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mercoledì 26 luglio 2023

“Tetis” di Pier Paolo Pasolini, da “Erotismo, eversione, merce” - Cappelli, Bologna 1973

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Tetis
di Pier Paolo Pasolini


in Erotismo, eversione, merce

Cappelli, Bologna 1973

ora in Saggi sulla politica e sulla società
(Saggi sparsi)

a cura di W. Siti e S. De Laude

“Meridiani” Mondadori, Milano 1999

da pp. 257-264



Le forme di un racconto letterario non sono solo tecni­co-linguistiche: ci sono anche delle forme non verbali e quindi non visibili nella pagina: per esempio, l’arco del­lo sviluppo di un personaggio, i tratti in evoluzione della sua psicologia. La critica strutturale, attraverso spec­chietti e grafici, è in grado di rendere visibili anche que­sti dati interni: ma si tratta di una visibilità astratta, stati­stica.
Per il racconto cinematografico vale lo stesso discor­so, perché l’autore di un film sceglie e rappresenta alcu­ni momenti della vita di un personaggio, il resto lo lascia all’interno del film, dentro le giunte.
Tra un personaggio che appare ridendo nella prima sequenza del film, e poi scompare, per riapparire, pian­gendo, nella terza sequenza, c’è un passaggio psicologi­co che non è una forma audiovisiva, pur essendo co­munque una forma del film.

