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giovedì 24 dicembre 2020

Pier Paolo Pasolini, DIARIO LINGUISTICO - Rinascita, ANNO XXII/numero 10 - marzo 1965, pagg. 24-26

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




DIARIO LINGUISTICO
Pier Paolo Pasolini

Rinascita, ANNO XXII/numero 10 - marzo 1965, pagg. 24-26
Biblioteca Gino Bianco



   La questione linguistica pone il PCI di fronte alla necessità di verificare la reale potenzialità e i reali obiettivi della sua lotta per l’egemonia. Questo è il discorso vero che il PCI deve affrontare: e per affrontarlo realmente, deve concedere – senza timore di offendere il proprio onore o di ammettere insieme qualche propria insufficienza nel passato o nel presente – che c’è la possibilità, o il pericolo, che «la nuova stratificazione tecnologica» appartenga in effetti alla classe egemonica (in potenza) della nuova borghesia. Il fatto che ognuno di noi, ossia l’intera nazione, possa essere «utente» di quel linguaggio tecnologico – inteso, insisto, come nuova spiritualità o cultura – non esclude che il reale possesso di quel linguaggio sia di coloro che attraverso esso esprimono la loro reale esistenza.
   Per noi – e genericamente inteso, quasi in modo antropomorfico, per il PCI – il linguaggio tecnologico è uno dei tanti elementi espressivi, qualsiasi sia la sua tendenza, mentre per la borghesia tecnocratica-neocapitalistica è un tutto. In senso quasi metafisico o universalistico, il linguaggio tecnologico può essere inteso come il linguaggio dell’eternità industriale (secondo una definizione di Moravia). Infatti, ipoteticamente, sarebbe del tutto concepibile un mondo, interamente occupato al centro dal ciclo produzione-consumo, che avesse come lingua la sola lingua tecnologica: tutte le altre lingue potrebbero essere tranquillamente concepite come «superflue» (o come sopravvivenze folcloristiche in lenta estinzione). Perché, in un mondo come schematicamente possiamo immaginarlo, al limite dello sviluppo tecnocratico, ci dovrebbero essere delle altre lingue, o dei momenti linguistici diversi, oltre a quella della produzione e del consumo? Sì, ripeto, sono concepibili: ma come «lingue del tempo libero», come «hobbies familiari». Già, ma sempre al limite, noi concepiamo quel tempo libero come occupato dall’uomo che noi conosciamo; e presupponiamo la presenza di una famiglia che noi abbiamo sperimentato. Mentre, nella visione ultima e apocalittica dell’eternità industriale 
come riproduzione del determinismo della natura, l’uomo sarà un’altra cosa: e la sua «comunicazione» linguistica sarà in funzione non più tradizionalmente umana…

   Capire e distinguere perché tale fenomeno avvenga, in che termini avvenga ecc. ecc. è uno degli atti fondamentali del «rinnovamento del marxismo». Se tale rinnovamento, soprattutto per il PCI – che è considerato ed è all’avanguardia in tale operazione – è dovuto all’apparizione di nuovi strati di realtà, allo sviluppo imprevisto di certe situazioni sociali, al di là del limite delle previsioni di Marx e di Lenin. Questo ormai lo sanno tutti. E il rinnovamento, però, non deve avvenire attraverso una riscoperta di Marx, un ritorno alle fonti (come tendono a fare i «puri» del PSIUP o di certi movimenti disinteressati, per esempio il gruppo di «Quaderni Piacentini»): in tal caso un rinnovamento del marxismo si presenterebbe come uno dei tanti ritorni al Vangelo nella storia della Chiesa: e si sa che tutti tali ritorni sono «rientrati», a gloria della Chiesa. Bisogna certo rileggere Marx e Lenin, ma non come si rilegge il Vangelo. Il «nuovo spirito tecnologico» è un fatto senza precedenti e senza equivalenti nel passato: e non era prevedibile, perché non erano prevedibili le concrete realizzazioni scientifiche, e quindi la qualità della loro quantità sempre più immensa.

