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lunedì 21 dicembre 2020

P.P.Pasolini - UN’AUTOBIOGRAFIA, FORSE…

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




UN’AUTOBIOGRAFIA, FORSE…

Sono nel corridoio della Scuola, c’è un frastuono assordante, un freddo umido e tetro. Le maestre non ci lasciano uscire perché nevica; escono solo coloro che sono attesi dai parenti. Ecco arriva mio zio, prende per una mano me, per l’altra Franca, e così avventuriamo per il piazzale coperto di neve. Intendiamoci: in me non c’era nessuna inconsapevolezza, la mia vita interiore si concatenava con la freddezza e la passione di ora; c’erano in me, l’ironia lo scetticismo, ecc. . Eppure la traversata di quella
piazza enorme e bianchissima, soffocata dal vento, equivale per me alla traversata della Baia di Hudson 
(cfr. E. Salgari, “Un’avventura al Polo”).
Secondo esempio: siamo nella cucina, presi da un’allegria natalizia fuori la neve è altissima. A un certo punto mia zia, mia madre e non so quali altre donne prendono una decisione che letteralmente mi travolge: vanno a fare alle pallate di neve. Nei loro volti c’è un riso una luce… dio mio, che finalmente mi si riveli il loro secondo aspetto (l’aspetto notturno?). esse vanno a giocare prese da quel misero entusiasmo che ora conosco bene; io resto nella cucina, eroicamente solo, colto dall’angoscia dell’esclusione. Ancora un passo indietro e giungo alle domeniche di mia madre fanciulla: l’immagine che conservo non è molto diversa, ma radicalmente mutata all’interno, imbevuta com’è di una luminosità più corporea, scialba e virile. I morti vivono in essa emozioni la cui rusticità paesana, tra antiquata ed epica, ha quella sicurezza scanzonata, quell’allegria brutale e quella severità esemplare che i giovani, non senza allegria, salgono
ammassare come una luce freschissima nella gioventù o aurora dei loro vecchi. Ad ogni modo questa serie di domeniche dietro a me, nella mia vita e oltre, è venuta a costituire una materia nelle cui fibre preziose si impastano i pesanti azzurri del cielo, i colori dei vestiti, le voci indecisi degli adolescenti, le botteghe invase dalla luce.

Rivedo una fotografia del ’29, in cui con un vestito a righe marrone e bianche, compaio sul balcone della Canonica, insieme a una trentina di fanciullini, miei compagni di classe. È straordinario, ancora non mi riesce di non commuovermi davanti al mio aspetto fiero, al mio ciuffo impudente, alla tenerezza di bronzo della mia carnagione; ancora non mi riesce di non pensare a quel Pier Paolo, come una specie di Telemaco o di Astianatte, ma già rotto alle avventure più seducenti. Eppure so assai bene cos’era quel ragazzino: era mitologicamente, qualcosa come un incrocio fra Catune e un piccolo Belachù.

Mia madre da giovane era bellissima. Piccola, fragile, aveva il collo bianco bianco e i capelli castani. Nei primi anni della mia vita ho di lei un ricordo quasi invisibile. Poi salta fuori improvvisamente verso i tre anni e da allora tutta la mia vita è stata impernia su di lei.

Mio padre era ufficiale di fanteria. Nei primi anni per me lui è stato più importante di mia madre. Era una presenza rassicurante, forte. Un vero padre affettuoso e protettivo. Poi improvvisamente, quando avevo circa tre anni, è scoppiato il conflitto. Da allora c’è sempre stata una tensione antagonista, drammatica, tragica tra me e lui.

Mio fratello è nato a Belluno quando avevo tre anni. Ricordo mia madre incinta e io che chiedevo: “Mamma, come nascono i bambini?” E lei, mitemente, dolcemente mi ha risposto:”Nascono dalla pancia della mamma”. Una cosa a cui allora però non ho voluto credere, naturalmente.

Quando mia madre stava per partorire ho cominciato a soffrire di bruciore agli occhi. Mio padre mi immobilizzava sul tavolo della cucina, mi apriva l’occhio con le dita e mi versava dentro il collirio. È da quel momento “simbolico” che ho cominciato a non amare più mio padre.