Lo spettatore tuttavia non acquisisce questo passag­gio dal riso al pianto come una forma: ma si comporta con esso esattamente come se si trattasse di un fenome­no della vita. Opera cioè una interpretazione psicologi­ca, simile a quella che egli opererebbe se in un’ora della sua vita si trovasse con una persona ridente, e, dopo qualche tempo, si trovasse con la stessa persona pian­gente. Egli, nella vita, ha degli elementi «esistenziali» che gli permettono di interpretare la realtà di quel riso o di quel pianto: ma l’autore del film non mancherà certo di fornirgli elementi esistenziali analoghi.
In conclusione: lo spettatore davanti alle «inclusioni» del film, cioè alle forme audiovisive, si comporta come un «ricevente» nella realtà, ma sa che è un’illusione; in­vece davanti alle «esclusioni», cioè alle forme non-audio-visive, si comporta tout court come un «ricevente» nella realtà: le deduzioni e le conclusioni a cui egli arriva per interpretare il comportamento di un personaggio nel film, seguono lo stesso schema che per interpretare il comportamento di una persona nella realtà.
Se una maggiore vivacità caratterizza l’identificazione del codice del cinema col codice della realtà di fronte alle forme audiovisive (cioè alle parti di realtà del racconto «incluse»: riprese e montate), l’identificazione del codice del cinema col codice della realtà di fronte alle forme non­audiovisive (cioè i momenti del racconto «esclusi» dalle riprese e dal montaggio), è un’identificazione assoluta.
Come in quel piano sequenza infinita che è la realtà, nel cinema il racconto consiste in un seguito di «inclu­sioni» e di «esclusioni». Ora, poiché in un film, la scelta è estetica, si deve dedurre che la prima scelta estetica di un regista è che cosa includere in un film o che cosa escludere.
Una scelta estetica è sempre una scelta sociale. Essa è determinata dalla persona a cui si rivolge la rappresenta­zione e dal contesto in cui la rappresentazione si svolge. Ciò non significa affatto che la scelta estetica sia impura o interessata. Anche le scelte di un santo sono sociali.
Prendiamo una scena erotica da laboratorio. Una ca­mera, un uomo, una donna. Il regista è di fronte alla so­lita scelta: che cosa includere e che cosa escludere? Ven­ti anni fa il regista avrebbe «incluso» una breve serie di atti appassionati e nobilmente sensuali, fino a compren­dere un lungo bacio. Dieci anni fa il regista avrebbe «in­cluso» molto di più: dopo il primo bacio sarebbe giunto fino al momento in cui le gambe e, quasi completamen­te, i seni della donna, fossero scoperti, aggiungendo un secondo bacio ormai chiaramente precedente il coito. Oggi, il regista può «includere» molto di più: può inclu­dere il coito stesso (anche se finto dagli attori) e addirit­tura il nudo completo.
Nessuno di questi tre ipotetici registi può venire accu­sato di non aver fatto delle scelte estetiche, e di non essere andato fino in fondo al suo assunto espressivo. Di non avere, con uno sforzo personale, allargato lo spazio che — proporzionalmente — il contesto sociale gli concedeva.
Ora, pare che a questo punto, io sia chiamato in causa direttamente, e che debba testimoniare, oppure illustra­re o giustificare, un’esperienza personale e pubblica nel tempo stesso. Infatti come autore di film, in questi ulti­mi anni, ho indubbiamente compiuto uno di quegli sfor­zi individuali di cui dicevo, per allargare lo spazio espressivo che la società mi concedeva a rappresentare il rapporto erotico. Sono giunto, per esempio — cosa mai accaduta fino a quel momento — a rappresentare il sesso addirittura in dettaglio. Devo dire anzitutto che io stes­so, negli anni precedenti — sia con le opere che con gli interventi esplicitamente politici — e, inoltre, col mio stesso essere e comportarmi — avevo dato il mio contri­buto perché la società italiana mi concedesse quello spa­zio entro cui io potessi esercitare lo sforzo necessario per aumentare ancora di più le possibilità del rappresen­tabile. Sono state le lunghe lotte — ormai arcaiche se non mitiche — degli anni Cinquanta e quelle, ancora ribollen­ti, dei primi anni Sessanta, a preparare il terreno a que­sta inclinazione alle riforme e alla tolleranza da parte della società borghese italiana. La censura che un tempo censurava un seno scoperto, ora è giunta a lasciar passa­re, appunto, il dettaglio di un sesso in primo piano; e la magistratura, che, un tempo condannava per una sem­plice illazione, oggi è costretta a rendere molto più ela­stica la nozione sacra del «comune senso del pudore», C’è, in questi mesi, è vero, la minaccia di un ritorno all’ordine (non citerò gli esempi). Ma io penso che ciò che si è stabilizzato si sia stabilizzato, ciò che è passato sia passato. Se non fosse così, ebbene, chi ha lottato, lot­terà ancora: ma per difendere le ultime posizioni rag­giunte. E ragionevolmente da escludere che si debba ri­cominciare a lottare per difendere posizioni più arretrate.
La minaccia non viene più dal Vaticano né dai Fascisti, che, nell’opinione pubblica, sono già sconfitti e liquidati, anche se ancora incoscientemente. L’opinione pubblica è ormai del tutto determinata — nella sua realtà — da una nuova ideologia edonistica e completamente, anche se stupidamente, laica. Il potere permissivo (al­meno in certi campi) proteggerà tale nuova opinione pubblica. L’eros è nell’area di tale permissività. Esso è insieme fonte e oggetto di consumo. La società non ha più bisogno di figli forti e obbedienti e di soldati. Ha bi­sogno di figli a conoscenza di nuove esigenze, e coscien­ti quindi dei nuovi diritti che sono stati concessi loro. Ma di questo dirò più avanti.
Perché io sono giunto all’esasperata libertà di rappre­sentazione di gesti e atti sessuali, fino, appunto, come dicevo, alla rappresentazione in dettaglio e in primo pia­no, del sesso? Ho una spiegazione, che mi fa comodo e mi sembra giusta, ed è questa. In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura — e che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo modo grandioso, di due sottoculture: quella della bor­ghesia e quella della contestazione ad essa — mi 
è sem­brato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo. Cioè, in pratica, la cultura mi è sembrata ridursi a una cultura del passato popolare e umanistico — in cui, ap­punto, la realtà fisica era protagonista, in quanto del tut­to appartenente ancora all’uomo.
