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lunedì 28 dicembre 2020

Leonardo Sciascia - Il Salò di Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



 
Il rapporto di stima e di amicizia tra Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini risale ai primi anni Cinquanta, quando l’uno e l’altro erano parimenti ignoti al grande pubblico. Il poeta friulano recensì su una rivista romana “La libertà” il primo libro del maestro di Racalmuto, le Favole della dittatura.
“Dieci anni fa queste favolette sarebbero servite unicamente a mandare al confino il loro autore. Quanti italiani sarebbero stati in grado di capirle? Adesso, con un fondo di amarezza tutta scontata, Sciascia condanna, nel ricordo, quei tempi di abiezione, e proprio con un gusto della forma chiusa, fissa, quasi ermetica, insomma: che a quei tempi era proprio uno dei rari modi di passiva resistenza”.
P.P.Pasolini 

 … da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all'antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali (l'ultimo nell'atrio dell'albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per Le mille e una notte). Ma io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi.
C'era però come un'ombra tra noi, ed era l'ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto -come dire? - razzista nei riguardi dell'omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero — e lo dico senza vantarmene, dolorosamente - la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, detto le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua.
E voglio ancora dire una cosa, al di là dell'angoscioso fatto personale: la sua morte - quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori — io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell'ultimo numero del «Mondo», una lettera a Italo Calvino.

Da Nero su nero, Einaudi, 1980


*****
 

Leonardo Sciascia
Il Salò di Pasolini

 

[...] Ho visto una volta, per cinque minuti, un film pornografico. A differenza di Catone nell’epigramma di Marziale (tradotto da Concetto Marchesi: “Tu conoscevi il dolce rito della giocosa Flora /e l’allegria della festa e la libertà della gente / E allora perché sei venuto al teatro, o severo Catone? / O sei venuto solo per questo: per uscirne?”), non sapevo quali sarebbero state le mie reazioni di fronte a un simile spettacolo. Presumevo anzi mi sarebbe piaciuto, piacendomi la letteratura erotica e libertina. Mi sono invece trovato davanti a dei corpi umani ridotti a pura e triste meccanica e ho fatto l’immediata constatazione che di pornografico, in un film pornografico, ci sono soltanto gli spettatori. Se fossi rimasto oltre, mi sarei molto annoiato e un po’ vergognato.

Giorni addietro, a Roma, vedendo l’ultimo film di Pasolini mi sono trovato in una condizione del tutto diversa. Questo per dire subito che se sono arrivato a sperare che questo film lo vedano in pochi, ci sono arrivato da ben altra parte. Mentre le immagini scorrevano sullo schermo, non mi sono sentito pornografo ma vittima. Vittima del dovere di vederlo, vittima dell’attenzione con cui ho sempre seguito Pasolini, vittima - perché non dirlo? - del mio cristiano amore per lui, di un amore che forse sfiora il concetto - cristiano e cattolico - della reversibilità. Ho sofferto maledettamente, durante la proiezione. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a non chiudere gli occhi, davanti a certe scene: e nel buio diciamo fisico che si faceva in me, precario conforto a quell’altro, morale e intellettuale, che dilagava dallo schermo, disperatamente e come annaspando, cercavo nella memoria immagini d’amore. Poi venne, da una delle vittime, da una di quelle che anche nelle didascalie iniziali, coi loro nomi anagrafici, sono definite vittime - venne l’invocazione- chiave, l’invocazione che spiegò il senso del film e l’impressione che produceva in me: “Dio, perché ci hai abbandonati?”. Lo stesso grido di Cristo nel Vangelo di Marco: “Eloi, Eloi, lama sabactani?”. A questo punto, a spezzare provvidenzialmente l’effetto del film, mi affiorò il ricordo di una battuta di Jean Paulhan quando testimoniando a favore di Jean-Jacques Pauvert, imputato per la ristampa delle opere di Sade che veniva facedo, alla domanda del giudice: “Dunque lei non crede che le opere di Sade siano pericolose?”, aveva risposto: “Pericolosissime: conosco una ragazza che dopo averle lette si è fatta monaca”. Questa battuta, meno paradossale di quanto sarà parsa al giudice (nella migliore delle ipotesi: che è possibile l’abbia intesa a carico invece che a discarico di Pauvert), veniva a porre la questione del film di Pasolini in rapporto alla censura, e il problema stesso della censura, nei termini più esatti e più giusti. Il film di Pasolini è senza dubbio importante: importante come conclusione della sua autobiografia, importante per chi come me sente il bisogno di ricostruire la sua vita, di spiegarsela, di capirla con umiltà e insieme con pietà; di capire la sua scelta, di capire il suo “suicidio”. Ma a che serve, per la generalità degli spettatori; a che serve per le masse che lo consumeranno? Lasciando da parte i pochissimi che a vederlo possono sentirsi insorgere delle latenti perversioni o trovare una forma di appagamento a quelle coscienti, i più non ne avranno che nausea e dolore: e o sentiranno l’impulso di ripagare con la violenza tanta violenza (magari sfasciando il cinema) o sentiranno tanta disperazione e dannazione da trovarsi ad invocare Dio come nel film la vittima, come la ragazza di cui dice Paulhan che si è fatta monaca dopo aver letto Sade. Ora, decisamente, tanto per stare alla battuta di Paulhan, è appunto questo che non vogliamo: che le ragazze si facciano monache.

Facendo il film che ha fatto, Pasolini ci ha avvertito di questo pericolo. E anche morendo come è morto: di una morte in cui gli elementi “libertari” sono sovrastati e annichiliti dagli elementi “cattolici”. Ma noi dobbiamo difendercene. E non dico noi per questa società, questo Stato, tutto quello che Vittorini chiamerebbe morte e putredine - che hanno se mai non il diritto di difendersi ma il dovere di dissolversi; ma noi che ormai sappiamo quello che siamo e quello che vogliamo: anche se stretti tra le delusioni storiche nuove e le tentazioni metafisiche vecchie.
 
Di Leonardo Sciascia
(Rinascita, n. 49, 12 dicembre 1975)
 


  

Curatore, Bruno Esposito

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