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martedì 9 febbraio 2016

Pasolini corsaro - di Pasquale Colizzi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




 
Pasolini corsaro
di Pasquale Colizzi
da "Pier Paolo Pasolini. Tracce e voci"
speciale l'Unità novembre 2005

.

La mia è una visione apocalittica.
Ma se accanto ad essa e all'angoscia
che la produce, non vi fosse in me anche

un elemento di ottimismo, il pensiero cioè
che esiste la possibilità di lottare
contro tutto questo, semplicemente

non sarei qui, tra voi, a parlare.
Pier Paolo Pasolini, Festa dell'Unità, estate 1974, Milano

.


Polemista civile e politico di grande profondità, molto letto e criticato dall'intellighenzia, Pier Paolo Pasolini ebbe sempre un occhio alle persone semplici e l'altro alla vita politica del paese. Negli "Scritti corsari" e nelle "Lettere luterane", più che in altre opere, dove affrontò i temi dell'attualità ed ebbe la possibilità di commentare, rispondere, polemizzare su questioni specifiche, rivelò tutta la qualità "profetica" di molte sue tesi.

Come ha notato Alfonso Berardinelli, in quegli anni, scrivendo su giornali e riviste (soprattutto Il Corriere della Sera, il Tempo e il Mondo), sentiva di aver recuperato uno spazio perduto, per parlare del presente e futuro della società italiana, della fine irreversibile di una storia secolare e della sua classe dirigente. In una posizione anomala rispetto agli schieramenti del tempo, come intellettuale si pose sempre di traverso, tentando di provocare dubbi, di sconvolgere le certezze.
Spesso si rivolgeva direttamene al Palazzo. Coniò questo termine, che usò poi in tante occasioni, dopo aver letto l'Espresso (ma poteva essere qualsiasi altra rivista o giornale). Agosto '75, Ostia: "infuria la balneazione", scrive nella sua Lettera luterana e si chiede: "Come è diversa da me questa gente che scrive delle cose che interessano anche a me. Ma dov'è, dove vive?". Un interrogativo improvviso e una risposta si materializza: "Essa vive nel Palazzo". "Ormai è serio parlare soltanto dei loro intrighi, delle alleanze, delle congiure. Tutto il resto diventa minutaglia, brulichio, seconda scelta". I politici avevano iniziato ad esercitare un potere autoreferenziale e con loro, isolati dalla "cronaca", da ciò che accade nella realtà, gli intellettuali. "Certo" riconosce Pasolini "sono stati sempre cortigiani (...) di Palazzo. Ma sono stati anche populisti, neorealisti e addirittura rivoluzionari estremisti. Cosa che aveva creato in essi l'obbligo di occuparsi della "gente". Ora, se della "gente si occupano, ciò avviene sempre attraverso le statistiche (...) ".
Nasce così, venti giorni dopo sulle pagine del Mondo (e prosegue in diversi episodi sul Corriere), il suo atto d'accusa senza appello al potere politico di allora: la lettera luterana intitolata Bisognerebbe processare i gerarchi dc. Pasolini parte citando un aneddoto a suo modo ridicolo: Fanfani, lamentandosi di un suo protetto ingrato, racconta di quando questo ha gettato la giacca ai suoi piedi pur di ottenere un incarico ministeriale. Che poi gli è stata concesso.
"Davanti a questa confessione impudente nessuno si è scomposto" perché in sostanza tutto il mondo politico italiano è pronto ad accettare la continuità del potere democristiano, lo status quo. Per inciso, ricorda, il 10 marzo l'Espresso aveva pubblicato una telefonata tra Fanfani e Andreotti: si minacciavano a vicenda di rivelare finanziamenti e fatti poco chiari. Pasolini incredulo si chiede: "Possibile che nessun magistrato abbia la curiosità di in indagare?". Non si riesce a leggere nel complesso la degradazione e il deterioramento della realtà italiana: "nel Palazzo le dinamiche del potere si svolgono dentro compartimenti stagni (con nuovi poteri economici così forti da scavalcarle) mentre fuori cinquanta milioni di abitanti stanno subendo la più profonda mutazione culturale della loro storia".
Restano il Psi e il Pci, "due forze che hanno ancora "una interpretazione altra della realtà" (nel migliore dei casi) ma non ne fanno uso". A loro toccherebbe "processare Andreotti, Fanfani, Rumor e una mezza dozzina di potentati democristiani (compreso per correttezza qualche presidente della Repubblica) come Nixon anzi no, come è stato per Papadopulos".
Segnerebbe la fine di un periodo di "potere gestito in maniera chierico-fascista, sostanzialmente una continuità con il regime del ventennio". I capi d'accusa: "indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con petrolieri, banchieri, mafiosi, distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, uso illegale dei servizi segreti e collaborazione con la Cia, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (anche soltanto per incapacità di punirne gli esecutori)".
