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lunedì 25 aprile 2022

Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere - II Menabò», n. 6, Torino, 1963

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini
Le belle bandiere

[«II Menabò», n. 6, Torino, 1963] 

(oggi in Poesia a forma di rosa)


 I sogni del mattino: quando

 il sole già regna,

 in una maturità

 che sa solo il venditore ambulante,

 che da molte ore cammina per le strade

 con una barba di malato

 sulle grinze della sua povera gioventù:

 quando il sole regna

 su reami di verdure già calde, su tende

 stanche, su folle

 i cui panni sanno già oscuramente di miseria

 – e già centinaia di tram sono andati e tornati

 per le rotaie dei viali che circondano la città,

 inesprimibilmente profumati,  

 i sogni delle dieci del mattino,

 nel dormente, solo,

 come un pellegrino nella sua cuccia,

 uno sconosciuto cadavere,

 – appaiono in lucidi caratteri greci,

 e, nella semplice sacralità di due tre sillabe,

 piene, appunto, del biancore del sole trionfante –

 divinano una realtà,

 maturata nel profondo e ora già matura, come il sole,

 a essere goduta, o a fare paura.

  

 Cosa mi dice il sogno mattutino?

 «il mare, con lente ondate, grandiose, di grani azzurri,

 si abbatte, lavorando con furore uterino,

 irriducibile,

 e quasi felice – perché dà felicità

 il verificare anche l’atto più atroce del destino –

 sgretola la tua isola, che ormai

 è ridotta a pochi metri di terra…»

  

 Aiuto, avanza la solitudine!

  

 Non importa se so che l’ho voluta, come un re.

  

 Nel sonno, in me, un bambino muto si spaventa,

 e chiede pietà, si affanna a correre ai ripari,

 con un’agitazione

 che «la virtù dismaga», povera creatura.

 Lo atterrisce l’idea

 di essere solo

 come un cadavere in fondo alla terra.

  

 Addio, dignità, nel sogno, sia pur mattutino!

 Chi deve piangere piange,

 chi deve aggrapparsi alle falde delle vesti altrui,

 si aggrappa, e le tira, e le tira,

 perché si voltino quelle faccie colore del fango,

 e lo guardino negli occhi terrorizzati

 per informarsi della sua tragedia,

 per capire quanto sia spaventoso il suo stato!

  

 Il biancore del sole, su tutto,

 come un fantasma che la storia

 preme sulle palpebre

 col peso dei marmi barocchi o romanici…

 Ho voluto la mia solitudine.

 Per un processo mostruoso

 che forse potrebbe rivelare

 solo un sogno fatto dentro un sogno…

  

 E, intanto, sono solo.

 Perduto nel passato.

 (Perché l’uomo ha un periodo solo, nella sua vita.)

Di colpo i miei amici poeti,

 che condividono come me il brutto biancore

 di questi Anni Sessanta,

 uomini e donne, appena un po’ più anziani

 o più giovani – sono là, nel sole.

  

 Non ho saputo avere la grazia

 per tenermeli stretti – nell’ombra di una vita

 che si svolge troppo attaccata

 all’accidia radicale della mia anima.

  

 La vecchiaia, poi, ha fatto

 di mia madre e di me

 due maschere

 che nulla hanno peraltro perduto

 della tenerezza mattutina

 – e l’antica rappresentazione

 si ripete

 nell’autenticità

 che solo sognando dentro un sogno,

 potrei forse chiamare col suo nome.

  

 Tutto il mondo è il mio corpo insepolto.

 Atollo sbriciolato

 dalle percosse dei grani azzurri del mare.

  

 Cosa fare, se non, nella veglia, avere dignità?

 È giunta l’ora dell’esilio,

 forse: l’ora in cui un antico avrebbe dato realtà

 alla realtà,

 e la solitudine maturata intorno a lui,

 avrebbe avuto la forma della solitudine.

  

 E io invece – come nel sogno –

 mi accanisco a darmi illusioni, penose,

 di lombrico paralizzato da forze incomprensibili:

 «ma no! ma no! è solo un sogno!

 la realtà

 è fuori, nel sole trionfante,

 nei viali e nei caffè vuoti,

 nella suprema afonia delle dieci del mattino,

 un giorno come tutti gli altri, con la sua croce!»

  

 Il mio amico dal mento di papa, il mio

 amico dall’occhio marroncino…

 i miei cari amici del Nord

 fondati su affinità elettive dolci come la vita

 – sono là, nel sole.

