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domenica 1 maggio 2022

Pier Paolo Pasolini, AL LETTORE NUOVO - 1970

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Nel 1970, Pier Paolo Pasolini raccoglie in un volume intitolato Poesie, per Garzanti, versi tratti da Le ceneri di Gramsci (1957), La religione del mio tempo (1961) e Poesia in forma di rosa (1964). Per Pasolini questo è un atto conclusivo di un periodo letterario per aprirne un altro e su richiesta di Livio Garzanti ne scrive l’introduzione intitolandola: 

AL LETTORE NUOVO


L'ultimo libro di versi che ho stampato è Poesia in forma di rosa, nel 1964. Sono passati sei anni. In questo periodo ho girato molti film ( dal Vangelo secondo Matteo, a cui stavo lavorando quando Poesia in forma di rosa è uscito, a Uccellacci e uccellini, Edipo re, Teorema, Porcile, Medea ) : tutti questi film io li ho girati <<come poeta >>.


Non è qui il caso di fare un'analisi sull'equivalenza del <<sentimento poetico>> suscitato da certe sequenze del mio cinema e di quello suscitato da certi passi dei miei volumi di versi. Il tentativo di definire una simile equivalenza non si è mai fatto, se non genericamente, richiamandosi ai contenuti. Tuttavia credo che non si possa negare che un certo modo di provare qualcosa si ripete identico di fronte ad alcuni miei versi ed alcune mie inquadrature.

Ma, dal '64 in poi, non ho scritto solo poesia attraverso il cinema: è solo per un anno o due che ho completamente taciuto come <<poeta in versi>> ( pur scrivendo delle cose che son rimaste inedite e incomplete ): nel '65 sono stato un mese a letto ammalato, e, durante la convalescenza, ho ripreso a lavorare - e - forse perché durante la malattia avevo riletto Platone, con una gioia che non so descrivere - mi son messo a scrivere del teatro: sei tragedie un versi, a cui ho lavorato per tutti questi cinque anni - tornandoci alle volte dopo un anno e più di abbandono - e che stanno per uscire col titolo di Calderón.


Evidentemente, in quel periodo, potevo scrivere versi solo attribuendoli a dei personaggi, che mi facessero da interposte persone.

Ma, cominciando con poesie d'occasione o addirittura scritte su commissione - dopo un primo prodotto piuttosto poco lavorato - Il Pci ai giovani! - scritto ai primi di marzo del 1968 e uscito poco dopo, proditoriamente, a mia insaputa, su un rotocalco ( se fosse uscito nella rivista specializzata <<Nuovi Argomenti>> cui era destinato, sarebbe stato 'altro' da quello che è stato)- nell'autunno di quell'anno ho <<ricominciato>> a essere un facitore di versi nel senso corrente del termine : e ora ho pronto un nuovo volume Trasumanar e organizzar, che uscirà ben oresto, presso questo stesso editore, che mi prega ora di scrivere la presente introduzione alle mie poesie <<vecchie>>.

Sei anni sono pochi: ma se si pensa che il primo di questi volumi che qui sono antologizzati è uscito nel giugno del '57 ( e la poesia Le ceneri di Gramsci che gli dà il titolo, è del maggio 1954 ), allora l'intervallo di sei anni diventa l'intervallo di un'intera epoca letteraria e politica ( anche se in parte, con le ultime poesie, vissuta nella transizione ).


Suppongo quindi di rivolgermi ad un <<lettore nuovo>>. E ad esso non so e non voglio dare altro che informazioni.

Io non ho cominciato a scrivere versi con Le ceneri di Gramsci: ho cominciato molto prima, ed esattamente nel 1929 a Sacile, quando avevo sette anni appena compiuti, e frequentavo la seconda elementare.

È stata mia madre che mi ha mostrato come la poesia possa essere materialmente scritta, e non solo letta a scuola ( <<Vitrea è l'aria...>> ). Misteriosamente, un bel giorno, mia madre infatti mi presentò un sonetto, composto da lei, in cui esprimeva il suo amore per me ( non so per quali costrizioni di rima la poesia finiva con le parole <<di bene te ne voglio un sacco >> ). Qualche giorno dopo scrissi i miei primi versi: dove si parlava di <<rosignolo>> e di <<verzura>>. Credo che non avrei saputo distinguere allora un rosignolo da un fringuello, come del resto un pioppo da un olmo: e del resto a scuola ( ad opera della signora Ada Costella, toscana, mia maestra in quella indimenticabile seconda elementare ) Petrarca certo non si leggeva. Dunque non so dove avessi imparato il codice classicistico dell'elezione e della selezione linguistica. Fatto sta che non tenedo conto dell' abundantia cordis di mia mamma, ho cominciato come rigidamente <<selettivo>> ed <<eletto>>.


