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Le pagine corsare - Riflessioni su "Processo alla DC"

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giovedì 25 febbraio 2016

Pier Paolo Pasolini - La Napoletanità

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

"
 
 
 
La Napoletanità
 
 
Napoli è stata una grande capitale, centro di una particolare civiltà ecc. ecc.; ma strano, ciò che conta non è questo. Io non so se gli «esclusi dal potere» napoletani preesistessero, così come sono, al potere, o ne siano un effetto. Cioè, non so se tutti i poteri che si sono susseguiti a Napoli, così stranamente simili tra loro, siano stati condizionati dalla plebe napoletana o l'abbiano prodotta. Certamente c'è una risposta a questo problema; basta leggere la storia napoletana, non da dilettanti o casualmente, ma con onestà scientifica. Questo io finora non l'ho fatto, perché non mi si è presentata l'occasione, o forse perché non mi interessa. Ciò che si ama tende a imporsi come antologico.

Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. 

Questa tribù ha deciso - in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte - di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità.

La stessa cosa fanno nel deserto i Tuareg o nella savana i Beja (o fanno anche, da secoli, gli zingari}: è un rifiuto, sorto dal cuore della collettività (si sa anche di suicidi collettivi di mandrie di animali); una negazione fatale contro cui non c'è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perché questo rifiuto, questa negazione alla storia, è  giusto, e sacrosanto. 

La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi vichi, nelle sue piazzette nere o rosa, continua come se nulla fosse successo, a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi. a ridere, a gridare, a sfottere; nel frattempo, e per trasferimenti imposti in altri quartieri (per esempio il quartiere Traiano) o per il diffondersi di un certo irrisorio benessere (era fatale!), tale tribù sta diventando altra. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno, quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati) . l napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all'ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili.

Dichiarazione del 1971,
in A. Ghirelli, La Napoletanità,
Società Editrice Napoletana,
Napoli 1976.

Saggi sparsi, in Saggi sulla politica e sulla società
i Meridiani a cura di Walter Siti
Mondadori.



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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martedì 23 febbraio 2016

Le mura di Sana'a, di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 (Le immagini utilizzate per questa composizione sono di Roberto Villa).

 
"In nome degli uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri".

"In nome della grazia dei secoli oscuri".

"In nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato".
 
  
Un uomo sta su un altare in mezzo al campo e schiocca una frusta, tiene lontani i passeri che vogliono saccheggiare il raccolto. In questa immagine d’apertura delle "Mura di Sana’a", nella figura di questo spaventapasseri vivente a cui il documentario è dedicato, è racchiuso il messaggio del filmato del 1971. Con gli scarti di pellicola che gli sono rimasti Pier Paolo Pasolini fotografa la corruzione della modernità che sta intaccando il Medioevo che si è miracolosamente salvato nella capitale dello Yemen.

 

Le mura di Sana'a.



“Era l'ultima domenica che passavamo a Sana'a, capitale dello Yemen del Nord. Avevo un po' di pellicola avanzata dalle riprese del film. Teoricamente non avrei dovuto possedere l'energia per mettermi a fare anche questo documentario; e neanche la forza fisica, che è il requisito minimo. Invece energia e forza fisica mi son bastate, o perlomeno le ho fatte bastare.

Ci tenevo troppo a girare questo documento.

“Si tratterà forse di una deformazione professionale, ma i problemi di Sana'a li sentivo come problemi miei. La deturpazione che come una lebbra la sta invadendo, mi feriva come un dolore, una rabbia, un senso di impotenza e nel tempo stesso un febbrile desiderio di far qualcosa, da cui sono stato perentoriamente costretto a filmare [...] Ma è chiaro che se volessi veramente ottenere qualcosa, dovrei dedicare a questo scopo la mia intera vita. Son cose che qualche volta si pensano ma poi non si fanno. Frustrazione terribile, ma consolata dal pensiero che ci sono persone che, in realtà, per mestiere dovrebbero occuparsi di questi problemi e che dunque la responsabilità è dovuta a loro [...] “Ma intanto ogni giorno che passa è un pezzo delle mura di Sana'a che crolla o vien nascosto da una catapecchia 'moderna'. [...] È uno dei miei sogni occuparmi di salvare Sana'a ed altre città, i loro centri storici: per questo sogno mi batterò, cercherò che intervenga l'Unesco”.