   Ancora una cosa, prima di passare agli esami particolari dei vari interventi: Citati sul «Giorno» osservava che, con tutti i denti fuori, un «compagno di viaggio» (dai lunghi periodi latineggianti-burocratici sconvolti da un nuovo spirito contraddittorio: la ricerca della rapidità e della precisione comunicativa) tendeva a sostituire il vecchio, caro, insostituibile «sì» («il Bel Paese dove il sì suona»), con un orrendo «esatto». Questo «esatto» non è direttamente tecnologico: ma è prodotto del «principio» tecnologico della chiarezza, dell’esattezza comunicativa, della scientificità meccanica, dell’efficienza, che diventa mostruoso nella sua iniziale fase di contatto con il substrato tradizionale umanistico e espressivo. L’influenza tecnologica è indiretta: è il suo principio in qualche modo trascendente quello che conta. La televisione è uno dei modi di concrezione e di irradiazione di tale principio. La parola «esatto» era l’urlo di trionfo ufficiale con cui Mike Bongiorno accoglieva la soluzione buona del quiz. È evidentemente questa la strada del prestigio della parola «esatto»; il modello linguistico profondo è nel nuovo spirito tecnologico dell’Italia del Nord industrializzata fino al possibile inizio dell’era tecnocratica, ma il modello immediato passa attraverso una mediazione infrastrutturale che lo deforma e lo deformerà, lungo una infinità di fasi linguistiche.

     Difendersi dalle novità scomode, facendole passare per vecchie, difendersi dai problemi considerandoli già risolti in natura, è operazione tipica del buon senso. Non c’è bisogno che mi riferisca a Kant, a proposito del buon senso, come a tutto ciò che è contrario alla ragione, cioè alla copertura delle asserzioni dogmatiche. Il buon senso («ma in fondo la lingua italiana c’è, è lì, un napoletano s’intende con un milanese ecc. ecc.») maschera dunque i dogmi scaduti alla normale consumazione, divenuti ontologie sociali. Non per niente Dallamano si richiama a Stalin, per dare due manate sulle spalle del lettore, strizzargli l’occhio, e dirgli: «Io e te, da vecchi utenti della koinè, c’intendiamo: andiamo a farci un bicchiere di vino («ombra» in veneto, «fojetta» in romanesco ecc. ecc.) e non pensiamoci più!». Così l’italiano è ridotto in osteria al livello storico-culturale dello swaili (una lingua franca manipolata e diffusa dai missionari in Africa Orientale, partendo da uno dei dialetti, e ora compresa nel Kenia, nel Tanganika, in Somalia, da Kikuyu, Ghiriama, Masai ecc. ecc.); o peggio: ecco l’italiano ridotto a una lingua mimetica, per cui un napoletano, stringendo i polpastrelli delle dita nel suo gesto tipico, ma dirigendoli a più riprese verso la bocca semiaperta, con aria afflitta e interrogativa, fa comprendere a un tartaro che ha fame.