Con mio fratello litigavo, ma eravamo molto amici. Lui mi ammirava perché a scuola avevo la media dell’otto. Perché ero più grande, più forte. Andavamo a fare a sassate con gli altri ragazzi. Una volta a Idria (quarta elementare ) abbiamo avuto l’idea di farci costruire dei scudi di metallo dal fabbro del reggimento. Quello scudo è stato una delle più grandi gioie della mia vita. Quando i ragazzi della banda nemica hanno cominciato a tirare sassi, noi ci siamo lanciati in avanti, protetti dagli scudi, come un esercito di troiani all’assalto. Tutti sono rimasti travolti dall’ammirazione. Quell’anno il dispiacere più grosso è stato il maestro, il maestro Cravatta. Aveva una grande antipatia per me e io non capivo perché. Forse ero diventato un po’ troppo Pierino.

Alla quinta elementare è successo un fatto inaudito. Sono stato bocciato in italiano scritto. Hanno accusato il mio tema di essere troppo poetico.

Leggevo i libri di avventure. Mi ricordo la storia di un cow-boy che si chiamava Morning Star, stella del mattino. Un giovanotto dritto, coi calzoni di pelle e il fazzoletto rosso al collo. E poi Salgari, tutto Salgari.

Fu a Belluno, avevo poco più di tre anni. Dei ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte a casa mia, più di ogni altra cosa mi colpirono le gambe soprattutto nella parte convessa interna al ginocchio, dove piegandosi correndo si tendono i nervi con un gesto elegante e violento. Vedevo in quei nervi scattanti un simbolo della vita che dovevo ancora raggiungere: mi rappresentavo l’essere grande in quel gesto di giovinetto corrente. Ora so che era un sentimento acutamente sessuale. Se lo riprovo sento con esattezza dentro le viscere l’intenerimento, l’accoratezza e la violenza del desiderio. Era il senso dell’irraggiungibile, del carnale – un senso per cui non è stato ancora inventato un nome -. Io lo inventai allora e fu “teta veleta”. Già nel vedere quelle gambe piegate nella furia del gioco mi dissi che provavo “teta veleta”, qualcosa come un solletico, una seduzione, un’umiliazione.

La mia infanzia finisce a tredici anni. Come per tutti: tredici anni è la vecchiaia dell’infanzia, momento perciò di grande saggezza. 

Era un momento felice della mia vita. Ero stato il più bravo a scuola. Cominciava l’estate del ’34. finiva un periodo della mia vita, concludevo un esperienza ed ero pronto a cominciarne un’altra.

Quei giorni che hanno preceduto l’estate del ’34 sono stati tra i giorni più belli e gloriosi della mia vita.

Ho venticinque anni… il mio aspetto continua ad essere quello di un adolescente… se la mia eterna adolescenza è una malattia, è invero una malattia assai lieta. Il lato odioso di essa è il suo rovescio, cioè la mia contemporanea vecchiaia. In altri termini l’avidità con cui, in qualità di giovinetto, divoro le ore dedicate alla mia esistenza così che portandomi dietro tutto il mio tenero e lucente bagaglio di gioventù sono entrato in uno stato di precoce esperienza e quindi di indifferenza. Un giorno mi dicevo che tutti gli uomini hanno davanti a sé un’uguale quantità di vita, e che quindi, poiché io ne divoro con maggiore avidità di una parte degli altri, stava nella logica dei fatti che io dovessi morire assai giovane.

Questa punizione si è forse avverata, solo non nel corpo della cronologia, ma nel suo sistema: la presente indifferenza dovuta a quella operazione che distrugge se stessa e la vita; l’esperienza mi dà un specie di morte: e io, in effetti sono assai giovane. Siamo nel 1947: era questo l’anno in cui la natura, avrebbe perso per me il suo valore. Adesso sono seduto sul greto del Tagliamento per l’ennesima volta; ecco le vene di sabbia lungo le interminabili prospettive di ghiaia, che risalendo, contro un orizzonte tinto di un azzurro torbido, vanno a lambire il cielo. Ecco qui intorno a me, la proda con la sua erba stecchita; la sua polvere, i suoi pioppi…
Tutto questo non è sufficientemente misterioso per sedurmi ancora.





Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi


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