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domenica 16 gennaio 2022

Pasolini "Contro la televisione" - Inedito, 1966

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Contro la televisione
Inedito, 1966

Oggi in "Saggi sulla politica e sulla società"
I Meridiani, Mondadori, a cura di Walter Siti.


Il San Francesco della Cavani: l’ho guardato, naturalmente, con l’interesse di uno che ha girato un film simile. Ho capito: che un cattolico moderno non può avere il sentimento del sacro e il suo ritmo: egli ha famigliarizzato la religione, che ha preso il senso e il ritmo della sua vita. I personaggi sono stati scelti dalla Cavani nel suo ambiente famigliare e di lavoro, essa pare non poter conoscerne altri: la sua «invenzione di facce» non va oltre il realismo piccolo-borghese. Le «facce» sono tutte di impiegati, professionisti, studenti, operai imborghesiti ecc. Il sudore e la meschinità delle loro stempiature, l’espressione degli occhi (con l’idea che un sia pur nobile impiegato di banca si fa della religione come di un «luogo» finalmente ideale della sua stravaganza, della sua interpretazione poetica e
fatalmente meschina della religione): insomma in tutte le facce scelte dalla Cavani si annida, ora pungente e malata, ora ineffabile come una specie di seconda natura, la volgarità. (Escludo la bellissima faccia di Lou Castel — che non è italiano come i suoi compagni improvvisati di cast.) La Cavani rivela un’anima sincera e onesta. Non sa — non ha fatto forse in tempo a meditare — l’ideale piccolo-borghese cui cercava di conformare la religione, adattandola con un aprioristico spirito di ribellione agli schemi. I pochi personaggi popolari, scelti sui posti dove girava, e perciò contadini, non escono dall’ambito piccolo-borghese: sono i popolani mansueti e senza scandalo, anche se momentaneamente miserabili e perversi: in tal caso si ha la Corte dei Miracoli, ben scissa, in specie di corporazioni dei mendicanti o dei malati, che sembrano non far parte della realtà — e non si comprende perciò come abbiano compresso e alienato fino alla nevrosi l’anima indifesa di Francesco.
Mi son reso anche conto, davanti a questo testo, che probabilmente tutto il realismo e la sua idea, è piccolo- borghese. È una nostalgia della realtà. (Così anche il «realismo socialista», è prodotto della cultura retriva e, come dice Moravia, particolaristicamente classista, prodotta dalle enormi masse contadine russe, attraverso il fenomeno della burocrazia, come unica realtà dinamica del dogmatismo staliniano ecc.)
Ma torniamo alla televisione. Mi dispiace doverlo brutalmente dire alla Cavani: il suo film è un prodotto tipicamente televisivo. Magari dell’immediato futuro. San Francesco è divenuto accessibile alla borghesia italiana (i cosiddetti telespettatori) attraverso la sua appartenenza a un ambiente borghese, la sua santità come nevrosi, la sua protesta falsamente scandalosa di «capellone» del Duecento: tutto ciò lo famigliarizza — col piacevole brivido dello scandalo — ai pubblici più conformisti. La televisione cerca di coprirsi così con prodotti di questo genere. La Cavani che come ho detto, pare non avere il senso del sacro — che è totale e mitico — e ha un ritmo interiore che non è realistico: onde un film «sacro» non si può girare come i film di De Sica, tutti campi lunghi, con attori che recitano insieme, a tre o quattro alla volta, e i primi piani obliqui, con particolari realistici ecc. Per esempio, il Cristo della chiesetta diroccata, se vuol essere «sacro» deve essere frontale, oppure «obliquo» fino all’espressionismo: non può essere «obliquo» vivacemente, con una fiammella che lo situa e lo ambienta ecc. Perciò la Cavani non sente, forse, l’offesa della televisione: nulla di sacro è urtato in lei da tale macchina della volgarità e della meschinità. Essa si trova tra fratelli (cattolici e piccolo-borghesi), di cui io, per parte mia, la considero oggettivamente migliore: ma è lei che crede di doversi esimere dal giudicare quei fratelli; è lei che, forse per umiltà, crede ridicola solo l’idea, magari, di fare dell’apostolato fra loro. E crede che l’autenticità del suo cattolicesimo sia nella sua sincerità non critica. Ora lo scandalo è invece proprio nella critica. Esso non consiste nel cercare lo scandalo. Sia pure il minimo scandalo subito consentito (per coprirsi) dai dirigenti della televisione.
