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sabato 18 novembre 2023

"Lo scandaloso Pier Paolo Pasolini" su "Panorama" 8 agosto 1974 n.433 Anno XII

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



"Lo scandaloso PPP"
Inchiesta su Pasolini
Panorama, 8 agosto 1974.

Con l’ultima sua invettiva ("Non distinguo più antifascisti da fascisti, il consumismo ha appiattito tutti"), Pasolini ha sbalordito e irritato perfino molti suoi amici. Da vent'anni al centro della vita culturale italiana, protagonista di episodi discussi e spesso ambigui, adesso getta la spugna: “In quest’Italia non si può più vivere”.

Tutto quello che fa, fa scandali. Da almeno vent’anni. Suscita clamore con i libri, con i film, con le amicizie, con le idee. Scandalizza per quello che dice. Per come si esprime, per come si comporta.

Ha 52 anni, la faccia è scavata da segni profondi, come in certe antiche maschere di legno. Alle spalle ha un passato di successi e di applausi, ma anche di pubblico biasimo, di accuse ambigue, persino di processi.

Poeta, romanziere, autore di cinema, saggista, da vent’anni Pier Paolo Pasolini continua a suscitare critiche a scatenare polemiche. Per narcisismo, dicono i suoi avversari: non può stare più di un paio di mesi senza far parlare di sé. Perché gli piace la discussione, ribattono gli amici: soprattutto gli piace sentir circolare le idee. “Quando tutti stanno zitti ci si addormenta”, spiegò una volta.

L’ultimo scontro è di queste settimane. Una diatriba a livello nazionale, critiche, dissensi, approvazioni, ingiurie, per un suo articolo apparso il 10 giugno sul Corriere della sera con un titolo già indisponente: Gli italiani non sono più quelli. Cambiati in peggio, naturalmente: “l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato con una completa borghesizzazione di tipo modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante...”.

Tutto e tutti sotto accusa: “La vittoria del no è in realtà una sconfitta, ma non solo di Fanfani e del Vaticano, ma in un certo senso, anche di Berlinguer e del partito comunista” (spiegazione: “I comunisti non volevano il referendum ed erano estremamente timorosi sull’esito”). “L’Italia non è mai stata capace di esprimere una grande destra”. “Il neofascismo parlamentare è la fedele continuazione del fascismo tradizionale”. “Non c’è più differenze apprezzabile tra un qualunque cittadino italiano fascista e un qualunque cittadino italiano antifascista”. “I giovani del campi di addestramento, i giovani della SAM, i giovani che sequestrano persone e mettono bombe sui treni si chiamano e vengono chiamati fascisti, ma si tratta di una denominazione puramente nominalistica. Essi son in tutto e per tutto identici all’enorme maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente, ma non c’è niente che li distingue”.

Gli hanno dato addosso tutti. L’Unità quotidiano del PCI. “Manicheismo intellettualistico. Superficiali fumisterie qualunquistiche. Una perdita, speriamo breve, della ragione politica”. La voce repubblicana: “Articolo ambizioso. Letterato di core, narcisista, politicamente mobilissimo”. Giorgio Bocca: “Entrato in orbita. Astrale solitudine. Scopre l’acqua calda”. (In una precedente polemica aveva scritto: “Artista, grande letterato, ma in politica un dilettante che farebbe meglio a stare attento alle parole”). Il sociologo Franco Ferrarotti: “Analisi culturologica. Candida, accattivante ignoranza”.

Pasolini è amareggiato: “Do fastidio. Mi dispiace doverlo ammettere, e anche di doverlo fare. Ma qui nessuno sa veramente cos’è la polemica. Invece di discutere le idee si finisce sempre nei retroscena personali. Io ho parlato della fine del mondo contadino, cosa, a mio parere, gravissima. E loro stanno a discutere di Pasolini”.

Ha comunque risposto a tutti, con un altro lunghissimo articolo sul Corriere, intitolato, forse con intenzione ironica, interpretata però come ripetuta prova di megalomania Abrogare Pasolini? e ha scatenato un’altra salva di bordate. Adolfo Battaglia, vicesegretario del PRI, ha scritto: “Ma figurarsi se uno ha da perdere tempo per pensare una cosa così”.