P.P.Pasolini


Per contribuire alla difesa dello Yemen Pasolini realizzò nel 1970 il cortometraggio Le mura di Sana’a, documentario in forma di appello all’ Unesco.

Il filmato non è mai uscito nei circuiti commerciali; è stato trasmesso dalla Rai il 16 febbraio 1971 e replicato nel 1997". 

Girò inoltre in Yemen alcuni dei suoi momenti cinematografici più alti  come ad esempio Il fiore delle Mille e una notte.


 
L'appello


«Ci rivolgiamo all’Unesco perché aiuti lo Yemen a salvarsi dalla sua distruzione, cominciata con la distruzione delle mura di Sana’a. 

Ci rivolgiamo all’Unesco perché aiuti lo Yemen ad avere coscienza della sua identità e del paese prezioso che esso è. 

Ci rivolgiamo all’Unesco perché contribuisca a fermare una miseranda speculazione in un paese dove nessuno la denuncia. 

 Ci rivolgiamo all’Unesco perché trovi la possibilità di dare a questa nuova nazione la coscienza di essere un bene comune dell’umanità, e di dover proteggersi per restarlo.

 Ci rivolgiamo all’Unesco perché intervenga finché è in tempo a convincere una ancora ingenua classe dirigente che la sola ricchezza dello Yemen è la sua bellezza; che conservare tale bellezza significa oltretutto possedere una risorsa economica che non costa nulla, e che lo Yemen è in tempo a non commettere gli errori commessi dagli altri paesi.

 Ci rivolgiamo all’Unesco in nome della vera se pur ancora inespressa volontà del popolo yemenita, in nome degli uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri, in nome della grazia dei secoli oscuri, in nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato».

P.P.Pasolini 

(Solo nel 1986 la capitale dello Yemen è stata dichiarata dall'Unesco Patrimonio dell'umanità).
 
Il Video:
 

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Curatore, Bruno Esposito

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martedì 9 febbraio 2016

Pasolini corsaro - di Pasquale Colizzi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




 
Pasolini corsaro
di Pasquale Colizzi
da "Pier Paolo Pasolini. Tracce e voci"
speciale l'Unità novembre 2005

.

La mia è una visione apocalittica.
Ma se accanto ad essa e all'angoscia
che la produce, non vi fosse in me anche

un elemento di ottimismo, il pensiero cioè
che esiste la possibilità di lottare
contro tutto questo, semplicemente

non sarei qui, tra voi, a parlare.
Pier Paolo Pasolini, Festa dell'Unità, estate 1974, Milano

.


Polemista civile e politico di grande profondità, molto letto e criticato dall'intellighenzia, Pier Paolo Pasolini ebbe sempre un occhio alle persone semplici e l'altro alla vita politica del paese. Negli "Scritti corsari" e nelle "Lettere luterane", più che in altre opere, dove affrontò i temi dell'attualità ed ebbe la possibilità di commentare, rispondere, polemizzare su questioni specifiche, rivelò tutta la qualità "profetica" di molte sue tesi.

