ferro della dittatura borghese. 

Oppure lei ritiene che gli Editori Riuniti abbiano agito bene? E che domani, se i comunisti dovessero andare al governo farebbero altrettanto bene a tagliare anche i poemetti scomodi di Pier Paolo Pasolini? Mi risponda; per favore. Grazie. 

 Aldo Beneforti – Genova


Trovo in calce alla sua lettera una nota redazionale di «Vie nuove». Mi sembra esauriente, e gliela trascrivo: 

«Gli Editori Riuniti non hanno tagliato assolutamente niente. Il Beneforti evidentemente si riferisce al testo tradotto in precedenza da Ripellino e pubblicato in rivista. Questo effettivamente conteneva una cinquantina di righe in più dello stesso pubblicato in volume dagli Editori Riuniti. Da notare però che la prima pubblicazione si riferiva a una prima stesura che Evtušenko ha in seguito personalmente rivisto. Sicché gli Editori Riuniti hanno pubblicato il testo definitivo e il solo riconosciuto dal poeta. È quindi infondata ogni insinuazione di censura».

Quanto a me, io patisco nel mondo che lei evidentemente considera libero ciò che di peggio può patire uno scrittore. La mistificazione della mia opera: una mistificazione totale, completa, irrimediabile. Una vera e propria operazione industriale. Tutto quanto io dico e scrivo subisce, attraverso l’interpretazione calcolata della stampa «libera», una metamorfosi implacabile: discredito, denigrazione e diffamazione, che, un po’ alla volta, finiscono di essere dei puri e semplici strumenti teppistici, e diventano una realtà, che trasforma sociologicamente il mio stile. Lei sa che il testo non vive nella solitudine di un’anima, ma vive in una cerchia sociale. Esiste in quanto ha in sé le possibilità di un rapporto con la comunità. Ora, se questa comunità – attraverso un’apposita operazione di chi ha il potere e i mezzi di diffusione ideologica – «comprende» il testo di uno scrittore in modo diverso da quella che esso è, accade pian piano una cosa ineluttabile: che il testo – almeno per la durata della generazione – costituisce la cerchia sociale di esso, diventa realmente qualcosa di diverso da quello che esso è.

Mi rendo conto proprio in questi mesi di quanto grande sia la mia tragedia di scrittore nel mondo che lei dice libero e democratico. I miei romanzi e le mie poesie perdono a vista d’occhio il loro «significato», per aggiunte e falsificazioni continue, diuturne, dilaganti: per una interpretazione denigratoria portata a un grado di intensità e di ferocia mai viste. I miei testi deperiscono effettivamente, i significati delle mie parole hanno una reale depressione espressiva fino a essere quelli che la gente (intesa come massa guidata dal potere industriale e dal susseguente conformismo statale) vuole che siano.

Piano piano anche ad alto livello questa mistificazione acquista peso e quasi ragione d’essere. Ormai anche i critici attendibili e altamente qualificati non possono non tener conto dell’aggiunta di significato data ai miei testi dalla denigrazione borghese, cioè dalla mia cerchia sociologica, cioè dalla mia nazione. E il loro giudizio comincia ad essere meno libero e sicuro.

Noi ci troviamo alle origini di quella che sarà probabilmente la più brutta epoca della storia dell’uomo: l’epoca dell’alienazione industriale. Lei ne è già una vittima, in quanto il suo giudizio non è libero proprio nell’atto in cui crede di meglio attuare la propria libertà; io sono un’altra vittima in quanto la mia libera espressione viene fatta passare per «altra da quella che essa è». Il mondo si incammina per una strada orribile: il neo-capitalismo illuminato e socialdemocratico, in realtà più duro e feroce che mai.

Vedo che lei per il solito vecchio, noioso, straziante conformismo dei piccolo-borghesi, è anticomunista. Va bene: proprio a lei dirò che mai come in questo momento ho pensato che l’unica strada di liberazione dell’uomo è il comunismo.

Pier Paolo Pasolini

Non fare il verso

Caro Pasolini, penso che il successo riscosso da «Una vita violenta» e da «Ragazzi di vita» dipenda non tanto dal loro valore artistico-letterario quanto dal linguaggio un po’ spinto che lei usa. La critica della crudezza di una vita imposta da una società degenerata, fatta alla sua maniera, è un efficace espediente per abbindolare la massa e per far quattrini, anche se lei afferma di guadagnare meno del «più scassato sceneggiatore». 

Non è con le bestemmie e le parolacce messe in bocca ai suoi personaggi che si smantella il malcostume imperante, sibbene con opere buone e utili socialmente. Forse mi considererà un borghese, a mia volta vittima del sistema in cui mi trovo, una «jena» – per usare una sua espressione – in vena di fare della morale. Sono invece un giovane che crede in un domani migliore, in una società socialista che, in quanto tale, non dovrà permettere la circolazione di libri così volgari. 

Vorrei che lei mi smentisse con una esauriente risposta, e ne sarei assai lieto: mi creda. 

Distintamente

R. M. 

Ecco, vede? Legga la mia risposta alla lettera precedente, e poi rilegga la sua. Vedrà che questa è un documento perfetto, un allegato lampante. Lasci che le dica che lei è un ragazzino sciocco e insincero, che crede di essere bravo rifacendo il verso al moralismo dei grandi: salvando capra e cavoli, poi: essere cioè un borghesuccio benpensante e insieme credere «in una società socialista». Stiamo freschi! Una società socialista costruita da gente che basa le proprie opinioni sul conformismo più miserabile e volgare. Rilegga i miei libri (o li legga, perché, nella sua disonestà, non li ha certamente mai letti per intero), e se poi mi dimostrerà che in essi c’è solo una goccia di volgarità, le giuro che non scriverò più una riga in tutta la mia vita.

Pier Paolo Pasolini


Curatore, Bruno Esposito

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