   Non parlo di Arbasino, che è il «“Corriere della Sera” del buon senso», ma, per colpa del suo carattere, e del vasto alone ideologico che questo implica, anche Calvino, nella seconda parte del suo intervento (ché la prima è buonissima: dove dice che l’italiano va osservato e diagnosticato con spirito internazionalistico e comparativo: e del resto io stesso sono partito dal Bally, cioè da un esame comparativo franco-tedesco, e non ho mai cessato di confrontare, fin dove è stato possibile alle mie conoscenze e alla sede del mio discorso, le situazioni italiane con quelle delle altre lingue), nella seconda parte del suo intervento, egli alza le spalle e assume l’aria chiotta di chi non ne vuol sapere: ché le cose son vecchie. Ma intanto anche là dove parla dei codici (in Italia usiamo dei codici o gerghi critici che all’estero non son capiti ecc., e viceversa; in Italia c’è la confusione dei codici ecc. ecc.), non tien conto di un fatto estremamente tipico e nuovo del mondo alle cui soglie ci troviamo insieme: ossia la rapidità dei consumi. Nei tempi «classici» (ormai possiamo chiamarli globalmente così!) un «codice» poteva bastare per tutta una vita, perché la consumazione delle idee era lenta (come i vestiti che usavano allora, spesso lasciati in eredità dal padre al figlio): ora la produzione immensamente aumentata di idee (la quantità di persone che producono idee è cresciuta di milioni di volte) e la rapidità della circolazione le bruciano rapidamente: e con esse bruciano i loro codici. Vent’anni fa bastava al critico italiano un codice crociano o un codice positivistico, due anni fa bastava un codice stilcritico, ora occorre almeno un codice strutturalistico. Ma non sono certo le normatività moralistiche che possono provvedere alle eliminazioni tempiste e sistematiche dei codici sopravviventi: un momento di contemporaneità dei codici non potrà mai essere eliminato. Non vedo perché si dovrebbe dimenticare Spitzer su due piedi per Barthes; e perché non si dovrebbe tentare invece di usarli contemporaneamente, almeno fino alla naturale estinzione della pregnanza del vecchio. Insomma la nostra testa, deve adattarsi ad essere un mercato, oltre che di forme grammaticali, anche di codici concorrenti. Ora, l’espressività di Calvino è nella sua folle ricerca di comunicazione, nella invenzione di un italiano finalmente chiaro, limpido, ironico, scattante, piano: ma non presenti questa come una regola letteraria! La lotta, ora, è per l’espressività, costi quello che costi. E non creda, Calvino, e con lui tutta l’ala francesizzante-razionalistica, largamente superata dalla mostruosa presenza internazionale, appunto, del «franglais», ossia del francese e dell’inglese tecnologici, ormai parzialmente al di là della ragione dell’uomo, di poter accantonare, per esempio, i dialetti. I dialetti sono scaduti come problema di rapporto dialetto-lingua, perché è scaduto – superato dalla realtà – il periodo culturale in cui si credeva che l’italianizzazione dell’Italia avvenisse sotto il segno dell’equilibrio e degli apporti paritetici dei vari sublinguaggi popolari (impegno e neorealismo): non sono scaduti però in un altro senso: ossia come «substrato» della lingua unificata dal principio tecnologico della comunicazione. Essi saranno realmente presenti nei vari momenti, o fasi, o situazioni linguistiche attraverso cui l’italiano si accinge a passare, dal momento in cui si pone come lingua nazionale. La salute che Calvino ironicamente dice presupposta nei dialetti è comunque una moneta che non ha mai avuto corso se non nelle accademie vernacole legate alle varie autonomie regionali (né nell’espressionismo di Gadda, né nel mio naturalismo espressionistico, i dialetti son mai stati concepiti con una siffatta e ridicola aureola igienica).
   Il disaccordo che Calvino dichiara col mio giudizio sul linguaggio giornalistico, mi offre il pretesto per un chiarimento di carattere generale. Io parlavo di uno pseudo razionalismo del linguaggio giornalistico, di una sua normatività gergale basata sull’illazione pseudo-statistica della richiesta del pubblico. Giudizio, mi pare, assolutamente negativo. Calvino, non so per quale ragione, lo trova positivo: di qui il suo disaccordo con me. Sono stato scuro? Forse. Calvino ha letto distrattamente? Forse. Comunque questo è un fatto. Io sono giunto all’affermazione apodittica e imparziale che «è nato l’italiano come lingua nazionale», così come un diagnostico e imparziale nell’annunciare la presenza di un male. E questo mi par chiaro proprio dal fatto che io sono giunto a tale affermazione, dopo una serie di analisi tutte negative, e anche spietatamente negative (così come un diagnostico si accorge del male da una serie di aberrazioni o di disfunzioni). La presenza del «principio tecnologico», come principio omologatore e modificatore, e quindi nazionalizzatore dell’italiano, mi si è rivelata attraverso la sua azione – iniziale, ma già aberrante e patologica – sui vari tipi di linguaggio: che, appunto, mi sono apparsi tutti «negativi»: il linguaggio del giornalismo, della televisione, della pubblicità, della politica, del parlar comune

    Sul «Giorno» del 3-1-65, Calvino torna sul problema: e pur di non darmi ragione (testone come un tenentino azzurro che occupa una posizione e non vuol mollarla al nemico), prima dice che non è vero che l’italiano nazionale stia nascendo, ma che se mai sta morendo; che quella di oggi è un’«antilingua» (così chiamata da lui perché, ai suoi orecchi di tenentino azzurro, esteticamente brutta) (voleva dire, insomma, che è brutta la lingua reale di oggi, quella che i bollettini linguologici non segnalano – ma che ha segnalato Citati, per es., aguzzando le orecchie in treno; e che ha avvertito benissimo lo stesso Calvino, entrando in un commissariato durante la stesura di un verbale) ma poi giunge anch’egli alla conclusione, suggeritagli dall’interregionalità effettiva del lessico automobilistico (i pezzi di ricambio), che «sarà sempre più questa lingua operativa (ossia, com’egli dice, inter-lingua scientifico-tecnico-industriale) a decidere le sorti generali della lingua».