Lo attaccano da destra e da sinistra. Giuseppe Prezzolini, vecchio scrittore conservatore, lo accusa di “mancanza di cultura storica, di senso comune e di razionalità elementare”. Nanni Ballestrini, consulente dell’editore Feltrinelli e scanzonato rappresentante dell’avvanguardia letteraria, è ancora più duro: “Un’ impresione penosa, la sopravvivenza del letterato vate, che sa tutto e interpreta tutto. In modo apodittico e repressivo: ho parlato io, e basta. E dice, in sostanza, un cumulo di sciocchezze, un chiacchiericcio inutile. Mentre il fascismo è una cosa seria”.

Perché tanto accanimento? Risponde: “forse perché non rappresento altro che me stesso, non ho dietro né gruppi né partiti. Parlo sempre a titolo personale quasi vivendo nel mio corpo quello che dico. E sono sempre coerente, mi vanto di una coesività quasi da laboratorio strutturalista. Sono un tutto solidale, come direbbe Lévi-Strauss”.

Molti non la pensano così. Lo accusano di spostamenti nella linea politica, di ammiccamenti. O quanto meno, come ha scritto Maurizio Ferrara sull’Unità, di rischiare “un approdo sempre più ambiguo, dove si perde perfino la distinzione tra fascismo e antifascismo”.

Lui non ha dubbi: “Sono marxista, da sempre. Il guaio è che non ho tessere, e non rispondo a nessuno. Soprattutto non sono un uomo politico, non ho la loro visione pratica dei problemi, non m’interessa lo spaccato generale”. Adesso, per esempio studia i giovani, dice: “ E ripeto che in Italia, oggi, i giovani, a parte gli extraparlamentari, sono tutti uguali: destra, sinistra, centro. Si vestono allo stesso modo, gestiscono allo stesso modo, parlano allo stesso modo usando i medesimi termini. Se ne mettiamo insieme 100, di cui 3 o 4 sicuramente fascisti, sfido chiunque a riconoscerli. Dieci, o anche 5 anni fa, era un’operazione semplicissima, da fare a vista. Oggi bisogna arrivare all’argomento bombe, per poter discriminare con certezza. Fino a quel punto, anche su temi seri, può rimanere il dubbio. Il giovane fascista non è riconoscibile. Perlo per esperienza personale, mi è capitato di non accorgermene. Spaventoso”.

Il giudizio sui giovani è senza appello: “Sono pessimista, in modo completo e totale. Se avessi un figlio, oggi, sarei disperato”. Nemmeno i giovani comunisti? Nemmeno. “All’ideologia sana, comunista, si sovrappone quella malata, quotidiana e generalizzata. L’ideologia consumistica e televisiva. Sono andato a un festival dell’Unità, e se non ci fossero state le bandiere rosse non mi sarei accorto guardandoli, che stavo fra ragazzi comunisti. Anche loro hanno acquistato la serietà nevrotica dei piccolo-borghesi”.

Sa di dire cose sgradevoli e gravi. Ma non alza la voce, non fa un gesto Anche sugli argomenti scottanti parla lento, con calma, senza scaldarsi. È così anche sul set, dicono quelli che hanno lavorato con lui nel cinema. Uno dei pochi registi che non urla, non dice parolacce. “Non perde mai il controllo dei nervi. Non da ordini. Chiede”.

Ha sempre gli stessi collaboratori: l’operatore Tonino Delli Colli (“Ci capiamo al volo, basta uno sguardo”), il montatore Nino Baragli (“Anche 10, 15 ore di lavoro filato. Si dimentica perfino di mangiare”). Poi ci sono i fratelli Citti. Sergio che adesso fa il regista in proprio (Storie scellerate) e Franco, la scoperta di Accattone, il primo film di Pasolini girato nel 1961. Franco è rimasto da allora una delle facce insostituibili per il cinema pasoliniano.

I Citti sono ragazzi di borgata. Strappati dalla strada, diventati personaggi dei suoi primi libri (Ragazzi di vita, Una vita violenta) ed entrati a far parte a tiempo pieno della sua esistenza, sempre insieme a Roma e fuori, nel lavoro e nei divertimenti, hanno con Pasolini un rapporto da fratelli, più che da amici. “Le persone che stimo di più”, dice Pasolini senza alcuna intenzione di paradosso, “sono quelle che non hanno fatto la quarta elementare”. Loro lo chiamano Pa’. Lui li tratta come parenti. Di Sergio dice: “Insieme a Moravia, è l’uomo più intelligente che conosco”. E Sergio: “Se nun c’era lui avrei fatto er ladro. Se ci ho qualcosa che non va, lo dico a lui. Se vojo sapè si ci ho torto o ragione lo chiedo a Pa’. Lui me lo dice. Anche mia moje fa lo stesso”.