Era in tale realtà fisica — il proprio corpo — che l’uo­mo viveva la propria cultura.
Ora, i borghesi, creatori di un nuovo tipo di civiltà, non potevano che giungere a derealizzare il corpo. Ci sono riusciti, infatti, e ne hanno fatto una maschera. I giovani altro non sono oggi che delle mostruose masche­re «primitive» di una nuova specie di iniziazione — finta­mente negativa — al rito consumistico.
Il popolo è giunto con un po’ di ritardo alla perdita del proprio corpo. Fino a pochi anni fa (quando io pen­savo al Decameròn e alla susseguente Trilogia della vita) il popolo era ancora quasi completamente in possesso della propria realtà fisica e del modello culturale a cui essa si configurava. Per un regista come me, che avesse intuito che la cultura (in cui egli si era formato) era fini­ta, che non dava più realtà a nulla, se non appunto (for­se) alla realtà fisica, era naturale conseguenza che tale realtà fisica si identificasse con la realtà fisica del mondo popolare.
Dunque riassumendo: alla fine degli anni Sessanta l’Italia è passata all’epoca del Consumismo e della Sot­tocultura, perdendo così ogni realtà, la quale è soprav­vissuta quasi unicamente nei corpi e precisamente nei corpi delle classi povere.
Protagonista dei miei film è stata così la corporalità popolare. Non potevo — e proprio per ragioni stilistiche — non giungere alle estreme conseguenze di questo as­sunto. Il simbolo della realtà corporea è infatti il corpo nudo: e, in modo ancora più sintetico, il sesso. Non sarei giunto in fondo alla rappresentazione della realtà corpo­rea se non avessi rappresentato il momento corporeo per definizione. Il popolo può essere anche casto, e con­durre una vita monacale. Ma — almeno fino a pochi anni fa — non era diviso dal proprio sesso. La morale dell’onore, nel meridione, non avviliva o rimuoveva il sesso: anzi, lo esaltava. E così, del resto, la repressione esercitata dalle classi al potere. Castità e violenza sessua­le erano viste con naturalezza. I tabù creavano ostacoli, non dissociazioni.
Naturalmente al fatto che io scegliessi come protago­nista dei miei ultimi film la realtà fisica del popolo, e la rappresentassi nella sua interezza, hanno contribuito an­che altre ragioni, oltre a quella generale e profonda che ho detto. Per esempio, la ragione che i rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche proprio di per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare così alta, assoluta, da valer la pena di dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo cinema è una confessione anche di questo, sia detto chiaramente. E, siccome ogni con­fessione è anche una sfida, contenuta nel mio ultimo ci­nema è anche una provocazione. Una provocazione su più fronti.
Provocazione verso il pubblico piccolo-bor­ghese e benpensante (che peraltro non si è lasciato affat­to provocare, e ha semplicemente, e finalmente, ricono­sciuto nel cinema una sua realtà — naturale per il pubblico popolare, liberatoria per parte del pubblico borghese). Provocazione verso i critici, i quali, rimuo­vendo dai miei film il sesso, hanno rimosso il loro conte­nuto, e li hanno trovati dunque vuoti, non comprenden­do che l’ideologia c’era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo schermo, sopra le loro teste che non volevano capire. Provocazione contro il moralismo gau­chista, le cui Vestali si sono indignate e hanno gridato allo scandalo esattamente come le Vestali della tradizio­ne («Potere operaio» ha usato in proposito lo stesso lin­guaggio, anzi, le stesse parole, dei Pubblici Ministeri). Sì, non ho voluto fare del cinema politico d’intervento, non ho voluto fare neanche della politica romanzata. In­fatti, fra non molto, molti si vergogneranno dei loro film degli anni Sessanta (vergogna condivisa dai loro destina­tari). Io no, non mi vergognerò. Già — tanto per comin­ciare — la responsabilità, che mi veniva vergognosamente attribuita, di aver creato un genere cinematografico vol­gare e commerciale, si è stinta, e si è rivelata per quel fat­to passeggero e irrisorio che
era. Posso invece vantarmi, se mai, di aver costituito il necessario precedente per i film di Bertolucci e di Ferreri. E, inoltre, potrei anche vantarmi di aver inciso coi miei film sul costume italiano e sulla sua evoluzione; sulla liberalizzazione dell’opinio­ne pubblica e sulla decongestione del «comune senso del pudore». Di questo, invece, non mi vanto. Anche se ne Il Fiore delle mille e una notte e nel prossimo film, che avrà per tema esplicitamente la «ideologia», conti­nuerò a rappresentare anche la realtà fisica e il suo bla­sone, Tetis, mi pento dell’influenza liberalizzatrice che i miei film eventualmente possano aver avuto nel costume sessuale della società italiana. Essi hanno contribuito, infatti, in pratica, a una falsa liberalizzazione, voluta in realtà dal nuovo potere riformatore permissivo, che è poi il potere più fascista che la storia ricordi. Nessun po­tere ha avuto infatti tanta possibilità e capacità di creare modelli umani e di imporli come questo che non ha vol­to e nome. Nel campo del sesso, per esempio, il modello che tale potere crea e impone consiste in una moderata libertà sessuale che includa il
consumo di tutto il super­fluo considerato necessario a una coppia moderna. Ve­nuti in possesso della libertà sessuale per concessione, e non per essersela guadagnata, i giovani — borghesi, e so­prattutto proletari e sottoproletari — se tali distinzioni sono ancora possibili — l’hanno ben presto e fatalmente trasformata in obbligo. L'obbligo di adoperare la libertà concessa: anzi, d’approfittare fino in fondo della libertà concessa, per non parere degli «incapaci» o dei «diver­si»: il più tremendo degli obblighi. L’ansia conformisti­ca di essere sessualmente liberi, trasforma i giovani in miseri erotomani nevrotici, eternamente insoddisfatti (appunto perché la loro libertà sessuale è ricevuta, non conquistata) e perciò infelici. Così l’ultimo luogo in cui abitava la realtà, cioè il corpo, ossia il corpo popolare, è anch’esso scomparso. Nel proprio corpo i giovani del popolo vivono la stessa dissociazione avvilente, piena di false dignità e di orgogli stupidamente feriti, che i giova­ni della borghesia. Se volessi continuare con film come Il Decameròn non potrei più farlo, perché non troverei più in Italia — specie nei giovani — quella realtà fisica (il cui vessillo è il sesso con la sua gioia) che, di quei film è il contenuto.