      Del resto, è irrefrenabile l’abitudine del letterato italiano a identificare il segno vocale col segno grafico: di non concepire lingua altrove che nella letteratura. Caso clinico di attaccamento al proprio ruolo – e, in qualche modo, commovente sintomo di timidezza professionale. Anche Sereni non sa concepire possibilità di discorso linguistico al di fuori dalla propria esperienza letteraria: quasicché – implicitamente – la letteratura fosse realmente la lingua-guida di una nazione. Questo equivoco è strettamente connesso ad un altro: il disinteresse per il problema linguistico anche sotto la specie letteraria. Disinteresse sottilmente millantatorio. Implicante cioè – come ogni provocazione – un’ideologia ontologica, basata sulla sostanziale presunzione d’inanità di quel problema. Agnosticismo religioso, e, ancora sottilmente, ricattatorio (cfr. anche Bassani e la Morante): per cui viene considerato colpevole o impuro considerare la lingua per quello che è, cioè uno «strumento»: e se nel suo aspetto di langue viene così accettata come un «dono» mitico o mistico, nel suo aspetto di parole essa viene interamente identificata con l’io inventante – a un livello spiritualistico che ha, mi si permetta di dirlo, qualcosa di troppo innocente.

    Anche Vittorini, nel suo intervento (come vedremo più avanti), mi porrà di fronte alla presenza di una lingua italiana come lingua della protesta operaia, nella sua specie letteraria. Egli, cioè, non riesce a vedere che la metaforizzazione letteraria di tale lingua della lotta (che di per sé, si presenterebbe come un moncone, pateticamente oratorio, della tipica oratoria italiana «espressiva»). In tale «mimesis metaforica» del discorso dell’operaio in quanto giudice – nel momento idealmente vittorioso della sua lotta – l’italiano, secondo Vittorini, prenderebbe il posto del dialetto (che ragionevolmente dovrebbe continuare a presentarsi come l’unico strumento linguistico dell’operaio). E sarebbe un italiano appunto, in qualche modo, metaforicamente, nazionale, o almeno nazional-popolare. Io nego che tale operazione sia: a) l’unica possibile, b) nazionale. Non è l’unica possibile perché lo stesso discorso di «condanna» o di «vittoria», del lavoratore-giudice, potrebbe essere redatto attraverso una operazione antitetica, cioè attraverso una mimesis dialettale: in tal caso la struttura interna del suo discorso – non humilis, non quotidiano, non naturalistico – darebbe al dialetto la dignità di lingua. Non è nazionale perché nego che un’opera letteraria abbia la possibilità di contenere una lingua che oggettivamente non c’è: tutt’al più, ripeto, si può trovare in essa una tendenza «nazional-popolare»: è cioè nazionale sul piano estetico, non su quello linguistico.
   E ancora, spostando l’obiezione di Vittorini dalla sede specificamente letteraria a quella più vasta della lotta politica, sì, certo, si può parlare di un forte contributo che la lingua – nata dall’interpretazione politica dell’esigenza operaia e del suo intervento dal basso nella vita nazionale – ha dato all’italianizzazione dell’Italia. Ma è un contributo alla costruzione di una base unitaria possibile, ai fondamenti dell’unità: non all’unità.
   Ecco cosa voglio dire: dopo il ’70 la borghesia italiana venuta al potere (al rimorchio, come osserva Gramsci, delle grandi borghesie europee), assumendo a propria lingua l’italiano letterario, ossia l’italiano delle corti, ne contesta alcuni elementi tipici, e li mette fuori gioco. Fa scadere di prestigio, e espunge dall’uso (come notava il prof. Ignazio Baldelli, in un suo intervento orale al dibattito) parole come «speme» o «vorria». Contesta e mette fuori gioco il «classicismo agrario». Ma per sostituirlo tuttavia con un «classicismo piccolo-borghese» (D’Annunzio e tutta l’elezione linguistica fascista). Si tratta effettivamente di una spinta dal basso, corrispondente all’allargamento democratico, al diritto di voto per tutti ecc.: subito receduta. L’imborghesimento del modello latino attraverso la spiritualità burocratica, e il culto dello Stato borghese si sono mantenuti paternalistici finché la borghesia non ha avuto solidamente in mano la nazione: alla prima ondata dell’industrializzazione, si sono fatti autoritari, e i Travet hanno scoperto il mondo classico.
   Ora, con la Resistenza, si è avuta una nuova «spinta dal basso», realmente democratica, e popolare, questa volta. E, dal punto di vista linguistico, qual è stata la sua prima operazione? Quella di contestare e mettere fuori gioco il «classicismo piccolo-borghese» del fascismo. Dopo «speme» e «vorria», sono crollate parole come «auspicare» o «radioso». Questa spinta dal basso, fatta di puro contenuto, ha avuto due tipi di interpretazione linguistica: una letteraria e una politica. L’interpretazione letteraria è consistita in una scoperta dell’Italia reale e periferica, popolare e dialettale. Su questo si è realizzato concretamente l’impegno del dopoguerra – come ho più volte ripetuto: esso, dal punto di vista linguistico, è praticamente consistito in una serie di inserti nelle opere letterarie di «discorsi diretti» (tutto il neo-realismo, con le sue «registrazioni»), e in una serie di «discorsi liberi indiretti» (tutto il naturalismo espressionistico): per cui l’autore finiva sempre per parlare, completamente o in parte, attraverso la lingua del suo protagonista popolare e dialettale. Era l’unica strada concreta e possibile – sotto la specie dell’epicità, che l’oggettività implicita nella ideologia marxista, garantiva – di applicare alla letteratura la nozione gramsciana di nazional-popolare: la concomitanza di due punti di vista nel guardare il mondo, quello dell’intellettuale marxista e quello dell’uomo semplice, uniti in una «contaminatio» di «stile sublime» e di «stile umile».