È stato Pasolini a convincere Sergio alla regia. Lui non avrebbe ambizioni. Si è trasferito dalla borgata di Roma a Fiumicino, naturalmente insieme all’inseparabile fratello (Pasolini li chima Caino e Abele, distribuendo alternativamente le parti a seconda del loro comportamento e del suo umore), perché “a me, me piace solo andà a pescà, ma Pa’ dice che chi c’ha le idee le deve adoprà, e io le idee ce l’ho”.

Ha sempre fatto da braccio destro di Pasolini, gli ha suggerito le parole di gergo per i libri, gli ha indicato i giusti personaggi da mettere nel racconto e i luoghi dove ambientarli, poi lo ha aiutato nelle sceneggiature dei film, gli ha dato una mano sul set. “semo come uno solo. Pa’ sa cosa ci ho in testa io, e me dice sempre le idee sue. Se capimo tanto che ce capita spesso de sta insieme per ore senza parlà. Nun ce n’è bisogno”. Il ritratto di Pasolini fatto da Sergio Citti è questo: “È un uomo bono. E nun c’è niente da aggiungere”.

Anche Delli Colli dice che la prima qualità di Pasolini è la bontà. Ma ne dà una spiegazione più sottile: “È tanto intelligente che può permettersi anche la bontà e la tolleranza”.

Insieme ai Citti un altro ex-ragazzo di borgata fa parte della “famiglia” di Pasolini. Anzi, lui dice la “costellazione materna”, alludendo al grande posto che sua Madre Susanna ormai ultraottantenne, sempre vissuta con lui in un rapporto d’affetto “straordinario, immutato e perfetto” occupa nella sua vita. “Mamma è la stella fissa, gli altri ruotano intorno”.

Nella raccolta di poesie La religione del mio tempo c’è questo ritratto della madre: “È una povera donna mite, fine, che non ha quasi il coraggio di essere, e se ne sta nell’ombre come una bambina coi suoi radi capelli, le sue vesti dimesse ormai, e quasi povere, su quei sopravvissuti segreti che sanno, ancora, di violette...”. Quando, nel 1964, Pasolini portò sullo schermo Il Vangelo secondo Matteo, a sua madre riservò la parte della madonna. "Che altra faccia potevo mai dare alla madre di Dio?”.

Il terzo ragazzo di borgata, oggi sui 30, è Ninetto Davoli, conosciuto durante la lavorazione della Ricotta, “sui montarozzi dell’acqua santa, un ragazzetto che veniva a portare acqua alla troupe”. Ninetto aveva 16 anni, la stessa testa nera e ricciuta di ora, la stessa faccia di impunito, secondo il gergo della periferia romana. Pasolini gli propose una parte nel film che avrebbe girato subito dopo, Uccellacci e uccellini, protagonista Totò. “Non devi fare niente”, gli spiegò, solo essere come sei”. Per tutto il film non gli diede mai un’indicazzione sul modo di recitare. Lo fermava solo se si accorgeva che il ragazzo si metteva in posa davanti alla macchina.

Come i Citti, anche Ninetto è più spesso in casa di Pasolini, all’EUR, che nella sua. Come i Citti pur essendo del tutto digiuno di educazione scolastica e di cultura (“Non ho mai letto un libro in vita mia”) è uno degli ascoltati consiglieri di Pasolini. “Con Sergio, er Pasolo ci ha un rapporto intellettuale”, dice, “Sergio nun ha studiato ma è filosofo. Io invece so recità”. Di Pasolini dice che “è buono, ma soprattutto ingenuo”. “Io sto sempre attento anche per lui, per difenderlo. Quello viene dal friuli, che voi che sappia. Noi a Roma, semo più scafati”.

All’ingenuità di Pasolini non tutti credono C’è chi lo immagina, anzi, molto furbo, sempre pronto a salire sul cavallo buono per mettersi in mostra e farsi pubblicità. Lui ammette di essere ingenuo. “Ma nessuno mi crede, lo so. Ê doloroso essere fraintesi. Eppure è così. Sono timido e sono ingenuo, nel senso che do sempre fiducia al prossimo. Altrimenti, che vita sarebbe?”. Il critico Giancarlo Vigorelli ha scritto una volta: “Basta guardarlo in faccia. Anche se si mettesse addosso tante maschere, persino quella di Caino, Pasolini resterà per sempre perdutamente Abele”.