Come ha notato Alfonso Berardinelli, in quegli anni, scrivendo su giornali e riviste (soprattutto Il Corriere della Sera, il Tempo e il Mondo), sentiva di aver recuperato uno spazio perduto, per parlare del presente e futuro della società italiana, della fine irreversibile di una storia secolare e della sua classe dirigente. In una posizione anomala rispetto agli schieramenti del tempo, come intellettuale si pose sempre di traverso, tentando di provocare dubbi, di sconvolgere le certezze.
Spesso si rivolgeva direttamene al Palazzo. Coniò questo termine, che usò poi in tante occasioni, dopo aver letto l'Espresso (ma poteva essere qualsiasi altra rivista o giornale). Agosto '75, Ostia: "infuria la balneazione", scrive nella sua Lettera luterana e si chiede: "Come è diversa da me questa gente che scrive delle cose che interessano anche a me. Ma dov'è, dove vive?". Un interrogativo improvviso e una risposta si materializza: "Essa vive nel Palazzo". "Ormai è serio parlare soltanto dei loro intrighi, delle alleanze, delle congiure. Tutto il resto diventa minutaglia, brulichio, seconda scelta". I politici avevano iniziato ad esercitare un potere autoreferenziale e con loro, isolati dalla "cronaca", da ciò che accade nella realtà, gli intellettuali. "Certo" riconosce Pasolini "sono stati sempre cortigiani (...) di Palazzo. Ma sono stati anche populisti, neorealisti e addirittura rivoluzionari estremisti. Cosa che aveva creato in essi l'obbligo di occuparsi della "gente". Ora, se della "gente si occupano, ciò avviene sempre attraverso le statistiche (...) ".
Nasce così, venti giorni dopo sulle pagine del Mondo (e prosegue in diversi episodi sul Corriere), il suo atto d'accusa senza appello al potere politico di allora: la lettera luterana intitolata Bisognerebbe processare i gerarchi dc. Pasolini parte citando un aneddoto a suo modo ridicolo: Fanfani, lamentandosi di un suo protetto ingrato, racconta di quando questo ha gettato la giacca ai suoi piedi pur di ottenere un incarico ministeriale. Che poi gli è stata concesso.
"Davanti a questa confessione impudente nessuno si è scomposto" perché in sostanza tutto il mondo politico italiano è pronto ad accettare la continuità del potere democristiano, lo status quo. Per inciso, ricorda, il 10 marzo l'Espresso aveva pubblicato una telefonata tra Fanfani e Andreotti: si minacciavano a vicenda di rivelare finanziamenti e fatti poco chiari. Pasolini incredulo si chiede: "Possibile che nessun magistrato abbia la curiosità di in indagare?". Non si riesce a leggere nel complesso la degradazione e il deterioramento della realtà italiana: "nel Palazzo le dinamiche del potere si svolgono dentro compartimenti stagni (con nuovi poteri economici così forti da scavalcarle) mentre fuori cinquanta milioni di abitanti stanno subendo la più profonda mutazione culturale della loro storia".
Restano il Psi e il Pci, "due forze che hanno ancora "una interpretazione altra della realtà" (nel migliore dei casi) ma non ne fanno uso". A loro toccherebbe "processare Andreotti, Fanfani, Rumor e una mezza dozzina di potentati democristiani (compreso per correttezza qualche presidente della Repubblica) come Nixon anzi no, come è stato per Papadopulos".
Segnerebbe la fine di un periodo di "potere gestito in maniera chierico-fascista, sostanzialmente una continuità con il regime del ventennio". I capi d'accusa: "indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con petrolieri, banchieri, mafiosi, distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, uso illegale dei servizi segreti e collaborazione con la Cia, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (anche soltanto per incapacità di punirne gli esecutori)".
E ancora: "responsabilità per la condizione disastrosa di scuole e ospedali e della delittuosa stupidità della televisione, del decadimento della Chiesa". Gli italiani hanno il diritto di sapere "tutte queste cose insieme" e conoscerne i responsabili. Pasolini non si spiega se esista una "vocazione" a governare, come quella di scrivere o dipingere: "esiste però una responsabilità, e di questa bisogna rispondere". E nota: perchè tutti i processi sui diversi misteri italiani (tentativi di golpe, stragi, ecc.) "sono fermi come un cimitero? (...) Perchè porterebbero al Processo di cui parlo io".
