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martedì 8 giugno 2021

Il processo a Pasolini, di Enzo Siciliano - L'Unità 17 maggio 1994

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Nel 1963 per il film «La ricotta» Pier Paolo Pasolini fu accusato di vilipendio alla religione dello Stato.
Nel '62 Pasolini girò «La ricotta», un episodio del film Rogopag che prese il nome dalle prime lettere dei cognomi dei quattro autori (Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti). Un anno dopo il regista fu denunciato e iniziò il processo più celebre mai fatto in Italia per il reato di «vilipendio alla religione».
Di seguito l'introduzione che Enzo Siciliano fece per il volume pubblicato il 18 maggio 1994 dall'Unità, per la collana "I grandi processi", nel quale si ricostruisce
la storia del processo per «vilipendio alla religione», subito da Pier Paolo Pasolini

Il processo a Pasolini

di Enzo Siciliano
L'Unità 17 maggio 1994

(Trascrizione dal cartaceo curata da Bruno Esposito)


Su un dorso collinoso della campagna alle porte di Roma, un terreno vago fra la via Appia Nuova e la via Appia Antica, presso la sorgente dell'Acqua Santa, Pasolini gira La ricolta nell'autunno del 1962 .
Nasce su quello sterrato di tufo il suo film più singolare. «Geniale», lo definì Moravia nella recensione che ne scrisse: 
«Non vogliamo dire con questo che sia perfetto o che sia bellissimo; ma vi si riscontrano i caratteri della genialità, ossia una certa qualità di vitalità al tempo stesso sorprendente e profonda». 
Un poemetto per immagini: il cinema come autoriferimento, - il cinema colto nel suo  involucro, o cinema nel cinema. Ma un cinema che utilizza voracemente pittura e letteratura. Si sta girando una crocefissione con deposizione, per le quali il Pontormo e il Rosso Fiorentino sono presi a esempi figurali mentre il regista, interpretato da Orson Welles, a un occasionale intervistatore, risponde coi versi di Pasolini medesimo, 
«lo sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore...». 
Autobiografismo intellettuale e esperienza di vita - quel set romano, cosi neorealisticamente  ritratto nella sua sarcastica spontaneità - sono il crogiolo per il guizzare di una metafora quanto mai singolare. 
«Via i crocefissi»; 
«portare su le croci»; 
«lasciateli inchiodati»; 
«cornuti»; 
«silenzio»; 
la Maddalena che indifferente, balla il cha-cha-cha davanti alla croce: e Stracci, il povero Stracci, comparsa ladrone, che nella pausa di lavoro si mangia tanta ricotta da prendersi una indigestione e crepare, letteralmente crepare, legato alla croce sotto il sole che incoccia: - fra grida e gesti, quel set, con la sua amara crudeltà, altro non e che il tempio invaso dai mercanti. La povertà, suggerisce l'autore, soltanto la povertà, con le sue parole schiette e pure, può offrire riscatto alla fede. 
Il tema è complesso: e profondamente cristiano. Fa violenza al clericalismo di qualsiasi chiesa. La blasfemia dei gridi replicati 
«via i crocefissi» 
è il segno di una antica disperazione: quella che non vede corrisposta dal mondo l'inesausta urgenza di religione. 
Volgarità delle voci, dei richiami: disordine brulicante, - pause improvvise (quelle dell'arrivo furtivo della famiglia affamata di Stracci, cui il poveretto, uno fra i tanti del formicaio di Cinecittà, passa la propria razione di cibo) -tutto diventa elemento per comporre un quadro di «sgomentante sacralità».  È il quadro dove la sensibilità culturale  di Pasolini, e il suo irreversibile bisogno di dissacrazione, al fine di rendere più concreto il «credo» cristiano, toccano il massimo di evidenza espressiva.
Un barlume di determinismo nella morte per fame di Stracci, un barlume alonato di ironia.
Di contro: la delusione, anch'essa orlata di Ironia, nella quale il regista fascia le proprie risposte: accuse virulente alla borghesia italiana «esibizione di un «profondo, intimo arcaico cattolicesimo», quel tanto di staccato e intellettualmente ardito che egli ha da dire sulla morte, «pseudo-problema per un marxista».  
Pasolini è riuscito a far gioco di se, a giocare con gli strumenti del cinema: ha agito con l'eleganza dell'artigiano. Era questa la «genialità» che gli riconosceva Moravia. I clericali non gliene riconobbero alcuna.
Il film, alla sua uscita, ebbe un accoglienza distratta, fredda. La ragione, per Moravia, stava in quel che Pasolini, «con ingenua mancanza di tatto», aveva messo in bocca al suo regista: «Diamine: il regista nell'intervista dichiara: ''L'Italia ha il suo popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d' Europa" ed ecco scontentati cosi i partiti di destra come quelli di sinistra. Poi, peggio ancora, Orson Welles dichiara: "L'uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista", ed ecco scontentati tutti quanti. L'Italia del passato, infatti, era il paese dell'uomo in tutta la sua umanità; l'Italia di oggi, invece, è soltanto il paese dell'uomo medio». 
Il 1" marzo 1963 il film fu sequestrato per reato di vilipendio alla religione dello Stato. Il decreto di sequestro è firmato dal sostituto procuratore della Repubblica Giuseppe Di Gennaro. 