Della “costellazione materna” fa parte anche la cugina Graziella, docente di filologia romanza, un po’ segretaria, un po’ confidente, un po’ nume tutelare. E tempo addietro “ebbe un posto molto importante” un ragazzo friulano amico della prima giovinezza, Toniutti Spagnol. “Scriveva poesie in dialetto, molto belle. Io scrivevo poesie, stavamo bene insieme”. Nato a Bologna (“per caso, papà era ufficiale di carriera”), vissuto molti anni nel Friuli, soprattutto a Casarsa, il paese della madre (“il ’43 a Casarsa, è stato l’anno più bello della mia vita”) professore di lettere laureato a Bologna in piena guerra con una tesi su Pascoli, Pasolini è arrivato a Roma nel 1949.

A Casarsa era diventato comunista, “spinto da una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti. Io fu coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci”.

A Roma era povero, era solo. Scrisse alla madre: “Se non mi raggiungi subito mi ammazzo”. Non aveva un’occupazione fissa, aveva già scritto molte poesie non pubblicate, alcune, molto belle, in dialetto friulano. La prima l’aveva scritta a 7 anni, in risposta a pochi versi di sua madre, e ci aveva messo dentro parole sentite chissà dove: “rosignoli”, “verzura”.

Ha descritto così i suoi primi anni romani: "Dapprima vissi a piazza Costaguti, vicino al portico d'Ottavia (il ghetto), poi andai nel ghetto delle borgate, vicino alla prigione di Rebibbia, in una casa restata definitivamente senza tetto (tredicimila lire al mese). Per due anni fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi: poi trovai da insegnare in una scuola privata di Ciampino per ventisettemila lire al mese. Nella casa di Rebibbia, nella fascia delle borgate, ho cominciato la mia opera poetica".

Furono gli anni bravi: esplorazioni nella vita delle borgate, nottate passate chissà come chissà con chi, incontri, avventure, risse. Uno studio anche psicologico che poi gli servì per ambientare i due primi romanzi, scritti addirittura nel gergo che aveva imparato in quelle sue scorribande. "Un mondo a sé, dove persino la criminalità aveva una sua faccia, e dei suoi codici d'onore. adesso c'è solo teppaglia".

Già aveva conosciuto lo scandalo. A Casarsa, nel '49, c'era stata una storia mai del tutto raccontata, un po' torbida e un po' grottesca, la festa del paese finita a sera tarda nei campi, un gruppo di ragazzi un po' brilli, e la mattina dopo una denuncia contro il professorino, che in tribunale si difese citando André Gide, grande nome della letteratura francese, notissimo omosessuale. Anni dopo, nel 1968, rispondendo sull'Espresso alle aspre critiche che erano state mosse a una sua poesia contro i ragazzi contestatari, fra i motivi del suo odio per una certa borghesia, Pasolini annoverò anche quell'episodio: "La borghesia, da ragazzo nel momento più delicato della mia vita, mi ha escluso: mi ha elencato nella lista dei reietti, dei diversi: e io non posso più dimenticarlo. Ne è rimasto in me un senso di offesa, e, appunto, di male: lo stesso che deve provare un negro di Harlem quando passeggia per la quinta strada".

Di scandali, dopo, ne ha conosciuti parecchi. Ha cominciato nel '55, con un'accusa di oscenità per il suo primo romanzo Ragazzi di vita. Al processo, a Milano, il presidente del tribunale chiese al critico letterario Carlo Bo, docente universitario e cattolico praticante: "Lei trova questo libro immorale?". "Io lo trovo profondamente religioso" fu la risposta di Carlo Bo.

Dopo Ragazzi di vita fu giudicato "contrario alla morale" Accattone, il primo film. Fece scandalo nel 1961, anche perché, alla prima, vennero tirati sullo schermo ortaggi e uova marce.

"Era un film sul sottoproletariato e tutti indistintamente si rifiutano di ammettere l'esistenza del sottoproletariato". Per Pasolini, Accattoneè insieme alle Mille e una notte, l'ultimo che ha girato, il film del cuore. "Perché è stato il mio primo, quando di cinema non sapevo proprio niente e mi sono inventato una mia tecnica particolare che poi ho sempre continuato a usare".