Ho scritto da allora in poi intere collezioni di volumi di versi: a tredici anni sono stato poeta epico ( dall'Iliade ai Lusiadi ). Non ho trascurato il dramma in versi, non evitato, con l'adolescenza, l'inevitabile incontro con Carducci, Pascoli e D'Annunzio, fase incominciata a Scandiano - il ginnasio, frequentato da <<pendolare>>, era quello di Reggio Emilia - e concluso a Bologna, al Liceo Galvani, nel '37: anno in cui un professore supplente - Antonio Rinaldi - lesse in classe una poesia di Rimbaud.


Dal '37 al '42, '43, vissi il grande periodo dell'ermetismo, studiando con Longhi all'università, e vivendo ingenue relazioni letterarie coi miei coetanei che si interessavano di queste cose: due di essi sono Francesco Leonetti e Roberto Roversi; ma benché di qualche anno più vecchio era tra noi anche Francesco Arcangeli, e poi Alfonso Gatto. Ero un ragazzino
precocemente universitario; ma non vissi quell'esperienza da apprendista soltanto, bensì da iniziato. Nel 1942, infatti, uscì a mie spese, presso la Libreria Antiquaria del signor Landi, il mio primo volumetto di versi, Poesie a Casarsa: avevo esattamente vent'anni; ma le poesie lì raccolte le avevo cominciate a scrivere circa tre anni prima - a Casarsa, il paese di mia madre - dove si andava ogni estate nella povera villeggiatura presso i parenti che il magro stipendio di mio padre ufficiale ci permetteva ecc.
Erano poesie in dialetto friulano: <<hésitation prolongée entre le sens et le son>> ( Valéry, citato da Jakobson ) aveva avuto un'apparente definitiva opzione per il suono; e la dilatazione semantica operata dal suono si era spinta fino a trasferire i semantemi in un altro dominio linguistico, donde ritornare gloriosamente indecifrabili.

Una quindicina di giorni dopoche 
il libro era uscito ho ricevuto una cartolina postale di Gianfranco Contini, che mi diceva che il libro gli era tanto piaciuto che l'avrebbe immediatamente recensito.

Chi potrà mai descrivere la mia gioia? Ho saltato e ballato per i portici di Bologna; e quanto alla soddisfazione mondana cui si può aspirare scrivendo versi, quella di quel giorno di Bologna è stata esaustiva: ormai posso benissimo farne per sempre a meno. La recensione di Contini non è poi uscita su <<Primato>> come egli aveva programmato, ma sul <<Corriere di Lugano>>, all'estero, in Svizzera, terra per definizione dei fuorusciti. Perché ? Perché il fascismo - con mia grande sorpresa - non ammetteva che in Italia ci fossero dei particolarismi locali, e degli idiomi di ostinati imbelli. Così...la mia <<lingua pura per poesia>> era stata scambiata per un documento realistico provante l'esistenza obiettiva di poveri contadini eccentrici o, per lo meno, ignari dell'esigenza idealistica del Centro...È vero che io non ero più fascista <<naturale>> da quel giorno del '37 in cui avevo letto la poesia di Rimbaud: ma ormai l'antifascismo cessava di essere puramente culturale: sì, poiché il Male, lo sperimentavo nel mio caso.

