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martedì 22 dicembre 2020

Gianfranco Contini, Al limite della poesia dialettale - Recensione a Poesie a Casarsa di P.P.Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


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AL  LIMITE  DELLA  POESIA DIALETTALE 
Lugano, sabato 24 aprile 1943
Gianfranco Contini
Corriere del Ticino, anno IV, numero 9

(Un ringraziamento speciale a Maria Vittoria Chiarelli, per la trascrizione)


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Sembrerebbe un autore dialettale, a prima vista, questo Pier Paolo Pasolini,  per queste sue friulane  Poesie a Casarsa ( Bologna, Libreria Antiquaria Mario Landi ), un librettino di neppur cinquanta pagine, compresa la non bella traduzione letterale che di quelle pagine occupa la metà inferiore. E tuttavia, se si ha indulgenza al gusto degli estremi e alla sensibilità del limite, in questo fascicoletto si scorgerà la prima accessione della letteratura <<dialettale>> all'aura della poesia d'oggi, e pertanto una modificazione in profondità di quell'attributo. Si pensi infatti ai più moderni fra i rimatori in vernacolo, il triestino Giotti, il genovese Firpo - e non dimentichiamo, fra i veneti, Giacomo Ca' Zorzi, alias Noventa: il loro mondo continua a essere più o meno impressionistico-nostalgico, ma d'una malinconia già raccolta nell'aprioristica figura della saggezza; la loro metrica, più o meno tradizionale; e infatti il loro dialetto persiste in una posizione ancillare rispetto alla lingua, della quale è una variazione appena più descrittiva e cromatica.

Come asserire, allora, una loro piena contemporaneità? se anzi giungono, per definizione, con alcuni minuti o un quarto d'ora di ritardo? Con Pasolini le cose vanno in tutt'altro modo; e basti senz'altro raffigurarsi innanzi il suo mondo poetico, per rendersi conto dello scandalo ch'esso introduce negli annali della letteratura dialettale,  posto sempre che questa categoria abbia ragion d'essere. Chiamiamola pure narcissismo, per intenderci rapidamente,  questa posizione violentemente soggettiva; come diremo narcissistico l'angelo biondo che ossessiona l'immaginazione di Campana. Rimpianto narcissistico, però, qui: d'uno che leva un pianto perpetuo sulla morte di sé donzèl, di sé lontàn frut peciadôr, solo vivo nelle fonti e acque del paese ormai altrettanto remoto; attuale come spirito, proprio come soffio d'aria, e attento al varco dove passano i morti, madre morta, fanciulli morti; e che associa queste continue esequie ai crepuscoli e alle intemperie di quella terra leggendariamente serale e pluviale. Tali sentimenti non si possono evidentemente sistemare in un sottoprodotto dell'alta lingua letteraria,  fosse pure privatamente amabile come la già espressione di quel ragazzo e di quella provinciale felicità: occorre una dignità  di lingua , una sorta di equivalenza. E non sarà  per niente un caso che il <<dialetto>> adottato sia precisamente uno di quelli che, per la loro struttura fonetica e specialmente morfologica differenziatissima,  hanno fatto pensare i glottologi a un'unità linguistica distinta dall'italiano.
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Qui occorrerebbe un lungo discorso: ma eccone almeno qualche termine più essenziale, per non allontanarci da questo libro che dopotutto interessa in sé, e non mica come pretesto a digressioni ingegnose. Un'unità linguistica quale veniva tracciata da quegli altissimi naturalisti della glottologia va sempre intesa come unità potenziale. È già indizio d'una relativa autonomia culturale e giuridica, ma d'un'indipendente preistoria piuttosto che d'una storia; quella passiva preistoria cioè natura, solo una coscienza letteraria potrebbe mutarla in storia.  Ciò non è accaduto né per le varietà  retoromanze né per il sardo, che pure fu la prima lingua amministrativa regolarmente costituita in una regione d'Italia, fin dal mille; né per il friulano, che pure sembrò averne larghe possibilità attorno alla curia trecentesca di Cividale.  E la coscienza letteraria, va aggiunto, è qualcosa di molto più profondo dei divertimenti,  anche acuti e federati, dei letterati,  se il provenzale moderno non è sboccato in nulla più che un aneddoto marginale del francese, curioso, e ciò vuol già dire moderatamente vitale. Resta che una varietà fortemente differenziata, come nel caso di Pasolini  friulano ( che ha addirittura un altro modo di formare il plurale, con s ), può momentaneamente diventare <<quasi una lingua>>: la sua natura passa all'atto. Non ci si usi il torto di attribuirci una qualunque fede nelle qualità <<naturali>> d'una lingua. È anzi storia che il milanese di un Porta o il romanesco di un Belli, per citare autori di grandezza non dubbia sul più alto piano nazionale, non nascono senza qualche relazione di polemica o comunque di continuità con la lingua letteraria; non sono espressioni di temperamenti dall'inizio esplicitamente lirici. È  storia l'improbabilità culturale dell'uso autonomo d'un dialetto viciniore, della sua applicazione a necessità liriche immediate. L'esperienza di Pasolini si svolge invece sopra un tendenzialmente pari livello linguistico. E gli facciamo il massimo degli onori in nostro potere se non gli attribuiamo la lettura ( ideale , s'intende ), non diciamo dello Zorutti, ma neppure del Colloredo, meno ameno di quel che si creda ( per quanto pretesto al D'Annunzio d'un elogio della <<sua parlatura nativa, concisa e aguzza, acerba e venusta>> ), e nemmeno delle villotte ( della villotta, celebra sempre il D'annunzio, in tono per hai-kai, << breve come il dardo e come il fiore, breve come il bacio e come il morso, come il singhiozzo e come il sorriso >> ), non insomma dei testi di fiancheggiamento linguistico , anche se eventualmente popolare; bensì delle ( troppo esigue ) tracce del trovadorismo cividalese, dove quei bravi anonimi intendono porsi all'altezza dei giullari di Provenza, dei notai meridionali, del Minnesang austrobavarese. Parità, giovi ripetere, di condizioni: volgare illustre.
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Questa descrizione ideale dell'operazione di Pasolini non ci vieta affatto di riconoscere, quando torniamo a scrutare la carne di Poesie a Casarsa, la presenza, anche qui, di elementi linguistici descrittivi e cromatici; se egli stesso, congedandosi dal volume, attira l'attenzione su vocaboli che in senso larghissimo diremmo onomatopeici - una sorta di nomenclatura dell'azione o del modo di essere, quali sono i conclamati tesori di ogni dialetto: Pasolini insiste sull'intraducibilità, tipico carattere dialettale,  mentre non s'è fatto che sottolineare l'interna traducibilità della lingua.  Altro che sfumature sottratte alla parlata corrente!  Pasolini è in quella sua lingua conclusa , sistematica,  quasi marmorea, che s'affranca senza lotta dai ritmi canonici delle abitudini paesane; e gli consente un descrittivismo semmai di linea e non di colore ( Il nìni muàrt , L'ingannata ) fino al pregevole quasi-parnassianismo di Per il "David" di Manzù. È la vera nobiltà di una lingua minore, come il rumeno o il catalano, nella chiarezza di contorno ( forse eccessiva per una grande lingua ) e nella sua stessa apparenza fonica, senza compromessi e sbavature grammaticali, di questa strofetta: << Tu sôs, David, còme il tòru in di d'Avrîl, - che ta lis mans d'un fi c'al rît,  - al va dóls a la muàrt >>. Questo è l'incanto minimo di Pasolini,  e non vuol dire che noi intendiamo seguirlo fino all'estremo opposto,  fino agli sforzi simbolici del poemetto La domenica uliva e alla violenza fatta al mondo dei morti per strapparne figure sensibili. Pioggia, una <<voce>> pascoliana ( ma che è,  conforme al narcissismo descritto,  del figlio, non della madre! ); e alla fine la <<ciâr, - ciâr di frutìn>> del figlio; tutto riconduce al mondo tracciato più  su, e precisamente a quel centro di ascesi dell'uomo sul proprio corpo che fa l'equilibrio del libretto.