Donat Cattin, allora ministro dell'Industria, batte un colpo. Ed è un boomerang. Risponde con un'intervista sul Mondo. Tenta di passare per quello onesto: "a Gioia Tauro ci furono intrallazzi, l'ho denunciato ad un settimanale ma hanno rifiutato di pubblicarlo perchè erano coinvolti socialisti". "Nella realtà", scrive Pasolini in una Lettera intitolata "Processo anche a Donat Cattin "un ministro che ha queste carte va da un magistrato non da un giornalista". Dalle parole del politico Pasolini ricava la sensazione "dell'uomo cui arrivi una lettera anonima sul tradimento della moglie". La pochezza del politico e la spazzatura sotto il tappeto della dc si disvela tra le righe.
Ma nel suo percorso di analisi, la condanna di un'intera classe politica e la richiesta di voltare pagina e far pagare i responsabili si giustifica, veemente, dopo che alla fine del '74 Pasolini pubblica sul Corriere un articolo di grande impatto. "Che cos'è questo golpe" diviene nei Corsari "Il romanzo delle stragi".
Con un effetto anche poetico di reiterazione del primo "Io so", l'intellettuale dichiara di conoscere "i responsabili di una serie di golpes istituiti a sistema di protezione del potere, (...) della strage di Milano del 12 dicembre 1969, di Brescia e Bologna dei primi mesi del 1974, (...) dei vecchi fascisti ideatori di golpes, dei neofascisti autori materiali delle stragi, (...) di chi ha gestito le opposte fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974), (...) i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della CIA (e in second'ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968 e in seguito (...) si sono ricostruiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum, (...) i nomi di coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato disposizioni e assicurato protezione politica, (...) di personaggi comici come il generale Miceli (...).
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (...) ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire ciò che succede (...) di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani (...), che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero".
Se queste cose non vengono dette da chi le sa, giornalisti e politici, allora deve farlo un intellettuale "non compromesso nella pratica del potere e che non ha, per definizione, niente da perdere". Certo esiste anche una grande opposizione al potere, "un paese separato (...) che è la salvezza dell'Italia: il Partito comunista (...) un paese pulito in uno sporco, onesto in un paese disonesto, intelligente rispetto ad uno idiota, colto in un paese ignorante, umanistico in un paese consumistico".
Pasolini si chiede: "Ma perché se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi non fanno i nomi (...)?". Ebbene, proprio per questo "io non posso non pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana (...), io che credo alla politica, alla democrazia e i partiti, (...) attraverso la mia particolare ottica che è quella comunista".
"Qualcosa è accaduto una decina di anni fa. Lo chiamerò la scomparsa delle lucciole". Procedere per immagini poetiche è stata una delle caratteristiche del Pasolini saggista. Nel Corsaro del 1° febbraio del '75 delinea un prima, un durante e un dopo la scomparsa delle lucciole, a scandire i tempi della decadenza della classe politica democristiana, sorpassata da un fenomeno che non ha capito in tempo: "Il potere consumistico e la sua ideologia edonistica, (...) che ha imposto cambiamenti radicali fino ad accettare il divorzio e, potenzialmente tutto il resto, senza più limiti". "In Italia c'è un drammatico vuoto di potere. (...) Il potere reale procede senza di loro. (...) I democristiani coprono con manovre da automi e i loro sorrisi, il vuoto". "Prima della scomparsa (...) la continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è stata completa (...), con una maggioranza assoluta ottenuta attraverso ceti medi e masse contadine gestiti dal Vaticano. (...) I valori che contavano erano gli stessi: la Chiesa, la patria, la famiglia, l'obbedienza, la moralità. (...) Uguali nel provincialismo, rozzezza, ignoranza sia delle élites che delle masse". Dopo la scomparsa "questi valori nazionalizzati e quindi falsificati non contano più (...) sostituiti da 'valori' di un nuovo tipo di società (...) che poi ha prodotto la prima 'unificazione' reale del paese". "Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così (...) sono divenuti un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale". Ecco, di fronte "a questo disastro ecologico, economico, urbanistico, antropologico (...) quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) - chiosa Pasolini - sia chiaro: io, ancorchè multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola".