Sfollammo a Casarsa proprio quell'inverno, e il '43 resta uno degli anni più belli della mia vita: <<mi joventud, veinte años en tierra de Castilla!>> ( Machado ).
Continuai a scrivere poesie friulane, ma cominciai a scriverne anche di analoghe in italiano. Il friulano delle poesie adesso era diventato esattamente quello parlato a Casarsa ( e non un friulano inventato sul Pirona, dizionario friulano-italiano ); mentre l'italiano, a causa del calco sul dialetto, aveva acquistato un'aria romanza e ingenua. L'italiano letterario - il nuovo latino, che in quegli anni si chiamava, attraverso gli ermetici, soprattutto Leopardi - continuava tuttavia a impormi la sua tradizione elettiva e selettiva, a cui non si sfugge; dunque scrivevo versi  ( Diari ) e tenevo un giornale ( Scartafaccio per analogia con Zibaldone ), che continuavano a seguire un <<filone centrale>>iniziato da sempre per privilegio ( e destinato a non estinguersi mai ), precedente a quelle poesie friulane che dicevo, uscite nel '42: le quali ultime erano dunque, rispetto alla produzione ambiziosamente letteraria, quasi delle nugae, per l'appunto volgari. Solo che, nel caso specifico, non so in che modo, ma certamente in qualche modo, io sapevo, pur forse non dicendomelo, che erano proprio quelle nugae che contavano.

Le poesie friulane le avrei poi raccolte in un'edizione Sansoni nel 1954; mentre le nugae italiane che avevo cominciato a scrivere in quel periodo avrebbero costituito L'Usignolo della Chiesa Cattolica ( Longanesi, 1958 ). Ero andato nel frattempo sotto le armi, per pochi giorni, dal 1° settembre all'8 settembre 1943. Ritornai da Pisa a Casarsa, lacero con una scarpa diversa dall'altra, dopo aver disobbedito all'ordine datomi dai miei ufficiali di consegnare le armi ai tedeschi ( su un canale presso Livorno ); dopo aver fatto un centinaio di chilometri a piedi; e dopo aver rischiato mille volte di finire in un treno per la Germania. Ricominciai subito a scrivere versi in friulano e in italiano, i fasti campestri della Meglio gioventù e dell'Usignolo. Ciò che non mi impedì di andare a scrivere VIVA LA LIBERTÀ sui muri, e di finire per la prima volta in vita mia  in camera di sicurezza , esperimentando ciò che sono gli uomini dell'ordine. Da allora passai la vita nascosto e braccato - e molto terrorizzato, perché allora avevo una paura decisamente patologica della morte - continuamente ossessionato dall'idea di finire uncinato: ché così finivano nel Litorale Adriatico i giovani renitenti alla leva o dichiaratamente antifascisti. Mio fratello - di tre anni più giovane e di leva lui, ora - partì per la montagna a fare il partigiano armato: lo accompagnai alla stazione ( aveva la pistola nascosta in un libro ). Partiva come comunista; poi, per mio consiglio ( essere vissuto tre anni di più in periodo fascista doveva pur aver contato qualcosa ) era passato al Partito d'Azione e alla divisione Osoppo: dei comunisti legati ai reparti di Tito, che in quel momento intendevano annettersi parte del Friuli, l'avrebbero ucciso. La guerra finì e cominciò per me il periodo più tragico della mia vita ( continuavo a svrivere La meglio gioventù e L'Usignolo ): la morte di mio fratello e il dolore sovrumano di mia madre; il ritorno di mio padre dalla prigionia: reduce malato, avvelenato dalla sconfitta del fascismo, in patria, e, in famiglia, della lingua italiana; distrutto, feroce, tiranno senza più potere, reso folle dal cattivo vino, sempre più innamorato di mia madre che non l'aveva mai altrettanto amato e ora era, per di più, solo intenta al suo dolore; e a questo si aggiunga il problema della mia vita e della mia carne. Nell'inverno del '49, mio caro lettore, particolarmente caro perché nuovo, e perché utente di semplici antologie in edizione non costosa, fuggi con mia madre a Roma, come in un romanzo. 


Il periodo friulano era finito; i volumi mi sarebbero a lungo rimasti nel cassetto, per poi uscire alle date che ho detto; ma subito , a Roma, ripresi a scrivere quei diarii, in versi, assai meno eccentrici, di matrice letteraria e post-ermetica, che come ho detto, non avevo mai smesso di scrivere neanche nel Friuli romanzo, tra le sue viti e i suoi gelsi. Ne raccolsi più tardi un gruppo sotto il titolo appunto di Roma 1950 ( e avrei continuato fino al Sonetto primaverile, Scheiwiller, 1960 ).  Ma subito, pochi mesi dopo il mio arrivo a Roma, se da una parte continuavo in chiave barocca e gaddiana le mie ricerche anti-italiane, che avevo cominciato in chiave romanza e alloglotta in Friuli - cominciai a scrivere quella <<cosa>>narrativa che poi avrebbe dovuto intitolarsi Ragazzi di vita (1955 ).