Che cosa vuol coprire la televisione (Bernabei, Granzotto ecc. ecc., magari, ora, anche Paolicchi)? Vuol coprire la vergogna di essere l’espressione concreta attraverso cui si manifesta lo Stato piccolo-borghese italiano. Ossia di essere la depositaria di ogni volgarità, e dell’odio per la realtà (mascherando magari qualche suo prodotto con la formula del realismo). Il sacro è perciò completamente bandito. Perché il sacro, esso sì, e soltanto esso, scandalizzerebbe veramente, le varie decine di milioni di piccoli borghesi che tutte le sere si confermano nella propria stupida «idea di sé» davanti ai video. Forse ci sarà qualche protesta (da parte dell’eterno deputato Dc di provincia) contro gli scandali, riconoscibili, del realismo del San Francesco. Ma il «sacro» non sarebbe nemmeno riconoscibile; oppure non ci sarebbe bisogno di protesta contro di esso, perché provvederebbe da sé ad annegare — davanti ad occhi incapaci di riconoscerlo — nel ridicolo. E insomma non è nemmeno pensabile che i dirigenti della televisione prendano in considerazione la possibilità di accettare un simile «sacro» coi suoi ritmi inconcepibili al piccolo-borghese. E perciò io faccio dei discorsi assolutamente arbitrari e oziosi. (Ecco: non è concepibile, per es., che la Macchina mondiale di Volponi diventi un film televisivo — naturalmente fedele al libro.)
La televisione emana da sé qualcosa di spaventoso. Qualcosa di peggio del terrore che doveva dare, in altri secoli, solo l’idea dei tribunali speciali dell’Inquisizione. C’è, nel profondo della cosiddetta «Tv» qualcosa di simile appunto allo spirito dell'Inquisizione: una divisione netta, radicale, fatta con l’accetta, tra coloro che possono passare e coloro che non possono passare: può passare solo chi è imbecille, ipocrita, capace di dire frasi e parole che sono puro suono; oppure chi sa tacere — o tacere in ogni momento del suo parlare — oppure tacere al momento opportuno, come fa anche Moravia, quando è intervistato o partecipa per esempio a «tavole rotonde», vili e pedanti, naturalmente, sempre. Chi non è capace di questi silenzi, non passa. Da simile regola non si deroga. Ed è in questo che — provate a pensarci bene — la televisione compie la discriminazione neocapitalistica tra buoni e cattivi. Qui è la vergogna che essa deve coprire, creando una cortina di falsi «realismi». Noto per es., tra parentesi, un fatto che riguarda la rubrica Cordialmente (che è appunto demandata a compiere una funzione di falso realismo: e naturalmente l’inferno, l’inferno della condanna dei veri buoni, è aperto sotto i piedi dei suoi titolari). Avevo fino a ieri sera, per questa rubrica un certo rispetto (insieme a quella che si chiama Tv7): un rispetto di cui mi vergogno, perché tale rispetto implicava in me l’accettazione di un «meno peggio», di una coscienza che implica il minimo della civiltà ecc. ecc. Improvvisamente vedo, dopo alcune amare e vergognose parole del presentatore, che si aggrappava con imbarazzo allo schienale di una sedia, quasi senza avere Il coraggio di alzare gli occhi verso noi telespettatori subito messi in allarme — dicendo insomma che ciò che stavamo per vedere era una «realtà» così dolorosa  ch’egli e i suoi colleghi avevano avuto gravi crisi di coscienza: se era il caso di mostrarla o non e infine, con questo eroico atto di coraggio, ecco che la mostravano — improvvisamente, dico, vedo la faccia di Piero Morgia. Piero Morgia era uno degli abitanti delle dimenticate borgate romane (che ci sono ancora, tali e quali), che io avevo conosciuto una decina d’anni fa, e che avevo scelto come personaggio di due miei film: aveva fatto carriera — per così dire — in questi anni; aveva lavorato in molti film, ed era apparso anche in copertina a riviste popolari ecc. Ebbene il pezzo di «realtà» era lui (evidentemente pagato, dato che egli ha ormai un regolare cachet; la voce che confessava ai telespettatori costernati che egli era un povero ladro ecc., mi era una voce famigliare... una voce che per coordinazione di ricordi... ma sì!, era la voce di Silvio Citti, il fratello minore di Franco e di Sergio.