Scandalo ancora, nel '62, anzi, scandali di tutti i generi per le parolacce di Mamma Roma: l'accusa era "linguaggio che chiaramente offende il comune senso della morale", e le frase incriminate "fiore di merda" in uno stornello cantato dalla protagonista, Anna Magnani, e "s'è fatto una pisciata di mezz'ora, s'è pisciato er core": il procuratore della Repubblica, Cesare Palminteri, rilevò che le parole merda e pisciare "trovansi in qualsiasi vocabolario della lingua italiana" e il film fu rimesso in circolazione.E una terribile apostrofe in morte di papa Pio XII:

Lo sapevi, peccare non significa fare il male:

non fare il bene, questo significa peccare.

Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto:

non c’è stato un peccatore più grande di te.

Pubblicata dall'editore valentino Bompiani nella sua rivista Officina, procurò a Bompiani l'immediata, e clamorosa espulsione dal selezionatissimo circolo degli scacchi di Roma. A Pasolini venne allora attribuito un "fragoroso potere di scandalo", e, da parte delle autorità ecclesiastiche, la "capacità di fuorviare e traviare le coscienze".

Ma soprattutto il '62 fu per Pasolini l'anno di uno scandalo incredibile, di cui ancora oggi parla malvolentieri ("Io dimentico tutte le cose brutte, ma questa non riesco a togliermela di mente"). Fu accusato di aver tentato una rapina a mano armata ai danni di un addetto a un distributore di benzina. Il racconto del benzinaio ("Mi ha aggredito da dietro, mi teneva la pistola sulla nuca") sembrava una pagina del suo libro Una vita violenta. Pasolini era così infuriato e angosciato che non credessero alla sua innocenza, che voleva sottomettersi al siero della verità. Il professor Aldo Semerari, medico legale incaricato di una perizia sull'imputato, descrisse in aula lo scrittore come uno "psicopatico dell'istinto, un anomalo sessuale, un omofilo nel più assoluto senso della parola". Pasolini disse a un giornalista: "La mia ingenua fiducia negli altri mi rende ricattabile. sono inerme". Lo scandalo fu tale che uno dei più diffusi giornali italiani smise di recensire i suoi libri, una coinquilina del suo palazzo si mise a raccogliere firme di "madri di famiglia" per farlo cacciare da casa.

Queste esperienze sgradevoli, dice oggi Pasolini, non sono servite a niente. Assicura, del resto, di avere, in materia, una pessima memoria. "Mi avvilisco per un po', e poi riprendo traquillamente il mio lavoro. A volte per esempio so che sono nemico di qualcuno, ma non me ne ricordo assolutamente la ragione".

Altro scandalo del '63: condanna a 4 mesi per vilipendio alla religione. Con il film La ricotta, secondo il pubblico ministerio Giuseppe Di Gennaro, Pasolini voleva lanciare questo messaggio: "Via il crocifisso dagli altari, è l'ora del sottoproletariato delle borgate". Nel '64 un altro scandalo: nel film sul vangelo, madonna, apostoli e pie donne hanno el facce dei parenti e degli amici di Pasolini (la scrittrice Natalia Ginzburg è Maria di Betania, lo scrittore Enzo Siciliano uno degli apostoli insieme al poeta Alfonso Gatto). "Perché Cristo era un intellettuale" spiega Pasolini. Paris Match, dopo la prima al Festival di venezia, dove il film riscosse applausi e premi, intitolò la recensione: "Il diavolo al servizio di Dio".

Poi, dal '65 a oggi, il chiasso intorno a Pasolini è stato fatto solo per ragioni letterarie o cinematografiche. Polemica con Alberto Arbasino, Umberto Eco, Alberto Moravia, ecc, a proposito di una nuova lingua italiana, tecnologica e televisiva che,secondo lui, ormai tutto gli italiano, indifferentemente parlerebbero. (Ci ha poi scritto anche un saggio di 300 pagine intitolato Empirismo eretico). Scandalo per l'ode intitolata Il PCI ai giovani! scritta di getto dopo la furibonda battaglia fra studenti contestatori e poliziotti fuori dalla facoltà di Archittetura di Roma nella primavera del '68 e pubblicata da un settimanale. C'erano, fra gli altri versi:

Quando ieri a Valle Giulia /

avete fatto a botte

coi poliziotti,

io simpatizzavo coi poliziotti!