Il 4 marzo, a palazzo Marignoli, sede dell'Associazione della Stampa Italiana, si tiene un dibattilo di solidarietà con Pasolini: critici, registi, scrittori esprimono il timore che la magistratura si faccia interprete di una visione religiosa schematica e retriva.
Non tutti i cattolici son o dell'avviso del sostituto procuratore: i sacerdoti docenti della Pontificia Università Gregoriana : di Roma non rilevano nel film alcun vilipendio. 
Il caso non è soltanto giudiziario. 
Il dibattimento processuale ebbe luogo il 6 e il 7 marzo. È protagonista Di Gennaro, il quale si fa portavoce dichiarato di una concezione della fede che non dà spazio a diversità. Pronuncia, nella sua requisitoria, parole come queste: 
«Sono sicuro che la vostra sentenza risveglierà i morti, richiamerà a vita e a dignità quei cattolici da sacrestia che hanno abdicato alla loro cultura per tema d'essere tacciati di conformismo». 
L'intento è chiaro: le sottintese idee culturali anche. Chiarissima, ancora di più, la psicologia del magistrato: 
«Qui sono io, al banco del pubblico ministero, ma in quale veste? Se l'imputato è colui che è chiamato a rispondere di un'accusa, ebbene anch'io sono imputato! È doveroso che io faccia un'esatta presa di coscienza della realtà. Da varie fonti, senza metafore, mi si accusa: l'attentatore della libertà, il liberticida, l'inquisitore! Non occorre altro per rendersi conto che in questo processo gli imputati sono due: Pier Paolo Pasolini e io». 
La richiesta ai giudici è perentoria: 
«Se voi condannerete Pasolini approverete me, ma se voi lo assolverete allora, ineluttabilmente, condannerete il mio operato». 
I! processo del 1963, il dibattito che sollevò intorno alla censura cinematografica, gli articoli del codice Rocco ancora attivo in Italia per i reati di vilipendio, fotografano la condizione culturale del paese. 
Il miracolo economico ha mutato le strutture produttive: le grandi citta del Nord stanno cambiando fisionomia; le infrastrutture autostradali fanno si che l'aspetto delle campagne si sfiguri; i mass-media, televisione in testa, sono in via di espansione: tutto questo su un nucleo di irrigidite concezioni, su una moralità orgogliosa del proprio immobilismo, tale da rendere la circolazione delle idee quanto mai aleatoria o convulsa. 
Nell'Italia nuora vi sono margini di tale astrattezza e irrealtà da spingere una natura come quella di Pasolini all'esercizio sistematico della provocazione. Egli sentiva vivere dentro di sé questo destino, ma, naturalmente, non lo viveva alla leggera. 
Sapeva benissimo che quanto lo opponeva alle idee del sostituto procuratore Di Gennaro non era ciò che si poteva chiamare futuro a confronto col passato, quanto piuttosto, una differente concezione del Cristo. 
Non diverso era il fondo di un paese che voleva spregiudicatamente far uso di ogni illuminismo possibile, ma insieme conservare, nevroticamente conservare, le scorie del passato, radicarsi alle proprie frustrazioni sociali. 
«lo sono una forza del Passato» scriveva Pasolini. Ma pervia di questo non voleva, come aveva anche  scritto, lasciare «ai preti il monopolio del Bene». La cultura delle pievi rurali si faceva ricca in lui di una idea dinamica della storia: ma tale dinamicità si legava inestricabilmente al messaggio evangelico dello «scandalo».  
Il cinema poteva essere veicolo di «scandalo» assai più della letteratura. Il cinema. Pier Paolo lo dirà fra qualche anno, e «lingua scritta della realtà», dirà nel 1966 che il cinema esprimeva per lui niente altro che «un allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà». Non solo «pragmatico», ma «religioso in quanto si fonda in qualche modo, per analogia, con una sorta di immenso feticismo sessuale. Il mondo non sembra essere, per me, che un insieme dì padri e di madri, verso cui ho un trasporto totale, fatto di rispetto venerante, e di bisogno di violare tale rispetto venerante attraverso dissacrazioni anche violente e scandalose.
Padri e madri, feticismo sessuale, lo scandalo: tutto si chiude in un anello che niente infrange: una circolarità di passioni che la nevrosi inchioda, ma che la ragione, e l'intuito poetico nutrono di vitalità espressiva, di quella «disperata vitalità» che fu il bagliore dentro cui Pasolini sempre più occultava la propria esistenza. 
Ascoltata la condanna, quella mattina di marzo del 1963, Pier Paolo tornò a casa. Il sole caldo: era già primavera. 
Da qualche mese viveva con lui e con Susanna, Graziella, la figlia di Annìe Chiarcossi Naldini. Graziella si era iscritta alla facoltà di lettere dell'Università di Roma. 
Susanna, conosciuta la condanna, ebbe una crisi di pianto, un mancamento. Fu una crisi allarmante. Pier Paolo ne restò sconvolto cercò Moravia, lo pregò di raggiungerlo a casa . Poi. riuscì a trovare il numero telefonico di Di Gennaro: lo chiamò. Gridando, rese responsabile il magistrato del turbamento di sua madre. 
Fu quella l'unica volta che Pier Paolo ebbe una reazione estrema di fronte a una condanna: il pianto, la prostrazione fisica di Susanna lo ottenebrarono. Le parole per lei  erano : 

...Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Enzo Siciliano

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog


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