Questa era una furfanteria. Tuttavia, vista con lucidità e distacco, appartiene forse al numero di cose più oneste che può produrre la televisione.
Anche Giorgio Bassani, il periodo trascorso come dirigente alla televisione, se lo ricorderà come una delle ragioni per cui dovrà dubitare di se stesso e della propria dignità. Il mio vecchio amico «intelligente e prodigo», era divenuto a tratti un uomo irriconoscibile, sfuggente. Quell’aria gonfia, allusiva, ammiccante e estremamente seria e contegnosa che caratterizza i personaggi che compaiono sul video o dietro il video — aveva cominciato a invadere come un orrendo contagio la sua faccia tesa e gonfia di chi soffre il raffreddore del fieno.
E lo stesso Attilio Bertolucci, che dirige ora l'Approdo, non è più lui: lo dico pubblicamente e con grande dolore. Sì, la sua paura, la sua timidezza, la sua angoscia del male, e quel suo sorriso, quel suo «ghigno sotto la falda floscia del cappello, il ghigno della certezza sacra degli incerti», sì, la «sua pupilla marroncina», sì, d’accordo su tutto: ma ora egli deve rendersi conto che un orrendo rossore, come una tabe sta gonfiandogli le membra e le membrane del viso; il sudore sotto l’ala del suo cappello ha qualcosa di impuro — un soffio di quella volgarità, ch’egli ha sempre fuggito come una colomba. E i suoi silenzi non sono più belli.
Poiché è un mese che sono malato, abbastanza gravemente, è un mese che sono a casa: e quindi è un mese che tutte le sere — non potendo leggere — vedo la televisione. È infinitamente peggiore e più degradante di quanto la più feroce immaginazione potesse supporre.
Nella stessa sera della proiezione della prima puntata del San Francesco, c’è stato anche un dibattito sulla «Liberta dello scrittore». A dirigerlo c’era un tale, di cui non ricordo il nome, un «elemento» della televisione, evidentemente, messo lì a dirigere i miei poveri quattro amici che partecipavano alla tavola rotonda. Quella faccia doveva garantire la libertà televisiva e italiana: una profonda invidia mi ha punto allora per Sinjavskij e Daniel, laggiù sulle rive del Volga, sia pure in un coatto stato di lavoratori. Le facce dei giudici che li hanno condannati erano certo delle facce spiacevoli: le sorde, cieche, miopi, un po’ ubriache facce delle Anime morte, con padri, probabilmente, che credevano Lenin……….      
