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mercoledì 16 aprile 2025

Pasolini, Dittatura in fiaba - La libertà d’Italia del 9 marzo 1951

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Pasolini, Dittatura in fiaba

La libertà d’Italia del 9 marzo 1951


( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )


Pier Paolo Pasolini, nel marzo 1951, recensì “Favole della dittatura”, che rappresenta l’esordio letterario di Leonardo Sciascia.

Al link qui sotto, trovi uno scritto di Leonardo Sciascia, su questa recensione di Pier Paolo Pasolini, al suo libro:



Di certe sensazioni comuni, che ognuno porta tacitamente in sé, molte volte non si penserebbe nemmeno di parlare, se qualche occasione non invitasse a farlo. Spesso questa occasione è un libro (L. Sciascia, << Favole della dittatura >>, Bardi, Roma, 1950). Chi ha frequentato il Ginnasio non può non condividere certe sensazioni da «recherche» anche se, nozionalmente, rimaste sempre a galla nella memoria: si pensi per esempio alle Favole di Fedro, illustrate e annotate sulla liscia pagina bianca dell’edizione scolastica, gelide, inammissibili, e, saremmo tentati subito di dire, metafisiche. Le bestie parlanti con tanta essenzialità gnomica, cartoni animati troppo largamente prima della lettera, si incidevano nella nostra fantasia di bambini non senza una certa irritazione, una certa noia, unite però a un fascino che altre letture magari più allettanti non possedevano. Certo le note che condannavano come antiestetiche le clausole morali (la favola insegna...) sfuggivano del tutto al ginnasiale, che del resto si arrangiava benissimo per conto suo a eliminare quelle clausole, a metterle a tacere, capace com’era di assumere con la massima naturalezza gli animali filosofeggianti e sputasentenze nel cielo della fantasia: in un’aria rarefatta, da miniatura o da incisione o da arte vasaria. Anche in questo senso il ragazzo riesce a precorrere le scoperte dell’adulto. La purificazione estetica è in lui in atto. Ecco perché, poi, nella memoria, ci restano quelle sensazioni comuni, quelle proiezioni, nel nostro caso, delle favole moralistiche su un concreto piano di fantasia. Gli uomini-bestie erano tutti assorbiti nel loro alone, soli, incisi nel bianco e nero dei loro ambienti surreali; e il paesaggio, dietro a loro, indicato con una essenzialità che lo immergeva in sfondi prospettici non meno veri per essere assolutamente nudi. Certo, tutto questo, con l’aiuto della cultura, apparve chiaro più tardi, magari di fronte all’Esopo moderno di Pancrazi (che isolava con tanta arguzia e castità di lingua, dell’antica favola, il nucleo più puro); o a Trilussa (che togliendo alla favola molto del suo tono tagliente e perentorio e aggiungendovi lo spumeggiare del romanesco parlato da animali benpensanti e un po’ scettici, le aveva dato ancora una spinta verso la pura «favolosità»). E, citato Trilussa, non dimenticheremo le favole «inutili» di un altro romanesco, Dell’Arco, che, quasi conducendo a termine il processo di poetizzazione, compiuto inconsciamente dal ginnasiale e a ragion veduta dal critico, ha fatto parlare animali e cose senza altro contenuto, satirico o moraleggiante, che non fosse il fantasma, il ricordo estetico di se stesso: 

«La luna esce a lo scuro / 

Cor lume a acetilene: sceje er muro, / 

Butta uno sguardo intorno / 

E senza fa rumore / 

Scrive cor gesso: “Abbasso er Capricorno” / 

“Viva l’Orsa Maggiore”». 

 Dove abbiamo il favoleggiare per se stesso, il moralismo senza oggetto, il gusto della satira pura nel proprio alone poetico, di sapore metafisico. Anche Sciascia è sulla stessa strada: egli ha depurato il suo contenuto fino a farne uno squisito pretesto di fantasia. La dittatura e il servilismo, i due termini complementari, contro cui, con valore retroattivo, egli incide le sue tavolette, così isolati, distaccati dal resto di tutti gli altri sentimenti umani, echeggiano nel vuoto della pagina, come se fossero irreali, gioco ed esercizio di raffinato evocatore. Evocatore non solo di un tempo che sembrerebbe concluso, ma di un mondo di figurazioni e di personaggi già fissi, nel ricordo, con una luminosità e una secchezza incantevolmente stereotipe, e in cui le persone e gli avvenimenti di quel tempo, del resto ancora prossimo, vengono a fermarsi e a scolpirsi. Ecco perché, è bene dirlo subito, di questo libretto non si può insinuare che sia dovuto ad un senno o, nella specie, a una vena satirica del poi, mentre invece è attuale proprio nel suo venire «poi», nel suo guardare le cose vicine col binocolo alla rovescia, rimpicciolendole in miniature dove esse trovano quella eternità a cui altrimenti non sarebbero ancora mature. Dieci anni fa queste favolette sarebbero servite unicamente a mandare al confino il loro autore. Quanti italiani sarebbero stati in grado di capirle? Adesso, con un fondo di amarezza tutta scontata, Sciascia condanna, nel ricordo, quei tempi di abiezione, e proprio con un gusto della forma chiusa, fissa, quasi ermetica, insomma: che a quei tempi era proprio uno dei rari modi di passiva resistenza. E qui ripetiamo è l’interesse immediato di questo volumetto – se è poi davvero necessario averne uno –, ma quello che conta è proprio il suo valore di poesia. Molte di queste favole hanno la chiusura di brevi liriche, e richiamiamoci pure al quadretto di genere alessandrino, alla maiolica orientale, o alla lirica popolare (e magari proprio siciliana), tanto per dare al lettore un’idea di questo linguaggio. E anche letterariamente, potremmo all’incirca collocarlo tra due sue figure conterranee: la parola ferma, riflessa dal greco, di Quasimodo, e la discorsività amara e pungente di Brancati. Così che poco un lettore sensibile si curerà di riconoscere in un «uomo ... chiuso e rigido dentro tanto splendore» Ciano e Starace, oppure nella «scimmia» se stesso o qualcuno dei molti milioni di italiani qualunque: troppo garante di non volgare attualità è questa lingua così ferma e tersa. E leggiamo con quale intensa commozione, senza cedimento sentimentale, Sciascia incida nell’evocazione favolosa la figura del condannato politico: 

«Dentro la trappola, una di quelle trappole a gabbia, il topo stava quieto, pieno di disgusto e di noia. L’uomo entrò in cucina e stette a guardarlo. Quando incontrò gli occhi dell’uomo, il topo capì che stava scegliendogli un genere di morte. “Poveretto”, pensò, “sta pensandoci più di me che debbo morire”». 

 L’elemento greve, tragico della dittatura ha grande parte in queste pagine così lievi, ma è trasposto tutto in rapidissimi sintagmi, in sorvolanti battute che però possono far rabbrividire («È maligna, la lucertola: la sua coda si agita per maledirci», «Ma l’usignuolo per tutta la notte tacque di paura», «Guardò meglio: era una testa appesa a un gancio, sembrava intenebrata di sonno. “Il resto del corpo è già stato venduto”, gli sussurrò il serpente»). Ma anche questi improvvisi bagliori, queste gocce di sangue rappreso, sono assorbiti nel contesto di questo linguaggio, così puro che il lettore si chiede se per caso il suo stesso contenuto, la dittatura, non sia stata una favola.

Pier Paolo Pasolini


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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