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Non solo, dunque, << il timp  di mè  donzèl >> ( Altàir ), ma il corpo,  anzi, perché importa veramente la lettera, il  <<cuàrp>>, questa tenebrosa cosa portata sotto la chiara, evidenziante luce d'una lingua nuova.  Nelle Litanis dal bièl fi ( bièl fi, cioè un'altra accezione del solito sé oggetto d'amore; e qui è il peccatore infantile che ritorna,  innanzi non per nulla a uno specchio ): << 'I ciàli  il me cuàrp - di quànt ch'ieri frut >>, a contatto delle crepuscolari domeniche trascorse. Infatti, come a una rima a distanza a quel frut del tempo perduto, nella poesia a Dilio: << Tu jódis,  nìni,  tai nùstris cuàrps - la frès-cie rosàde - dal timp pierdût >>. E si aggiunga la << ciâr <<lutáde>> del David,  e il <<fantasùt>> di Pioggia sui confini, sul cui volto si mutano le stagioni: << tal tò  vis di róse e mêl - dut verdút 'a nàs il mèis >>, << tal tò  vis di sanc e fièl - dut sblanciàt 'a mûr il mèis >>.
Quanto a una traduzione qualunque di queste citazioni , ci rifiutiamo di fornirla: essa non è riuscita neppure all'autore; e poi rischieremmo di farle intendere come documenti psicologici,  mentre quello stesso che è in loro di sentimento dominante funziona rigorosamente entro l'equivalenza linguistica. D'altra parte si conceda una certa durata di digestione a questo friulano, che non è cibo di tutti i giorni; lasciate qualche margine allo stupore che uno <<stato d'animo>> à la page si sia rifugiato tra quegli s finali, quelle palatali,  quei dittonghi.

Gianfranco Contini




La fonte di tutto il materiale:  ARCHIWEB




Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

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