L'analisi dell'evoluzione politica portata dal potere dirompente del consumismo ha il suo rovescio della medaglia tra gli italiani. Pasolini con passione, da tempo, illustra la sua critica alla modernizzazione, si potrebbe dire "a quel tipo" di modernizzazione. Nei Corsari è ripreso il famoso intervento alla Festa dell'Unità di Milano (estate del '74) che qui titola "Genocidio", perchè "senza carneficine o fucilazioni di massa, la distruzione di valori della società italiana porta alla soppressione di larghe zone della società stessa (...) quelle che vengono assimilate al modo di vita della borghesia". Come? Per esempio: "Un tipo di edonismo interclassista impone ai giovani di adeguarsi nel comportamento, nel vestire, nell'agire o nel gestire a ciò che vedono nella pubblicità che si riferisce, quasi razzisticamente, al modo di vita piccolo borghese (...) creando ansie e frustrazione in un giovane povero (...) che non può realizzare questo modello (...)". Ma perchè è accaduto? "A un certo punto il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto consumatore (...)". Ma il nodo sta nella "scissione che la classe dominante ha fatto tra sviluppo e progresso. "Si può concepire lo sviluppo senza il progresso, cosa mostruosa che viviamo in due terzi dell'Italia". Alla classe dominante interessa soltanto lo sviluppo, perché solo da lì trae profitto. Ma l'acuto osservatore disse di più: citò un discorso del prof. Cefis ai ragazzi dell'Accademia di Modena nel quale parlava di "un tipo di sviluppo come potere transnazionale o multinazionale, fondato su un esercizio non nazionale, tecnologicamente avanzatissimo ma estraneo alla realtà del proprio paese".
In mezzo a tutto questo non sfugge come sia centrale, nella visione pasoliniana della vita, il senso del sacro. Si trovò a scrivere in uno dei suoi fondi sul Corriere riportato nei Corsari: "Sono sempre più scandalizzato dall'assenza di senso del sacro nei miei contemporanei. (...) Uno dei luoghi comuni degli intellettuali progressisti è la desacralizzazione di tutto, e lo fanno contro i padri, spianando la pista di atterraggio al consumismo, sostituendo valori ad immagini del benessere".
Ma il suo era "un sacro "eretico", e la battaglia, che credevo sostenuta dai compagni di sinistra, persa". Da qui nacque l'abiura della "Trilogia della vita" (i suoi tre film: "Decameron", "I racconti di Canterbury" e "Il fiore delle mille e una notte") nella Lettera luterana del giugno '75: senza disconoscerne il valore e la paternità, Pasolini non può tacere che "quelle opere erano inserite nel disegno di lotta per la liberazione sessuale, (...) cioè il "diritto di esprimersi" attraverso l'arcaica violenza dei corpi e dei loro organi sessuali. Ma da tempo, ormai, la lotta progressista era stata vanificata per la decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. (...) Così la liberazione, invece di portare felicità e leggerezza, ha reso i giovani infelici, chiusi e di conseguenza stupidamente presuntuosi e aggressivi".
Strettamente collegata quindi appare la sua posizione su coito e aborto. Con un titolo che fece discutere ("Sono contro l'aborto", Corriere, gennaio '75) l'intellettuale intervenne di prepotenza sul tema allora attualissimo dei referendum proposti dai radicali. Inizia precisando: "Io sono per gli otto referendum (...) ma sono traumatizzato dalla legalizzazione dell'aborto, perchè la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio". "I radicali e gli altri progressisti che si battono in prima linea (...) lo riducono ad una pura praticità, da affrontare appunto con spirito pratico. Ma ciò (come essi sanno) è sempre colpevole". Il problema, secondo Pasolini, va affrontato a monte ed è costituito dal coito: "La libertà sessuale della