Tuttavia, intanto, erano facce di giudici, e prendevano su sé la responsabilità della loro condanna, detta in chiare lettere, così chiare da eliminare per autoeliminazione, ogni pretestualità. Una società contadino-burocratica, classista, non ancora fuori dal classismo nato da xxx, condannava degli scrittori probabilmente avanzati, la cui contraddizione e contestazione — formalmente lecite in Italia — le si presentavano come «calunnia» e attività anti-statale. Non vorrei trovarmi davanti quelle facce. Tuttavia, meglio quelle, sì, che la faccia assolutoria di quel tipo che presentava i miei quattro amici. Egli sapeva, voleva, poteva la libertà: con la calma dei forti e l’ironia dei giusti. Non sapeva che qualcuno gli aveva messo addosso la maschera orrenda della sua faccia nera, la maschera della volgarità e della falsa idea di se stessi: una vecchia debolezza congenita, una sottigliezza volpina di cortigiano o di borsaro nero, i segni della fame patita in gioventù, i cattivi sapori e sentori della piccola casa borghese, gli studi stenti, un’aggressività dovuta a una disperata e quasi femminea autodifesa, una povera viltà che aveva avuto tutte le possibili assoluzioni, una mescolanza strana di odore di incenso e di cipria di donna facile, la presenza, probabilmente immaginaria, ma assillante, di possibili frittelle di grasso — da stringere il cuore — sull’irreprensibile vestito italiano. Pareva non sapesse di avere addosso la maschera di questo personaggio ch’egli era. Spargeva sorrisi come perle, piegava le labbra in ironici sorrisi che miravano oltre le telecamere, predicando azioni di comportamento democratico: e dietro il suo sedere si apriva la buca dell'inferno, dove sta nella merda Meleto. «Ognuno di voi» diceva ai quattro miei poveri amici «qui ha parlato liberamente.» E i miei poveri quattro amici tacevano, capite?, tacevano.
Io ero un telespettatore, in quel momento, e li guardavo negli occhi. Sì, sapevano di essere dei miserabili. Forse un po’ meno Bo — perché si era trovato a dire delle cose troppo ovviamente giuste per lui, e non aveva messo in discussione nulla. Ma gli altri? Non erano lì, con le mani nel sacco? Potevano, decentemente, sentirsi dire che lì, in quella sede, avevano goduto di piena libertà di parola? E quello che voglio soprattutto qui osservare, è che essi avevano tacitamente accettato di tacere. Si autocensuravano. E sapevano benissimo a che punto dovevano fermarsi. Sapevano benissimo quali erano le cose che non dovevano dire, come bambini sorvegliati dal padre.
E una magra consolazione sapere e dirsi che in un’altra nazione il rompere un analogo silenzio significa essere condannati. Il fatto che essi parlando, non rischiano la Siberia, ma l’ostracismo della televisione, ossia una diminuzione di prestigio e popolarità. Dunque tacciono perché la televisione è potente. È potente fino a rappresentare ormai in Italia (paese di analfabeti, e quindi paese dove non si leggono né libri né giornali) l’opinione pubblica. Sinjavskij e Daniel sono ai lavori forzati, per aver parlato: i miei amici, per aver taciuto, non hanno turbato l’opinione pubblica, e ne saranno, in qualche modo, compensati.
Io, da telespettatore, la sera prima e un’infinità di sere prima — le mie sere di malato — ho visto sfilare, in quel video dove essi erano ora, un’infinità di personaggi: la corte dei miracoli d’Italia — e si tratta di uomini politici di primo piano, di persone di importanza assolutamente primaria nell’industria e nella cultura; spesso persone di prim’ordine anche oggettivamente. Ebbene, la televisione faceva e fa, di tutti loro, dei buffoni: riassume i loro discorsi facendoli passare per idioti — col loro, sempre tacito beneplacito? — oppure, anziché esprimere le loro idee, legge i loro interminabili telegrammi: non riassunti, evidentemente, ma ugualmente idioti: idioti come ogni espressione ufficiale. Il video è una terribile gabbia che tiene prigioniera dell'Opinione Pubblica — servilmente servita per ottenerne il totale servilismo — l’intera classe dirigente italiana: la ciocca bianca di Moro, la gamba corta di Fanfani, il naso alto di Rumor, le ghiandole sebacee di Colombo, sono uno spettacolo rappresentativo, tendente a spogliare l’umanità di ogni umanità.

