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Le pagine corsare - Riflessioni su "Processo alla DC"

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mercoledì 4 agosto 2021

Pasolini - Le pizze di Salò

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Le pizze di Salò

Tratto da: Io sò, indagine letteraria sulle stragi di stato, pag. 809
Antologia Saggistica (Steimetz, Lo Bianco, Rizza)


 Il mistero dell'Idroscalo, trent'anni dopo, e tutto da decifrare. La morte di Pasolini e davvero l'esito accidentale di una lite tra ≪froci≫ - questa e la versione ≪minimalista≫ che l'inchiesta giudiziaria ha consegnato alla storia - o e un omicidio eccellente, voluto a tutti i costi per mettere a tacere l'intellettuale che

Edipo re di P.P.Pasolini - Alberto Moravia, L’Espresso , 17/9/1967

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




La tragedia di Edipo, a meno di andare a cercare i primitivi polinesiani tra i quali vige ancora oggi il tabù dell’endogamia e dell’incesto, non ha niente a che fare con il mondo moderno. Anche se poi gli stessi eventi potrebbero benissimo verificarsi negli stessi modi. La tragedia di Edipo appartiene al mondo arcaico greco; tanto è vero che in Grecia essa era un mito, cioè qualche cosa di così insopportabile per la società quale era allora da meritare di essere trasformato in mistero. Tuttavia il recupero della tragedia di Edipo oggi è pur sempre possibile, soprattutto in due modi: sia in senso conoscitivo e razionale, ossia scrivendo una storia moderna che (quasi sempre inconsapevolmente da parte dello scrittore) ne adombri i significati: oppure risuscitando con piena consapevolezza il mito a livello estetico-culturale. Nel primo caso abbiamo un’operazione realistica; nel secondo un’interpretazione estetizzante. I precedenti in ambedue i casi sono molti: per il primo, si potrebbe risalire addirittura ad 
Amleto; per il secondo, il nome di Wagner sembra il più legittimo.
 Realistico è l’inizio dell’Edipo Re di Pier Paolo Pasolini. Realismo che discende da Freud, cioè dalla dimensione tragica che Freud ha legato per sempre al nudo fatto di nascere. Ma Pasolini ha respinto con mano delicata e ferma ogni tentazione didascalica e ci ha dato una bellissima sequenza sull’innocenza dell’amore materno e sulla fatalità di quello filiale. Subito dopo Pasolini abbandona Freud per Jung, cioè abbandona l’ansia conoscitiva per la preoccupazione estetico-culturale e ci presenta l’Edipo di Sofocle sullo sfondo di una natura erosa e solenne, in Marocco, in villaggi turriti simili a rozze regge arcaiche. Abbiamo fatto un salto indietro di migliaia di anni, al tempo in cui il mito era attuale. Anche qui, secondo noi, la poesia è raggiunta, sia pure attraverso un vagheggiamento estetizzante e culturale.
Pasolini, quei monti, quei villaggi, quei riti, li «sente» con elementi essenziali del mito e riesce a comunicarci il suo sentimento. L’uccisione di Laio è scandita con maestria; ma vi si nota un’esaltazione della ferocia che non è giustificata né prima né dopo da un contesto sociale analogo. Tuttavia, finché dura l’ignoranza di Edipo, cioè per tutto il tempo la rappresentazione è degna del migliore Pasolini. L’incrinatura si comincia ad avvertire nel secondo tempo, quando quella stessa brutalità che era servita a far uccidere Laio, impedisce di affrontare il vero dramma di Edipo, quello scritto da Sofocle, con un personaggio adeguato. È il dramma della conoscenza, della scoperta della verità. Come ha osservato il critico americano Ferguson, questo dramma è una specie di match tra 
Tiresia, il cieco che vede, e Edipo, il veggente che è cieco.
 In questo match verbale, Edipo non è un violento, un brutale, bensì un intellettuale come Amleto, strenuo, eroico, avido di verità. Se questo è vero, allora bisognava prolungare al massimo il duello tra Tiresia ed Edipo, lasciando in ombra il rapporto incestuoso con Giocasta (al quale dobbiamo pur tuttavia le parti più valide del secondo tempo). Ma per far questo ci voleva un attore della forza di Julian Beck, non Franco Citti. Pasolini è convinto che il sottoproletariato delle borgate sia omologo al mondo arcaico ma il suo film dimostra che non è vero. Edipo urla quando dovrebbe invece esprimersi quietamente e dialetticamente. Non bisogna infatti dimenticare che incesto e parricidio sono «tentazioni» eterne dell’uomo, cioè qualche cosa di profondo, di misterioso, di segreto. Poi la fine. Diciamo subito che avremmo preferito un ritorno al realismo dell’inizio, senza simboli, di nuovo freudiano, cioè conoscitivo. Una famiglia come quella della prima sequenza ma con una madre invecchiata e 
troppo affettuosa, un padre anziano non amato né rispettato e un figlio che inconsapevolmente, ciecamente, si comporta secondo i modi propri del complesso di Edipo. 
Pasolini invece ha preferito l’elegia al dramma. Ha sostituito Antigone con Angelo, ha fatto trapassare l’Edipo fisicamente cieco del mito nella realtà del mondo moderno. Edipo che era nato a Tebe, qui si identifica con il bambino nato in una piccola città italiana. Una fine «privata», simbolica, tristissima ma non catartica. L’interpretazione di Silvana Mangano è splendida. Accanto a lei, bisogna mettere Julian Beck, eccellente nella parte di Tiresia. Di Franco Citti abbiamo già detto; vogliamo soltanto aggiungere che il suo volto è sì fortemente espressivo ma di qualche cosa che non ha niente a che fare con Edipo.