maggioranza in realtà è una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un'ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità della vita del consumatore". È il nuovo potere consumistico che spinge quindi: "non gli interessa la coppia creatrice di prole (proletaria) ma una coppia consumatrice (piccolo borghese)". La vera liberazione sessuale dovrebbe riguardare quindi il coito: "anticoncezionali, pillole, tecniche amatorie diverse, una moderna morale dell'onore sessuale ecc. Basterebbe che tutto ciò fosse democraticamente diffuso dalla stampa e soprattutto dalla televisione e il problema dell'aborto verrebbe vanificato". "Tutto ciò è utopistico?".
Pasolini, come si trovò a scrivere, amava "coltivare l'atrocità del dubbio". Se è stato scomodo, provocatorio, mai conciliante, lo ha fatto per combattere i luoghi comuni, per accendere la ragione, lasciarla libera. Del resto Sciascia, che lo apprezzò come intellettuale, in sostanza gli riconobbe un'integrità che significa anche dover accettare il personaggio senza buttare via nulla: "Pasolini può contraddirsi, può sbagliare ma ragiona con una libertà che oggi (era il '74, ndr) pochi sono capaci di avere". Anzi la contraddizione in lui era una risorsa, non una paralisi.
Come l'omosessualità, "questa diversità che mi fece stupendo" come aveva scritto, che era vissuta come una sorta di accesso privilegiato in luoghi e circostanze negate alla borghesia. Di questo tabù per gli intellettuali di sinistra (fatta salva soltanto la stagione durata un anno del 1968), di questo male assoluto per i pensatori di destra Pasolini seppe coraggiosamente parlare. Sui Corsari si chiedeva "come mai in Italia nemmeno si affronti il problema, lo si rimuova mentre in Francia è uscito per esempio un libro di Daniel Baudry". E innescò una grande discussione commentando il modo scandalizzato in cui i giornali di entrambi gli schieramenti avevano trattato la notizia di un quindicenne di Milano arrestato per furto, messo per errore in un carcere di adulti, che per difendersi da due carcerati che volevano approfittare di lui ha dovuto sopportare la loro reazione violenta. "Posto che l'atto è abbietto", Pasolini si rende conto che ormai "la tolleranza del potere in campo sessuale era univoca ed eterosessuale". Ma soprattutto era conscio che "la cosa peggiore che poteva accadere era quella riassunta nel suicidio del protagonista omosessuale nel "Libro bianco" di Jean Cocteau: aveva capito che era intollerabile, per un uomo, l'essere tollerato".
Nelle ultime tre Lettere luterane, scritte a ridosso del 2 novembre del '75, quando fu ritrovato morto, Pasolini si serve della discussione intorno al delitto del Circeo per lanciare due proposte "per eliminare la criminalità in Italia bisogna (...) abolire immediatamente la scuola dell'obbligo e la televisione". "La scuola dell'obbligo è un'iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano cose inutili, false, stupide, moralistiche. (...) Senza la proiezione nel futuro di una reale cultura storica (...) le nozioni marciscono, nascono morte. (...) È meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo". "Quanto poi alla televisione non voglio spendere ulteriori parole: ciò che ho detto a proposito della scuola dell'obbligo va moltiplicato all'infinito". "Ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non sono serviti a nulla: la scuola e il video sono autoritari perchè statali". Poi la sua immagine poetica: "Un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare un proprio modello di vita".
L'ultima Lettera luterana (il Mondo, 30 ottobre '75), fu scritta in risposta a Italo Calvino e si pone nel paesaggio delineato dall'osservatore e indagatore Pasolini come l'ultima profezia, quella "avveratasi". Perché è noto che tra l'orrendo crimine commesso da Angelo Izzo e gli amici al Circeo e la fine violenta, in mezzo al fango, del poeta Pasolini, ci sono anche le immagini appena finite di girare di "Salò o le 120 giornate di Sodoma". Nelle quali il Potere assoluto, senza più maschere, nel suo aspetto più violento, trascina i corpi di giovani ragazzi nei gironi dell'Inferno. Come il corpo del poeta, orrendamente sfregiato, riverso nel fango, rinvenuto all'alba del 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia.
 