E ancora: "responsabilità per la condizione disastrosa di scuole e ospedali e della delittuosa stupidità della televisione, del decadimento della Chiesa". Gli italiani hanno il diritto di sapere "tutte queste cose insieme" e conoscerne i responsabili. Pasolini non si spiega se esista una "vocazione" a governare, come quella di scrivere o dipingere: "esiste però una responsabilità, e di questa bisogna rispondere". E nota: perchè tutti i processi sui diversi misteri italiani (tentativi di golpe, stragi, ecc.) "sono fermi come un cimitero? (...) Perchè porterebbero al Processo di cui parlo io".
Donat Cattin, allora ministro dell'Industria, batte un colpo. Ed è un boomerang. Risponde con un'intervista sul Mondo. Tenta di passare per quello onesto: "a Gioia Tauro ci furono intrallazzi, l'ho denunciato ad un settimanale ma hanno rifiutato di pubblicarlo perchè erano coinvolti socialisti". "Nella realtà", scrive Pasolini in una Lettera intitolata "Processo anche a Donat Cattin "un ministro che ha queste carte va da un magistrato non da un giornalista". Dalle parole del politico Pasolini ricava la sensazione "dell'uomo cui arrivi una lettera anonima sul tradimento della moglie". La pochezza del politico e la spazzatura sotto il tappeto della dc si disvela tra le righe.
Ma nel suo percorso di analisi, la condanna di un'intera classe politica e la richiesta di voltare pagina e far pagare i responsabili si giustifica, veemente, dopo che alla fine del '74 Pasolini pubblica sul Corriere un articolo di grande impatto. "Che cos'è questo golpe" diviene nei Corsari "Il romanzo delle stragi".
Con un effetto anche poetico di reiterazione del primo "Io so", l'intellettuale dichiara di conoscere "i responsabili di una serie di golpes istituiti a sistema di protezione del potere, (...) della strage di Milano del 12 dicembre 1969, di Brescia e Bologna dei primi mesi del 1974, (...) dei vecchi fascisti ideatori di golpes, dei neofascisti autori materiali delle stragi, (...) di chi ha gestito le opposte fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974), (...) i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della CIA (e in second'ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968 e in seguito (...) si sono ricostruiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum, (...) i nomi di coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato disposizioni e assicurato protezione politica, (...) di personaggi comici come il generale Miceli (...).
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (...) ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire ciò che succede (...) di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani (...), che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero".
Se queste cose non vengono dette da chi le sa, giornalisti e politici, allora deve farlo un intellettuale "non compromesso nella pratica del potere e che non ha, per definizione, niente da perdere". Certo esiste anche una grande opposizione al potere, "un paese separato (...) che è la salvezza dell'Italia: il Partito comunista (...) un paese pulito in uno sporco, onesto in un paese disonesto, intelligente rispetto ad uno idiota, colto in un paese ignorante, umanistico in un paese consumistico".
Pasolini si chiede: "Ma perché se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi non fanno i nomi (...)?". Ebbene, proprio per questo "io non posso non pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana (...), io che credo alla politica, alla democrazia e i partiti, (...) attraverso la mia particolare ottica che è quella comunista".
"Qualcosa è accaduto una decina di anni fa. Lo chiamerò la scomparsa delle lucciole". Procedere per immagini poetiche è stata una delle caratteristiche del Pasolini saggista. Nel Corsaro del 1° febbraio del '75 delinea un prima, un durante e un dopo la scomparsa delle lucciole, a scandire i tempi della decadenza della classe politica democristiana, sorpassata da un fenomeno che non ha capito in tempo: "Il potere consumistico e la sua ideologia edonistica, (...) che ha imposto cambiamenti radicali fino ad accettare il divorzio e, potenzialmente tutto il resto, senza più limiti". "In Italia c'è un drammatico vuoto di potere. (...) Il potere reale procede senza di loro. (...) I democristiani coprono con manovre da automi e i loro sorrisi, il vuoto". "Prima