Alberto Moravia
L’Espresso , 17/9/1967




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Pasolini, Mamma Roma - Alberto Moravia, L'Espresso del 30/9/1962

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Mamma Roma il secondo film di Pier Paolo Pasolini racconta la storia di una prostituta che ha un figlio, Ettore. Questo figlio lei lo tiene presso contadini, a Guidonia; ma, una volta grande, lo prende con sé. Naturalmente, mamma Roma non desidera che Ettore sappia del suo mestiere; così un po' glielo nasconde e un po' lo sospende, facendosi fruttarola. Purtroppo, il suo antico pappone ricompare e la costringe di nuovo al marciapiede; e così Ettore viene a sapere che sua madre è una prostituta. Ma Ettore dal canto suo si è già demoralizzato da solo, senza aspettare questa rivelazione. Nonostante gli sforzi della madre che vorrebbe che lui lavorasse, s'impadronisse di un mestiere, diventasse, come dicono i borghesi, una persona normale, a soli quindici anni lui è già ladruncolo, vagabondo, traffica con le donne, fa parte di una banda di discoli. Così alla fine avviene quello che doveva avvenire: colto in flagrante furto, Ettore che è febbricitante viene rinchiuso nell'infermeria del carcere. Ma dà in smanie, lo legano allora sul tavolaccio di rigore e lì muore, solo e abbandonato, invocando la madre. Questi i fatti di Mamma Roma, dai quali forse non si può capire che in realtà il film è composto di due parti che scorrono parallele senza mai congiungersi veramente: la parte di mamma Roma e la parte di Ettore. Nell'intenzione del regista, queste due parti dovevano amalgamarsi, illuminandosi e completandosi a vicenda; ma questo non è avvenuto: le due parti stanno l'una accanto all'altra senza fondersi, come l’olio sta accanto all'aceto. Madre e figlio si incontrano, è vero, ma mai su un terreno veramente necessario ed essenziale; anche senza sua madre Ettore sarebbe quello che è e viceversa. In realtà mamma Roma è una prostituta ed Ettore un piccolo vagabondo; il fatto di essere madre e figlio non ha carattere determinante. E non lo ha, ovviamente, perché il regista non l'ha sentito così. D'altra parte questo sentimento di Pasolini non è di uguale intensità. Forte e profondo per tutta la parte di Ettore, quasi scompare in quella di mamma Roma. Così che alla fine si riporta l'impressione che il titolo del film tragga in inganno e che la storia principale e quella di Ettore e non quella di sua madre.
Che questo sia vero lo dimostra un esame anche superficiale e parti. La poesia elegiaca e civile, decadente ed epica di Pasolini si desta soltanto quando segue Ettore e i suoi compagni nei loro vagabondaggi, nei loro amori e nelle loro imprese ladresche per i prati della periferia, tra i ruderi romani e i casamenti popolari di cemento armato. Tutte le sequenze che riguardano Ettore e i suoi amici sono bellissime, rappresentano un progresso rispetto ad Accattone che non ha cose così delicate ed ineffabili, e fanno rimpiangere il film di soli ragazzi che Pasolini avrebbe potuto fare e non ha fatto. È stato detto che Pasolini è un artista il quale, in Accattone come nei romanzi, non parla mai delle cose che gli premono veramente cioè di se stesso. Ebbene, questa volta Pasolini in tutte le parti che riguardano Ettore è riuscito a fare di solito gli riesce soltanto nelle poesie: ha parlato di se stesso con la sua voce più autentica e più intima. Fino alla morte mantegnesca di Ettore nella quale, con un po' di narcisismo, ha vagheggiato la propria morte.
Tutt’altro discorso va tenuto per la parte che riguarda la madre di Ettore. Dispiace dirlo, ma questa parte appare poco necessaria sia perché qui la poesia di Pasolini tace e ci troviamo di fronte ad un film neorealista di normale fattura; sia perché, costruita per completare il dramma di Ettore, questa parte non aggiunge niente al personaggio già perfettamente definito dalla pietà con la quale il regista ha saputo inventarlo e contemplarlo. A riprova si veda per esempio l'errore di una scena come quella del ricatto; e il carattere generico della descrizione della vita delle prostitute ben diverso dalla precisione dell'analoga descrizione in Accattone. Anzi si ha l'impressione che per quest'aspetto Pasolini abbia utilizzato in Mamma Roma una materia già sfruttata nel suo primo film. Mentre gli avrebbe convenuto darci qualche cosa dissolutamente nuovo, come nelle sequenze di Ettore suoi amici.
In senso spettacolare la parte delle prostitute si regge soprattutto sulla interpretazione di Anna Magnani, al tempo stesso tempo misurata, vigorosa e commovente. Ma resta confermato che questa nostra grande attrice ha bisogno di film tagliati su misura per lei, e male si amalgama con l'impasto dei film di regia interpretati da attori presi dalla strada. Ettore Garofalo pur non avendo la forza di Franco Citti in Accattone, ha una sua patetica autenticità di cui Pasolini ha saputo servirsi fino in fondo. Abbiamo rivisto con piacere Franco Citti nel personaggio del pappone, secondario ma pieno di autorità. Efficaci tutti quanti gli attori delle parti minori tra i quali vogliamo ricordare Luisa Loiano, Silvana Corsini, Paolo Volponi, Luciano Gonini, Vittorio La Paglia, Piero Morgia.

Alberto Moravia
L'Espresso 30/09/1962





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