 Come si potrebbe definire il male «contrario all’umanità» della televisione? Non credo sia possibile una sola definizione ma varie ipotesi. Basta però pensare una cosa: come viene presentato tutto, uomini, fatti, cose e idee? Tutto viene presentato come dentro un involucro protettore, col distacco e il tono didascalico con cui si discute di qualcosa già accaduta, da poco, magari, ma accaduta, che l'occhio del saggio — o chi per lui — contempla nella sua rassicurante oggettività, nel meccanismo che, quasi serenamente e senza difficoltà reali, l’ha prodotta. È insomma, sempre, una mente ordinatrice dall’alto, che presentando le informazioni, e riassumendo i messaggi, opera la selezione delle notizie (e dà quindi un quadro diverso dell’Italia). A un livello naturalmente bassissimo (c’è l’alibi della enorme disparità dei destinatari, bambini, gente semplice ecc. ecc.): si deroga alla bassezza del livello solo nei casi di presentazioni tecniche: per esempio i comunicati di Sergio Telmon sono assolutamente indecifrabili, e così quasi tutti i referti politico-sindacali a livello legislativo, e così alcune comunicazioni della vita industriale e del pensiero sociologico. Come ho già avuto altre volte occasione di ripetere, potremmo prendere a modello di tutto questo l'eloquio di Moro. Questo uomo politico è indubbiamente il più importante degli ultimi anni: non c’è dubbio che nella storia e non solo nella cronaca italiana egli con Nenni avrà il suo posto per aver messo l’Italia della sozza eredità fascista sulla strada del laburismo — che non è affatto poco — ed è forse una strada necessaria, a cui tutto il resto costituisce un’alternativa solo nominale. Ebbene, Moro ha potuto e può fare tutto questo, a patto di tacerlo. Adottando, da una parte l’ufficialità «grigia» del documento pubblico, della commemorazione, dell’inaugurazione ecc., e dall’altra la crème tecnica del linguaggio delle infrastrutture — egli riesce a parlare per minuti e minuti, senza mai il minimo imbarazzo o il minimo accento umano, senza dir nulla se non il dire, ossia una globale e informe tendenza a dire qualcosa, il cui succo rimane nella testa dello spettatore come una verità posta altrove — e guidatrice verso altrove — operante insomma nell’unico luogo che egli consideri al di sopra della televisione, il livello della potenza e della responsabilità. Da cui egli è escluso e di cui è tuttavia dignitosamente informato. In realtà nulla di sostanziale divide i «comunicati» della televisione da quelli dell’analoga comunicazione radiofonica fascista. L’importante è una sola cosa: che non trapeli nulla mai di men che rassicurante. La televisione, della vita pubblica» delle vicende politiche e della elaborazione delle idee, deve — e sente rigidamente tale dovere — operare secondo una selettività di scelta e una serie di norme linguistiche, che assicuri innanzi tutto che «tutto va bene», ed è fatto per il bene. Il bene non deve avere difficoltà: ed ecco che infatti il mondo presentato dalla televisione è senza difficoltà: se difficoltà ci sono state, sono state sempre provvidenzialmente «appianate»: se disgraziatamente l’appianamento non è ancora avvenuto (ma avverrà) provvede a dare questo perduto senso di pianezza la lingua informativa orale-scritta dello speaker. L’ideale piccolo-borghese di vita tranquilla e perbene (le famiglie giuste non devono avere disgrazie: ciò è disonorevole davanti agli altri) si proietta come una specie di Furia implacabile in tutti i programmi televisivi e in ogni piega di essi. Tutto ciò esclude i telespettatori da ogni partecipazione politica come al tempo fascista: c’è chi pensa per Loro, e si tratta di uomini senza macchia, senza paura, e senza difficoltà neanche casuali e corporee. Da tutto ciò nasce un clima di Terrore. Io vedo chiaramente il terrore negli occhi degli annunciatori e degli intervistati ufficiali: non va pronunciata una parola di scandalo — e poiché è scandalo anche un mal di pancia — se esso potenzialmente mette in discussione la sicurezza della spiritualità statale, ne rivela la possibilità di un minore ottimismo — praticamente non può essere pronunciata alcuna parola in qualche modo vera. Tutto passa sotto la protezione: 
 a) del discorso disimpegnato e quindi rassicurante — il discorso che Socrate avrebbe attribuito — costernato, povero vecchio scalzo, con la sua squallida tunica — al più sgradevole peccato che possa compiere un uomo, ossia la «misologia» (ricordatevela, questa parola del Fedone!) — 