della scomparsa (...) la continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è stata completa (...), con una maggioranza assoluta ottenuta attraverso ceti medi e masse contadine gestiti dal Vaticano. (...) I valori che contavano erano gli stessi: la Chiesa, la patria, la famiglia, l'obbedienza, la moralità. (...) Uguali nel provincialismo, rozzezza, ignoranza sia delle élites che delle masse". Dopo la scomparsa "questi valori nazionalizzati e quindi falsificati non contano più (...) sostituiti da 'valori' di un nuovo tipo di società (...) che poi ha prodotto la prima 'unificazione' reale del paese". "Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così (...) sono divenuti un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale". Ecco, di fronte "a questo disastro ecologico, economico, urbanistico, antropologico (...) quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) - chiosa Pasolini - sia chiaro: io, ancorchè multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola".
L'analisi dell'evoluzione politica portata dal potere dirompente del consumismo ha il suo rovescio della medaglia tra gli italiani. Pasolini con passione, da tempo, illustra la sua critica alla modernizzazione, si potrebbe dire "a quel tipo" di modernizzazione. Nei Corsari è ripreso il famoso intervento alla Festa dell'Unità di Milano (estate del '74) che qui titola "Genocidio", perchè "senza carneficine o fucilazioni di massa, la distruzione di valori della società italiana porta alla soppressione di larghe zone della società stessa (...) quelle che vengono assimilate al modo di vita della borghesia". Come? Per esempio: "Un tipo di edonismo interclassista impone ai giovani di adeguarsi nel comportamento, nel vestire, nell'agire o nel gestire a ciò che vedono nella pubblicità che si riferisce, quasi razzisticamente, al modo di vita piccolo borghese (...) creando ansie e frustrazione in un giovane povero (...) che non può realizzare questo modello (...)". Ma perchè è accaduto? "A un certo punto il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto consumatore (...)". Ma il nodo sta nella "scissione che la classe dominante ha fatto tra sviluppo e progresso. "Si può concepire lo sviluppo senza il progresso, cosa mostruosa che viviamo in due terzi dell'Italia". Alla classe dominante interessa soltanto lo sviluppo, perché solo da lì trae profitto. Ma l'acuto osservatore disse di più: citò un discorso del prof. Cefis ai ragazzi dell'Accademia di Modena nel quale parlava di "un tipo di sviluppo come potere transnazionale o multinazionale, fondato su un esercizio non nazionale, tecnologicamente avanzatissimo ma estraneo alla realtà del proprio paese".
In mezzo a tutto questo non sfugge come sia centrale, nella visione pasoliniana della vita, il senso del sacro. Si trovò a scrivere in uno dei suoi fondi sul Corriere riportato nei Corsari: "Sono sempre più scandalizzato dall'assenza di senso del sacro nei miei contemporanei. (...) Uno dei luoghi comuni degli intellettuali progressisti è la desacralizzazione di tutto, e lo fanno contro i padri, spianando la pista di atterraggio al consumismo, sostituendo valori ad immagini del benessere".
Ma il suo era "un sacro "eretico", e la battaglia, che credevo sostenuta dai compagni di sinistra, persa". Da qui nacque l'abiura della "Trilogia della vita" (i suoi tre film: "Decameron", "I racconti di Canterbury" e "Il fiore delle mille e una notte") nella Lettera luterana del giugno '75: senza disconoscerne il valore e la paternità, Pasolini non può tacere che "quelle opere erano inserite nel disegno di lotta per la liberazione sessuale, (...) cioè il "diritto di esprimersi" attraverso l'arcaica violenza dei corpi e dei loro organi sessuali. Ma da tempo, ormai, la lotta progressista era stata vanificata per la decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. (...) Così la liberazione, invece di portare felicità e leggerezza, ha reso i giovani infelici, chiusi e di conseguenza stupidamente presuntuosi e aggressivi".