Pier Paolo Pasolini


Nota al testo “Tetis”
Da Note e notizie sui testi
in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p.1756

TETIS (1973)



Intervento al convegno Erotismo, eversione, merce, organizzato a Bologna (15-17 dicembre 1973) con il proposito di «analizzare teo­ricamente la funzione sociale e quindi politica dell’Eros». Il volu­me, a cura di Vittorio Boarini (Cappelli, Bologna 1973), compren­de, fra gli altri, interventi di Félix Guattari, Alberto Lattuada, Nanni Loy, Fernanda Pivano, Gianni Scalia, Elémire Zolla. Datti­loscritto in AP, originariamente inserito nella cartella approntata da Pasolini Descrizioni di descrizioni 1974.
Il titolo del saggio è legato alla convinzione, più volte riafferma­ta da Pasolini (cfr. Dal Laboratorio, in EE), che “tetis” in greco si­gnifichi «sesso, sia maschile che femminile». Dalla stessa convin­zione deriva anche il nome di Carlo di Tetis per una delle due personificazioni del protagonista di Petrolio.
Il 4 febbraio 1973, nella rubrica Tribuna aperta del «Corriere della Sera» (Libertà e sesso secondo Pasolini), Pasolini si era lamen­tato delle imitazioni subite dai suoi film della “Trilogia della vita“, ma rivendicava ancora senza pentimenti la rappresentazione del sesso come forma della libertà d’espressione. Riportiamo qui un brano di quell’articolo (il resto, specificamente dedicato ai Raccon­ti di Canterbury, verrà pubblicato in appendice alla sceneggiatura, nei volumi dedicati al cinema).