 b) sotto la protezione del discorso tecnico: e la tecnica è sempre stata e sempre resterà l’alibi del qualunquismo e della rassicurazione per eccellenza: un tecnico sa le cause di una possibile difficoltà negli ingranaggi delle cose, e quindi questa sua scienza implicante, a fortiori, una possibile soluzione, esorcizza quelle difficoltà, le allontana nel tempo e nello spazio» le isola nel panorama dell’ottimismo nazionale, ponendole provvisoriamente sul tavolo di un laboratorio. Nessun consiglio è ascoltato alla televisione più di quello di uno dei personaggi «seriali» e quindi ironici e dissacrati di Euripide:
  
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Ma in realtà la contemplazione televisiva è solo apparente, e non solo per superficialità, ma per cosciente menzogna e mistificazione. Nel terrore che regna prima del video e dentro il video, il terrore di pronunciare parole, di affrontare argomenti, di assumere semplicemente toni di voce, tale menzogna e tale mistificazione presiedono ogni operazione linguistica. In un mese di osservazione televisiva, non mi è mai capitato di cogliere negli uomini politici, soprattutto — con le eccezioni quasi non-italiane che ho fatto — un solo momento, un solo guizzo di semplicità, di sincerità, di autenticità, di umanità. Essi e i loro commentatori si nascondono tutti dietro una maschera che non si tradisce mai, che non cede mai a un dato sorriso, a una data timidezza, a una certa incertezza: alla fraternità. Tutto è già prestabilito e sicuro: che noi stiamo tranquilli! si è fatto molto e si farà sempre meglio. La televisione insomma è «paternalista»: questo ne può essere dunque lo slogan definitorio. I precetti del padre sono una rigida elencazione di ciò che si può e non si può dire e fare.
C’è solo una cosa che sfugge alla sorveglianza — in fondo figliale, ossessiva, disperata, meschina, terrorizzata del «padre televisivo» — e non può non sfuggirgli, perché essa è in lui, è la sua stessa realtà: questa cosa è la volgarità. Tutto ciò che appare, dentro il video e prima del video, come preparazione e organizzazione dell’involucro protettivo dell’informazione — è volgare. Non posso descrivere cos’è questa volgarità, perché solo chi ha tradito fino in fondo la borghesia può vedere la borghesia sotto tale aspetto: essa è in fondo una misura di giudizio e un’idea del mondo. Ed è quindi comune a tutti i piccolo-borghesi italiani: tale misura e tale idea del mondo, sono poi la loro misura e la loro idea di sé. Ed è perciò che è volgare. E trasuda fuori per tutto il corpo, in tutti gli atti: anche nei personaggi più innocenti: come quelli che la Cavani ha scelto nel suo entourage piccolo-borghese quali «facce» del suo Francesco. E una specie di malattia che fa dei particolari naturali, del disfacimento del corpo, della debolezza, della perdita dei capelli, della grassezza, della magrezza ecc. ecc. — tutte cose innocenti e naturali — una specie di malattia, l’enorme malattia del cinismo senza coraggio, della vigliaccheria canonizzata, della religione ricattatoria ecc. ecc.: della disperata furberia di gente che la generazione precedente moriva di fame e analfabetismo, del razzismo naturale, del terrore e della condanna del Diverso.
Ma torniamo alla «Libertà dello scrittore»: Moravia (egli capirà l’affetto che muove questi miei sgradevoli rimproveri) aveva lampeggiato genialmente — fatto com’è quasi di una sostanza diversa da quella degli altri scrittori presenti e non presenti — con quelle loro pance affondate dentro tristi brache — quasi che anche la sua carne portasse i segni e il nobile e spirituale colore dell’aristocrazia dell’intelligenza — aveva lampeggiato, dico, mettendo fuori causa il povero buttafuori sorridente, con una sola frase, retta da un se e rimasta sospesa: «Se i libri avessero la stessa diffusione di una trasmissione televisiva, lo scrittore godrebbe di maggiore libertà che nell’Urss?». E il millantatore di libertà, che stava al tavolo con lui, sporco di recente albagia televisiva e di vecchio fascismo mal digerito, non poteva che tacere, «con un sorriso infame». Perché, allora, Moravia, a quel punto, ha taciuto? Perché non ha detto:
         Nessuno scrittore italiano osa scrivere ciò che realmente pensa della sua nazione (vilipendio alla nazione), contemplato nell’art.