Perché i poliziotti sono figli di poveri.

Il suo amico Alberto Moravia commentò: "Pasolini ha fatto male a dire quello che sentiva". E Pasolini oggi ribatte: "Sono sempre stato eccessivo. ho lavorato tanto, ho scritto e parlato anche quando, forse, dovevo chiudere la penna e tacere. Ma dentro il troppo, io credo, c'è il molto,e, nel molto, il necessario".

E poi scandalo per il film Teorema, scandalo per il rifiuto a partecipare alla finale del premio Strega (1968) incitando i suoi amici letterari a votare scheda bianca, scandalo per la sua amicizia con Maria Callas (che i rotocalchi rosa volevano a tutti costi fargli prendere in moglie). E poi scandalo perché si occupa di tutto (gli aggettivi con cui veniva definito Petrarca in una lunga intervista erano: "un caso clinico", "inibito", "narcisista", "masochista", "sessuofobico", "insincero", ha accusato violentemente le femministe di "settorialità".

E finalmente scandalo, grande, per l'erotismo sfrenato dei suoi ultimi film: Decameron (che ha avuto il secondo premio al Festival di Berlino nel '71 con questa motivazione: "Per il rigore artistico, il corposo umorismo, la forte vitalità"; I racconti di Canterbury che ha vinto l'anno dopo allo stesso festival l'orso d'oro con la motivazione: "Per maestria e vitalità"; Le mille e una notte, naturalmente censurati, denunciati, processati per delitti di oscenità, di offesa alla pubblica morale, di offesa alla religione.

"Pazzi", si lamenta Pasolini, "pazzi. Sono tre film d'autore, fatti senza la fobia della pornografia". Pornografia magari no. Ma l'erotismo? "Quello sì, certo. ma no si vorrà certo condannare una delle componenti più importanti della vita umana, non meno importante della componente politica o della componente sociale o della componente religiosa, anzi per me è la più importante".

Adesso sta scrivendo un romanzo, un "grosso, importante romanzo". Argomento? "Non dirò niente, per la prima volta nella mia carriera di scrittore, farò come Moravia e i gatti. Me ne starò zitto. Posso solo anticipare due notizie. Ci lavoro da più di un anno, ci lavorerò ancora per cinque, sei o magari di più".

Nei vari periodi di riposo ("Sta sempre a fa' qualcosa" dicono i Citti, "se lo vedi che non fa niente devi subito pensà che è malato") o gioca al calcio (ha messo su una squadra, a Roma, cinema contro canzone, c'è anche Gianni Morandi, e lui gioca mezzala, o ala tornante: per allenarsi si porta in un campetto di periferia tutti i suoi "famigli" più anltri ragazzi di borgata: "Ma oggi sono così diversi, sono diventati incapaci di parlare, nemmeno nel loro dialetto e soprattutto nel loro gergo", o va a spasso. "Non è vero che non mi riposo: non faccio lunghe vacanze, ma tutti i giorni dalle sette di sera alle due di notte il mondo è mio".

Abitare a Roma, però, non gli piace più, dice che non è più vera, sembra una città qualunque, abitata da gente qualunque. "Per anni ho vissuto nell'ambiente più disponibile d'Italia. Adesso nemmeno i romani sanno più che cosa significa essere disponibile. La genti, oggi, non ha più tempo per niente".

Forse andrà in Marocco, dice, finché anche là non arriverà la contaminazione, la "omologazione" culturale, di cui ha elencato danni e pericoli nel famoso articolo sul Corriere, rimproverati poi dal sociologo Ferrarotti che gli ha spiegato, su Paese Sera, come il problema, vecchio di almeno 50 anni, si definisca con appropriata nomenclatura, "crescente uguaglianza sociale", e quindi, "relativa standarizzazione".

Naturalmente partirebbe con tutto il seguito: la madre, la cugina Graziella, i due Citti con mogli, e Ninetto con moglie e figlio (chiamato Pier Paolo e tenuto a battesimo dal suo omologo che aveva anche fatto da testimone alle nozze di papà). Niente più di un progetto, una di quegli argomenti di cui Sergio Citti dice "si discute, si vede se po' annà, e se no se cambia". "La cosa più bella della mia vita", sostiene Pasolini, "sta nel non essermi lasciato vincere dalla perdita delle illusioni".

Emilia Granzotto



Curatore, Bruno Esposito

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