Al Decameron è seguita una lunga serie di film che non sol­tanto lo imitavano, ma cercavano (e ci riuscivano, presso il grande pubblico) di esserne delle perfette contraffazioni; di passare per i suoi «seguiti»; di riprodurne, insomma, l’auten­ticità. Si trattava dunque di vere e proprie truffe o sofistica­zioni. La stessa cosa è successa ai Racconti di Canterbury (e addirittura alle Mille e una notte, che devo ancora girare, per esempio, con un Finalmente le Mille e una notte). Insomma la concorrenza è stata ed è continua, sleale, sfacciata, brutale. Una torma di sciacalli ha seguito il Decameron e segue ora i Racconti di Canterbury, valendosi di metodi che dovrebbero essere inconcepibili in una società appena civile. E, del resto, sono inconcepibili: nessuno di noi potrebbe concepire infatti che uscisse un prodotto chiamato «Agip n. 2», oppure «Fi­nalmente Fiat» (col «finalmente» in caratteri molto piccoli). Ma questo è il lato puramente commerciale o concorrenziale della faccenda.

C’è molto di peggio, ai danni non solo dell’autore dei pro­dotti primi — del Decameron, dei Racconti di Canterbury — ma naturalmente anche del pubblico. Infatti l’equivoco non ri­guarda solo la autenticità, ma anche la qualità dell’opera.
La gente — e purtroppo era molta — che, incontrandomi per strada mi chiedeva del Decameron n. 2 o del Decameron proi­bito attribuendomene la paternità, credeva anche che la «qualità» delle opere fosse la stessa (benché, magari, le opere inaugurali gli paressero «riuscite meglio»). Ciò è umiliante per me, ma anche per quegli innocenti. Non si può preten­dere dai singoli spettatori che formano il grande pubblico nessuna forma di correttezza e di autonomia di giudizio. Or­mai la gente — tutta — ha perduto il senso della forma. Il giu­dizio è brutalmente contenutistico. E questo vale non solo per coloro che confondono il Marito cornuto del Boccaccio con quello delle barzellette, ma anche per le élites dei privile­giati (come per esempio i critici cinematografici) che credo­no che un film sia politico perché ha un contenuto politico, mentre la sua forma è quella dei più orrendi e approssimativi prodotti televisivi.
Comunque è un dato di fatto che creare in uno spettatore in­difeso una confusione di valori che identifichi la «qualità» di un’opera di autore con la «qualità» della più volgare e infa­me contraffazione commerciale è delittuoso.
Ebbene, non una voce in Italia si è levata a protestare contro tutto questo. Non c’è stato un prete o un magistrato che ab­bia protestato contro l’indegnità morale e giuridica di una concorrenza sleale che — sia ben chiaro — non è eccezionale ma tipica della vita italiana. Non c'è stato un prete o un ma­gistrato che abbia protestato contro l’indegnità morale e giu­ridica — ai danni di una singola persona e dell’intero pubbli­co — della confusione di valori creata da tale concorrenza. Non c’è da meravigliarsi, certo. È ben nota l’indifferenza dei moralisti italiani ai reali problemi morali, quelli su cui si fon­da una realtà nazionale.
A compensare questo colpevole silenzio dei nostri moralisti, si è avuta però, un’altra, vibrante, generale protesta per la li­bertà della rappresentazione sessuale del Decameron e dei Racconti di Canterbury (non delle loro contraffazioni, però). A questo punto il discorso si restringe e si allarga nel tempo stesso. Si restringe perché un discorso sul sesso è meno va­sto, civilmente e politicamente, di quello sulla «produzione» e sugli annessi «valori»; si allarga, perché il discorso sul sesso è, moralmente, per definizione, più vasto e profondo di ogni altro.
La prima cosa da dire è questa: è un dovere per ogni cittadi­no provare ed esprimere una indignazione morale verso co­loro che, per puro interesse, creano «prodotti» contraffatti con gli impliciti «valori» mistificati. Insomma è giusto indi­gnarsi per la contraffazione e la mistificazione dei vini dei Castelli o degli olii lombardi; e sarebbe giusto indignarsi per la contraffazione e la mistificazione dei film romani (oltre tutto il giro di miliardi non è inferiore).
E invece ingiusto — anzi stupido e malvagio — indignarsi per ogni forma di libertà sessuale nel momento in cui essa è li­bertà d’espressione.

Pier Paolo Pasolini

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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