Nessuno scrittore italiano osa scrivere ciò che realmente pensa dell’esercito italiano (vilipendio all’esercito
Nessuno scrittore italiano osa scrivere ciò che realmente pensa della bandiera (vilipendio alla bandiera
Nessuno scrittore italiano osa scrivere ciò che realmente pensa della religione di Stato (vilipendio alla religione
Nessuno scrittore italiano osa scrivere ciò che veramente pensa a) della polizia italiana, b) e soprattutto, della magistratura italiana.
Aggiungo: nessuno scrittore italiano osa veramente scrivere ciò che pensa della televisione italiana. Ma, preciso, in tal caso, per sua paura, perché non c’è finora nessun articolo del codice che difenda la televisione, ossia l’opinione pubblica in quanto tale. Gli scrittori non lo fanno per paura di perdere lettori e piccoli privilegi (la televisione serve molto, naturalmente, per vendere i libri o per dare celebrità). Ma allora veniamo a un punto su cui è sleale insistere. È Bo che ha messo lo scrittore di fronte al caso di coscienza: gli ha detto, praticamente: Ti sfido a essere martire, di' certe cose, e poi vediamo cosa ti succede. Ma non si può pretendere da nessuno la santità, evidentemente. Tuttavia da questo, ad estorcere allo scrittore, attraverso il ricatto, l’affermazione che in Italia lo scrittore è libero, c’è una bella differenza: è libero, sì, ma a patto di sfidare il codice penale piccolo-borghese, e quindi di pagare di persona. La realtà non è che in Italia non ci sia la prigione per i Sinjavskij e i Daniel: non ci sono i Sinjavskij e i Daniel.
Seconda parte del Francesco della Cavani. La Chiesa non è messa in discussione: o meglio le discussioni avvengono all’interno della Chiesa. Chi crede, è difficile che possa ricostruire una religione come una novità, e quindi come sacralità. Egli se mai, se la ripropone come problema. Per un non credente non importa che Francesco si rifiuti per innocenza di adattarsi a dettare o seguire regole: questo, a un non credente, pare naturale, non è motivo di scandalo. Come si può essere credenti, e avere bisogno di norme, e non vivere al livello della più alta e vergine novità? Il non credente dà questo per scontato. Non gli verrebbe nemmeno in mente di impostare un film su san Francesco su questo. Direi che a un non credente piace più il Francesco che parla agli uccelli o fa miracoli. La religione occidentale, permeata di laicismo, che essa crede rivoluzionario rispetto al proprio spirito clericale (e si sbaglia), tende a mostrarsi scettica e ironica verso i miracoli. Invece i miracoli sono la religione. Un santo che non voli, che non sparisca, che non determini i fatti naturali magicamente, non è un santo, oppure è un santo occidentale, pieno di problemi morali e pratici, non puramente religiosi. La Cavani — per un suo innocente spirito laicistico — si è guardata bene — secondo la regola, e non secondo lo scandalo — di far fare a Francesco dei miracoli: ha occidentalizzato il più possibile Francesco; ha tolto al suo Medioevo quel tanto di fattualmente «orientale» che esso oggettivamente aveva nelle sue reali condizioni sociali e economiche; e negligendo quindi quel tanto di «religione pura» che era nella nevrosi sacra di Francesco. Ha staccato gli elementi «orientali», pestilenza, lebbra, morte, fame, sporcizia, mancanza di ogni speranza, ferocia, dal mondo di Francesco, e vi ha immesso elementi piccolo-borghesi. Questa, naturalmente, è la sua violentazione storica; quasi volesse dire: «Caro piccolo-borghese italiano, mio coetaneo, fratello e utente della televisione, Francesco non era mica Altro da te, egli era come te, aveva padre piccolo-borghese con ménage famigliare alto e una piccola industria ben avviata ecc. ecc. Quindi parlo con te, quando ti dico che Francesco voleva essere artificialmente povero, come i “poveri veri”. L’autenticità che ha cercato Francesco è quella che cerchi confusamente tu ecc. ecc.». E di qui le istanze socialiste alluse: e di qui la stampa comunista (che è tutta piccolo-borghese) che fa commenti molto favorevoli al film.