A Roma dapprima vissi a piazza Costaguti, vicino al Portico D'Ottavia ( il ghetto! ), poi andai nel ghetto delle borgate, vicino all prigione di Rebibbia, in una casa restata definitivamente senza tetto ( tredicimila lire al mese di affitto ). Per due anni fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese. Nella casa di Rebibbia, nella fascia delle borgate, ho cominciato - in una lenta trasformazione e fusione del contingente anti-italiano, spesso in falsetto ( che aveva dato i versi dialettali e affini ) e del contingente classicistico dei diarii - la mia <<opera poetica>> vera e propria, quella che ora mi pare la mia <<vecchia poesia>>, dalle Ceneri di Gramsci alla Poesia in forma di rosa.


L'ho già detto tante volte, in tante interviste, che la cosa è divenuta quasi un meccanismo per far scattare il discorso che voglio ( per piegare la realtà al mio disegno ): ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra ( "I giorni del lodo De Gasperi" doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato invece nel 1962 col titolo "Il sogno di una cosa" ). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci.


La trasformazione  e la fusione, di cui dicevo, dei miei due filoni poetici,  l'anti-italiano  in falsetto, e l'italiano eletto, avviene sotto il segno del mio marxismo mai ortodosso. È  lentamente  che  arrivo al <<poema civile >> sulle ceneri di Gramsci : tutta la prima parte del volume,  da "L'Appennino"  a "L'umile Italia",  è  preistorica rispetto ad esso: nelle borgate del sottoproletariato romano permane lo spirito Prealpino, delle terre pulite, dei boschi cedui,  che si accumula formalmente  soprattutto negli spazi obbligati dalla necessità  di rima ( delle terzine ), sotto forma di elementi ritardanti. Mi accorgo del resto ora che, dal tempo della lotta dei braccianti a oggi, ben poco è  sostanzialmente  cambiato, in me e fuori di me. Proprio  mentre  scrivo  questa  introduzione per un lettore non specializzato, sto lavorando  a un documentario sullo sciopero  degli scopini  romani ( Appunti per un romanzo  sull'immondezza ), e non mi pare affatto che siano passati quasi trent'anni. Può  darsi che il sentimento  della lotta  di classe che hanno i giovani del 1968-70 abbia riportato indietro,  a quei grandi giorni: e non importa se ciò è  un'illusione. Del resto la lotta di classe è un fenomeno che non si risolve in trent'anni, e le cui caratteristiche  sono sempre le stesse.

A questo proposito vorrei indicare soprattutto al lettore giovane il poema "Una polemica in versi" e l'ultimo dell'antologia, "Vittoria": sarei contento se egli vi trovasse prefigurato lo spirito politico e idealistico che oggi lo anima.

Quanto al resto, le poesie qui antologizzate dai volumi che comprendono i tredici anni che vanno dal '51 al '64, formano un blocco coerente e compatto. Ciò che in esso mi colpisce - come se me ne fossi estraniato, ma non è  vero - è un diffuso senso di scoraggiante infelicità: un'infelicità facente parte della lingua stessa, come un suo dato riducibile in quantità  e quasi in fisicità. Questo senso ( quasi un diritto ) di essere infelice, è talmente predominante, che la stessa felicità  sensuale ( di cui del resto il libro è pieno, ma come una colpa ) ne è offuscata; e così  l'idealismo civile. Ciò  che mi colpisce ancora, rileggendo questi versi, è  rendermi conto di quanta fosse ingenua l'espansività con cui li scrivevo: proprio come se scrivessi per chi non potesse volermi che un gran bene. Adesso capisco perché sono stato tanto sospetto e odiato.


Concludo aggiungendo, come in appendice, una fonte di luce che abbia valore retroattivo: cioè una poesia, di questi ultimi mesi, intitolata Charta (sporca) non contribuirà certo a una sistemazione di questa mia antologia di poesie vecchie, né ad attirarmi simpatie; tenderà anzi a rimettere in discussione tutto, ché in definitiva mi rifiuto, sia inconsapevolmente che consapevolmente, a ogni forma di pacificazione...


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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