Curatore, Bruno Esposito

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lunedì 8 febbraio 2016

Comizi D'Amore di Pier Paolo Pasolini - Storia.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Ma davvero agli uomini interessa qualcos'altro che vivere? Tonino e Graziella si sposano. Del loro amore essi sanno soltanto che è amore. [...] Dei loro futuri figli sanno soltanto che saranno figli. È soprattutto quando è lieta e innocente che la vita non ha pietà.
Due ragazzi italiani si sposano. E in questo loro giorno tutto il male e tutto il bene precedenti ad essi sembrano annullarsi, come il ricordo della tempesta nella pace.
Ogni diritto è crudele, ed essi, esercitando il proprio diritto ad essere ciò che furono i loro padri e le loro madri, non fanno altro che confermare, cari come sono alla vita, la lietezza e l'innocenza della vita.
Così la conoscenza del male e del bene - la storia, che non è né lieta né innocente - si trova sempre di fronte a questa spietata smemoratezza di chi vive, alla sua sovrana umiltà.
Tonino e Graziella si sposano: e chi sa, tace, di fronte alla loro grazia che non vuole sapere.
E invece il silenzio è colpevole: e l'augurio a Tonino e a Graziella sia: «Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore».
PASOLINI (fuori campo)


È un film-inchiesta sul sesso e sull'amore  nell'Italia dei primi anni sessanta nel quale Pasolini intervistatore rivolge le sue domande a persone di diversa età, sesso, condizione sociale, dal sud contadino fino al  nord industrializzato. Il film documentario si articola in tre ricerche più un prologo e un epilogo, il tutto commentato oltre che da Pasolini, da Moravia che vede positivamente il lavoro definendolo cinema-verità (Moravia: per la prima volta si parla della questione sessuale, che è un tabù in Tv e nei salotti. È una dissacrazione) e da Cesare Musatti, che da scettico, pensa che la gente non sia sincera nelle sue risposte (Musatti: la gente non risponde o risponde in modo falso. Dal punto di vista psicanalitico ignoranza e paura non sono separate: c'è la possibilità che nascondiamo a noi stessi determinate cose perché ci fanno paura). Uno specchio che riflette <<"Un turbinio, un caos, una babilonia di opinioni diverse. Le più ridicole, inconcepibili e contraddittorie. E ingenue, infantili, scandalizzate, apparentemente sensate, in realtà prive di ogni senso logico.">>(1), un eccezionale esempio particolarmente vivo di cinema diretto.

[...]
«E tutto questo potrebbe avere una soluzione finale - sempre al livello "sentimentale e poetico" ma in coincidenza con lo spirito scientifico del film - ponendo come problema conclusivo il matrimonio e la procreazione. [...] Ecco, andare per le chiese e i municipi; scegliere una coppia, giovane, sana, umile e seguirla, nella sua antica festa sempre uguale... Penserei a un matrimonio popolare, in cui il senso "della vita sana per quanto fittiziamente e poeticamente trionfa sulla vita tragica", ha più forza di convinzione; un bel giovane, una bella ragazza che vanno a sposarsi, lei vestita sommariamente di bianco, lui vestito sommariamente di nero, verso la chiesa povera del quartiere... coi gruppi dei parenti... [...] se qualcuno glielo chiede, potrebbero darsi un bacio. E proprio così il film potrebbe concludersi: con questo rapido, casto bacio, il bacio finale dei buoni vecchi film. [...]» (2)

Alcuni dei titoli che Pasolini voleva dare al film, prima di quello definitivo, Comizi D'Amore:

Natura e contro natura
Il Don Giovanni
Cento paia di buoi
Magma scandaloso
Magma imbarazzante


Il titolo definitivo verrà tratto da una frase del vecchio finale, poi scartato, del Sogno di una cosa; «bisogna chiarire l’odio in comizi d’amore», frase di Renata dopo la morte di don Paolo.

Probabilmente l'idea iniziale di Pasolini era quella di realizzare un film-verità (cinéma-vérité) molto più complesso rispetto al solo tema della sessualità degli italiani (Prostituzione, pederastia, psicoanalisi, matrimonio, sado-masochismo, esibizionismo, feticismo, verginità, masturbazione, droga, religione, politica, morale, igiene e vita di relazione sono gli aspetti appuntati a mano da Pasolini in quella che sembra essere la prima versione del progetto):