   Ecco perché, parlando della lingua dei politici – che il nuovo spirito tecnologico sospinge verso la comunicazione, strappandola alla fasulla espressività dell’italiano latineggiante – ho citato Moro, e non Togliatti o Pajetta. Questi ultimi due avevano già compiuto il salto di qualità che stanno compiendo oggi i democristiani avanzati. È vero che la tradizione socialista è borghese, e che molti strati del linguaggio burocratico ovattano la prosa degli oratori e degli articolisti comunisti, è vero anche che molte reviviscenze scolastico-latineggianti esplodono nei momenti di commozione e di perorazione: tuttavia l’insieme del discorso di un comunista, in quanto espressione di una profonda e vasta spinta dal basso, e in quanto improntato da uno spirito fondamentalmente scientifico, tende a una sintesi dell’italiano, e si pone come fondamentalmente comunicativo.
   L’insieme dei fenomeni linguistici, o socio-linguistici, che ha caratterizzato l’Italia del Dopoguerra (la spinta dei contenuti dal basso, e la loro interpretazione nazional-popolare o impegnata, in letteratura, scientifica, in politica), ha contribuito a creare una vasta base unitaria, pronta ad accogliere l’italianizzazione completa dall’Italia attraverso l’allargamento democratico garantito dalla presenza dei grandi partiti operai. Era questa la strada che a tutti noi pareva la buona e l’unica: e su essa splendeva la stella del sogno egemonico comunista. I fatti ci hanno condotto brutalmente alla realtà. Quella strada democratica e popolare dell’italianizzazione ha subito una violenta deviazione: un fenomeno nuovo, la nascente tecnocrazia, ancora senza la coscienza e forse senza la volontà dell’egemonia, sta prendendola di fatto. Essa non contesta più i vari possibili classicismi: li fa brutalmente cadere senza ideologizzarne la caduta. Vi sostituisce la sua efficienza comunicativa e basta. In realtà quello che essa tende a contestare e a mettere fuori gioco, è tutto il passato classico e classicistico dell’uomo: ossia l’umanesimo.