Strettamente collegata quindi appare la sua posizione su coito e aborto. Con un titolo che fece discutere ("Sono contro l'aborto", Corriere, gennaio '75) l'intellettuale intervenne di prepotenza sul tema allora attualissimo dei referendum proposti dai radicali. Inizia precisando: "Io sono per gli otto referendum (...) ma sono traumatizzato dalla legalizzazione dell'aborto, perchè la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio". "I radicali e gli altri progressisti che si battono in prima linea (...) lo riducono ad una pura praticità, da affrontare appunto con spirito pratico. Ma ciò (come essi sanno) è sempre colpevole". Il problema, secondo Pasolini, va affrontato a monte ed è costituito dal coito: "La libertà sessuale della maggioranza in realtà è una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un'ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità della vita del consumatore". È il nuovo potere consumistico che spinge quindi: "non gli interessa la coppia creatrice di prole (proletaria) ma una coppia consumatrice (piccolo borghese)". La vera liberazione sessuale dovrebbe riguardare quindi il coito: "anticoncezionali, pillole, tecniche amatorie diverse, una moderna morale dell'onore sessuale ecc. Basterebbe che tutto ciò fosse democraticamente diffuso dalla stampa e soprattutto dalla televisione e il problema dell'aborto verrebbe vanificato". "Tutto ciò è utopistico?".
Pasolini, come si trovò a scrivere, amava "coltivare l'atrocità del dubbio". Se è stato scomodo, provocatorio, mai conciliante, lo ha fatto per combattere i luoghi comuni, per accendere la ragione, lasciarla libera. Del resto Sciascia, che lo apprezzò come intellettuale, in sostanza gli riconobbe un'integrità che significa anche dover accettare il personaggio senza buttare via nulla: "Pasolini può contraddirsi, può sbagliare ma ragiona con una libertà che oggi (era il '74, ndr) pochi sono capaci di avere". Anzi la contraddizione in lui era una risorsa, non una paralisi.
Come l'omosessualità, "questa diversità che mi fece stupendo" come aveva scritto, che era vissuta come una sorta di accesso privilegiato in luoghi e circostanze negate alla borghesia. Di questo tabù per gli intellettuali di sinistra (fatta salva soltanto la stagione durata un anno del 1968), di questo male assoluto per i pensatori di destra Pasolini seppe coraggiosamente parlare. Sui Corsari si chiedeva "come mai in Italia nemmeno si affronti il problema, lo si rimuova mentre in Francia è uscito per esempio un libro di Daniel Baudry". E innescò una grande discussione commentando il modo scandalizzato in cui i giornali di entrambi gli schieramenti avevano trattato la notizia di un quindicenne di Milano arrestato per furto, messo per errore in un carcere di adulti, che per difendersi da due carcerati che volevano approfittare di lui ha dovuto sopportare la loro reazione violenta. "Posto che l'atto è abbietto", Pasolini si rende conto che ormai "la tolleranza del potere in campo sessuale era univoca ed eterosessuale". Ma soprattutto era conscio che "la cosa peggiore che poteva accadere era quella riassunta nel suicidio del protagonista omosessuale nel "Libro bianco" di Jean Cocteau: aveva capito che era intollerabile, per un uomo, l'essere tollerato".
Nelle ultime tre Lettere luterane, scritte a ridosso del 2 novembre del '75, quando fu ritrovato morto, Pasolini si serve della discussione intorno al delitto del Circeo per lanciare due proposte "per eliminare la criminalità in Italia bisogna (...) abolire immediatamente la scuola dell'obbligo e la televisione". "La scuola dell'obbligo è un'iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano cose inutili, false, stupide, moralistiche. (...) Senza la proiezione nel futuro di una reale cultura storica (...) le nozioni marciscono, nascono morte. (...) È meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo". "Quanto poi alla televisione non voglio spendere ulteriori parole: ciò che ho detto a proposito della scuola dell'obbligo va moltiplicato all'infinito". "Ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non sono serviti a nulla: la scuola e il video sono autoritari perchè statali". Poi la sua immagine poetica: "Un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare un proprio modello di vita".
L'ultima Lettera luterana (il Mondo, 30 ottobre '75), fu scritta in risposta a Italo Calvino e si pone nel paesaggio delineato dall'osservatore e indagatore Pasolini come l'ultima profezia, quella "avveratasi". Perché è noto che tra l'orrendo crimine commesso da Angelo Izzo e gli amici al Circeo e la fine violenta, in mezzo al fango, del poeta Pasolini, ci sono anche le immagini appena finite di girare di "Salò o le 120 giornate di Sodoma". Nelle quali il Potere assoluto, senza più maschere, nel suo aspetto più violento, trascina i corpi di giovani ragazzi nei gironi dell'Inferno. Come il corpo del poeta, orrendamente sfregiato, riverso nel fango, rinvenuto all'alba del 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia.
 


Curatore, Bruno Esposito

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