  

 Anche Elsa, col suo biondo dolore,

 lei – destriero ferito, caduto,

 sanguinante – è là.

  

 E mia madre mi è vicina…

 ma oltre ogni limite di tempo:

 siamo due superstiti in uno.

 I suoi sospiri, qua, nella cucina,

 i suoi malori a ogni ombra di degradante notizia,

 a ogni sospetto della ripresa

 dell’odio del branco di goliardi che ghignano

 sotto la mia stanza di agonizzante

 – non sono che la naturalezza della mia solitudine.

  

 Come una moglie messa nel rogo col re,

 o sepolta con lui

 in una tomba che se ne va come una barchetta

 verso i millenni – la fede degli Anni Cinquanta,

 è qui con me, già leggermente oltre i limiti del tempo,

 a farsi sgretolare anch’essa

 dalla pazienza furibonda dei grani azzurri del mare.

  

 E…

 i miei amori di pura sensualità,

 replicati nelle valli sacre della libidine,

sadica, masochista, i calzoni

 con la loro sacca tiepida

 dove è segnato il destino di un uomo

 – sono atti che io compio solo

 in mezzo al mare stupendamente sconvolto.

  

 Piano piano le migliaia di gesti sacri,

 la mano sul gonfiore tiepido,

 i baci, ogni volta a una bocca diversa,

 sempre più vergine,

 sempre più vicina all’incanto della specie,

 alla norma che fa dei figli teneri padri,

 piano piano

 sono divenuti monumenti di pietra

 che a migliaia affollano la mia solitudine.

  

 Attendono

 che una nuova ondata di razionalità,

 o un sogno fatto nel fondo di un sogno, ne parli.

 Così mi desto,

 ancora una volta:

 e mi vesto, mi metto al tavolo di lavoro.

 La luce del sole è già più matura,

 i venditori ambulanti più lontani,

 più acre, nei mercati del mondo, il tepore della verdura,

 lungo viali dall’inesprimibile profumo,

 sulle sponde di mari, ai piedi di vulcani.

 Tutto il mondo è al lavoro, nella sua epoca futura.

  

 Ma quel qualcosa di «bianco»

 che a lettere greche

 mi presentò, irrevocabile, il sogno conoscitore,

 mi rimane addosso – vestito,

 al tavolo di lavoro.

 Marmo, cera, o calce

 nelle palpebre, agli angoli degli occhi:

 il biancore gioiosamente romanico,

 perdutamente barocco, del sole nel sonno.

  

 Di quel biancore fu il sole vero,

 di quel biancore furono i muri delle fabbriche,

 di quel biancore

 fu la stessa polvere (nei pomeriggi secchi, quando

 il giorno prima è un poco piovuto),

 di quel biancore furono gli stracci di lana,

 le giacchettacce bige e i calzoni sfilacciati

 degli operai

 che avrebbero potuto essere ancora partigiani:

 di quel biancore

 fu la calura della nuova primavera,

 oppressa dal ricordo di altre primavere

 sepolte da secoli

 in quegli stessi sobborghi e paesi,

 – e pronte, Dio!,

 pronte a rinascere,

 su quei muretti, su quelle strade.

  

 Su quei muretti, su quelle strade,

 imbevuti di strano profumo,

 dove fiorivano rossi nel tepore

 i meli, i ciliegi: e il loro colore rosso

 aveva una brunitura, come

 se fosse immerso in un’aria di caldo temporale,

 un rosso quasi marrone, ciliege come prugne,

 pometti come susine, che occhieggiavano,

 tra le brune, intense

 trame del fogliame, calmo, quasi la primavera

 non avesse fretta,

 volesse godersi quel tepore in cui fiatava il mondo,

 ardente, nella vecchia speranza, d’una nuova speranza.

  

 E, su tutto, lo sventolio,

 l’umile, pigro sventolio

 delle bandiere rosse. Dio!, belle bandiere

degli Anni Quaranta!

 A sventolare una sull’altra, in una folla di tela

 povera, rosseggiante, di un rosso vero,

 che traspariva con la fulgida miseria

 delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie

 – e col fuoco delle ciliege, dei pomi, violetto

 per l’umidità, sanguigno per un po’ di sole che lo colpiva,

 ardente rosso affastellato e tremante,

 nella tenerezza eroica d’un’immortale stagione!


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog

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