Nella mancanza di mito, e nel conseguente «caso morale» che lo sostituisce in un’anima piccolo-borghese che non mette in discussione la Chiesa, ma la problematizza, l’unica possibilità di mito, restano i grandi borghesi e i potenti. Infatti, gli «impiegati di banca» seguaci di Francesco, sono tutti falliti come «facce» (ossia elementi di mito sacro), né, nella piccola borghesia, per contraddizioni che no’l consente, possono trovare alcun risarcimento problematico a quel mitico: volgari, poveretti, erano, e volgari rimangono. Le uniche «facce» poetiche, sono quelle del Papa e dei Vescovi, che (con la morte di Francesco tra i piedi dei suoi apostoli, nudi, miseri e bianchi piedi sull’erba appenninica) è la scena più poetica del film. I grandi, le autorità, i potenti, sono, per un piccolo-borghese, ontologici, cioè misteriosi: essi sono personaggi non problematici, quindi, ma deus ex machina (dal Theologheion, infatti, Papa Innocenzo III concede a Francesco il permesso di predicare) e il Vescovo Colonna è il vivo intercessore di una Pala d’Altare. Personaggi tutti d’un pezzo quindi, e, quindi, ambigui. La «faccia» del Papa è l'unica assoluta, e, nella sua assolutezza, sconcertante (come nei miti): la faccia un po’ puerile, stranamente paffuta, come nelle figure pompeiane, triangolare come nei bizantini, dolce ed equivoca, da androgino, intelligente e evasiva: ecco com’è l’Autorità nel mito. Essa non si pone problemi, ma per imperscrutabili ragioni, li risolve. E questa è religione. San Francesco e i suoi sgallettati compagni sono dilettanti della religione. La natura, in lui, resta quella di suo padre e sua madre: non può farci niente. Da ciò il suo irrazionalismo (parlo, s’intende, sempre del Francesco della Cavani); e questo è un modo tipicamente borghese di affrontare il mistero dell'Altro da Sé. Per quanti sforzi faccia questo Francesco non riesce a essere Diverso, cioè Santo. Resta come gli altri: e questa è una istanza laica e democratica, molto lodevole, nella Cavani, ma non si può dire che abbia molto da fare con la folle e sublime aristocraticità della religione: molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti. La riduzione di Francesco a un canone di irrazionalismo religioso e di pauperismo sociale, ne fa, più che un Santo, un’anima bella: molto commovente, perché in questo la Cavani, e anche il delizioso Lou Castel, ci mettono molta sincerità e molta candida e intensa passione. Il San Francesco resta così un prodotto della religione borghese, con infiltrazioni socialdemocratiche, non certo marxiste.
Questi miei appunti sono moralistici. Mi guarderei bene dall’esercitare un simile rigorismo con un marxista. Ma un cattolico ci deve ancora passare, per questo calvario della purezza ideologica, per questa scommessa coi ricattatori ideali. Egli si pone ancora problemi di autenticità, non di rigore. Mentre è chiaro che la salute della sua anima gli richiede di sapere con chiarezza, se egli, approfittando di un certo dinamismo del cattolicesimo avanzato ci si debba compiacere fingendo scandali che non sono scandali, oppure se debba invece conoscere bene, fino in fondo, tutta la diagnostica marxista, che è poi la nuova casistica morale, nell’interno dell’individuo che opera.

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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