   Il fiero ottimismo di Vittorini è una tentazione. E così le sue cautele ironiche. Egli parla di improbabilità di quell’italiano unitario (nazionale) da me tenuto a battesimo, in quanto i «rapporti di lavoro» non ne garantirebbero ancora l’unità.
Ma intanto va tenuto presente un errore in cui molti miei amici sono caduti intervenendo in questo dibattito: il dare cioè per presente e adulto un italiano che invece io do neonato e potenziale. È perciò che essi, poi, non lo riconoscono.
   Certo, i «rapporti di lavoro» nel Sud, non garantiscono l’unitarietà dell’italiano, in quanto, nel Sud, i dialetti restano nell’ambito di una «lingua contadina»: appartengono cioè al mondo classico (agricolo, artigianale, prima feudale poi borghese) cui appartengono anche le capitali di quel mondo contadino, Palermo, Napoli, Roma. Ma come si pone questo mondo «contadino» (o meglio come comincia a porsi, o come si pone potenzialmente) nel mondo unitario italiano? Come una «cultura sopravvivente». Esattamente così come si pone ogni mondo contadino classico in un’epoca in cui l’agricoltura sta per essere industrializzata. Se io vedevo vent’anni fa un contadino del Sud – nella mia ignoranza di italiano classicheggiante e privo dell’esperienza critica del mondo capitalistico – potevo pensare la sua condizione come «eterna». Se lo vedo oggi, capisco che sta per scomparire. A Ragusa (ENI), a Taranto (acciaieria) è proprio sul punto di scomparire, dopo una violentissima crisi dovuta allo scontro, in una stessa anima, tra analfabetismo e specializzazione, tra anarchia borbonica e iscrizione alla CGIL.
   Oggi tuttavia siamo in una fase di passaggio: il rapporto tra Nord e Sud, non è più colonialistico, ma neocolonialistico. Nel «rapporto di lavoro» tra un contadino meridionale e la terra (gli alberi, l’aratro) c’è un diaframma, la coscienza di un altro tipo di rapporto, che suo figlio emigrato a Milano o a Τorino, già realizza e vive. In questo diaframma, in questa leggera, messianica alterazione del rapporto di lavoro con la terra, è l’inizio dell’unità nazionale reale. Del resto tutto il «Terzo Mondo», che è un mondo contadino classico e piccolo-borghese, quindi, oggi (come dicevano sia Marx che Lenin) si presenta come un mondo del futuro, non del passato. Quel diaframma, quella alterazione sono aspetti della dinamica che spinge popolazioni ex schiave, sottoproletariati agricoli, tribù, verso una sorta di sintesi, in un rapporto scandalosamente dialettico con la razionalità dei paesi industrializzati e col marxismo.
   Ora, per un intervento realmente «razionale» sulla lingua, secondo il pensiero di Gramsci, bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Il marxismo non sa, o sa male, come inserirsi in questo rapporto «scandalosamente dialettico», tra irrazionalismo contadino piccolo-borghese del Terzo Mondo (ivi compreso il Sud italiano) e razionalismo capitalistico liberale. Tale inserimento, è chiaro, implica anzitutto un recupero dell’internazionalismo e un superamento di certa tradizione recente delle «vie nazionali al socialismo». Ma tutto questo, tuttavia, non significa prescindere comodamente dai particolarismi concreti: per esempio, i dialetti e le piccole lingue nazionali (politicamente: il rapporto della Sicilia con l’asse Milano-Torino, in un contesto neocapitalistico con opposizione marxista; o il rapporto degli Slovacchi con i Cekiceki o dei Transilvani con i Rumeni, in un contesto socialista) devono porsi come problemi nuovi, non come problemi vecchi.

La lingua «internazionale» di cui parla Vittorini (con un certo ottimismo) è invece essa stessa la lingua delle nuove forme del capitalismo, ed è attraverso le nuove forme del capitalismo italiano che noi la percepiamo e cominciamo a adottarla. Tale lingua internazionale non ha nulla a che fare con l’inglese così come siamo abituati a sentirlo, ma è quella che produce gli orrori (ai nostri orecchi umanistici) di una nuova lingua in cui la comunicatività civile e filosofica e l’espressività umana e poetica sono trascese dalla «comunicazione segnaletica»: cioè da una comunicazione di uomini non più uomini. Mostruosamente espressiva, a suo modo!




Curatore, Bruno Esposito

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