Caro Alfredo, come sempre la «realtà» è diversa dalle intenzioni. Nel caso di un film o di un’opera letteraria, la «realtà» è la sua concretezza stilistica. Ebbene, per il film dal titolo (provvisorio!) «Cento paia di buoi», l’atto del girare ha costituito (con mia parziale sorpresa, dato che era il mio primo lavoro di carattere documentario) un lento stravolgimento della mia «idea stilistica del film». Mi sono trovato davanti a del materiale nuovo, pieno di straripante concretezza visiva.  
In che senso il film è diventato un altro? Direi soprattutto nel senso che i protagonisti non sono più «color che sanno», come chiamavo scherzosamente me, Moravia, Musatti e gli altri dotti che avrebbero dovuto spiegare al pubblico i problemi della vita sessuale; ma, protagonista, è diventato il pubblico, cioè le centinaia di interrogati, con Arriflex e registratore, in tutta l’Italia. La loro vivezza, la loro spettacolare fisicità, la loro antipatia, la loro simpatia, i loro strafalcioni, i loro candori, le loro saggezze, come dire, la loro «italianità», hanno preso prepotentemente il posto riservato alla nostra premura didascalica, e si sono presentatati sullo schermo «come ciò che importa».
Dividerò le interviste collettive in quattro-cinque capitoli  
I. sul sesso in generale, sua importanza, suo peso, suo significato ecc.;
Il. «Scandaloso», sul problema dello «scandalo», l’irrazionalità dello scandalizzarsi e la necessità di porsi davanti al problema senza questo arcaico inalberarsi della ragione;
III. «La vera Italia», sul problema dei rapporti tra sesso e società - matrimonio, onore sessuale, divorzio, controllo delle nascite ecc. - da cui dovrebbe saltar fuori una immagine dell’Italia violentemente inedita;
IV. «Schifo o pietà», sul problema della anormalità sessuale;  
V. «Dal basso e dal profondo», sul problema della prostituzione - e quindi della miseria, del contrasto fra Nord e Sud, e indirettamente, dell’autentica vita sessuale dei proletariati e dei sottoproletariati italiani.
Quasi piloni di questi capitoli-arcate, dovrebbero essere le interviste con Moravia e Musatti: momenti di riflessione e sistemazione del caos. Interviste accompagnate dalla musica del Don Giovanni di Mozart. Perciò ho dato al film un nuovo titolo: « IL DON GIOVANNI».(3)


Le riprese
Marzo-novembre 1963.

Esterni: Napoli, Porta Capuana (interviste ai passanti sulla prostituzione); vicoli dei bassi napoletani.

Sicilia: Palermo, intervista a Ignazio Buttitta; popolani al rione San Pietro; contadini e braccianti a Camporeale e Partinico; Cefalù.

Lazio: Roma, Via Eufrate all’Eur, casa di Pier Paolo Pasolini (intervista a Alberto Moravia e Cesare Musatti); chiesa di Centocelle (il matrimonio di Graziella); spiagge romane; Fiumicino.

Milano, fabbriche (intervista alle operaie sulla legge Merlin); Idroscalo di Milano.

Toscana: Firenze, una bottega d’artigiano (intervista ai clienti); Viareggio, lungomare (intervista di notte ai passanti), campo sportivo (intervista a Peppino Di Capri e altri).

Bologna, Università (intervista agli studenti); Stadio comunale (intervista alla squadra di calcio del Bologna). Campagna emiliana tra Bologna e Modena (intervista ad alcuni contadini).

Venezia Lido (intervista a Camilla Cedema, Oriana Fallaci, Adele Cambria); intervista ad alcuni bagnanti tra cui Antonella Lualdi.

Calabria: Catanzaro, la campagna, un bar (intervista ai frequentatori del bar); Crotone.


Comizi d'amore, al montaggio, fu infine diviso in quattro parti:

I - Grande fritto misto all'italiana
II - Schifo o pietà?
III - La vera Italia?
IV - Dal basso e dal profondo


Comizi D'Amore:

Direttori della fotografia: Mario Bernardo - Tonino Delli Colli
Direttore della prduzione: Eliseo Boschi
Montaggio: Nino Baragli
Assistente tecnica: Andreina Casini
Operatori alla macchina: Vittorio Bernini - Franco Delli Colli - Cesare Fontana
Fonici: Oscar De Arcangelis - Carlo Ramundo
Assistenti operatore: Francesco Cappelli - Sandro Ruzzolini
Negativi: Ferrania p.30 - Kodak -
Stabilimento di sviluppo e stampa: Istituto Luce
Sonorizzazione: Fonolux
Edizioni e registrazioni musicali: R.C.A. italiana
Voce: Lello Bersani
Interventi e commenti: Alberto Moravia - Cesare Musatti
Prodotto da Alfredo Bini per ARCO film
Regia: Pier Paolo Pasolini

Il 17 aprile del 1964, in risposta ad una domanda della ARCO film del 16-4-1964, la prima legione della commissione di revisione cinematografica da parere positivo alla proiezione al pubblico, con divieto ai minori di 18 anni. Il nulla osta ai termini della legge 21-4-1962, numero 161, viene rilasciato il 18 aprile 1964 con la seguente motivazione: 
il divieto ai minori degli anni 18, per sequenze che esprimono concetti di costume sessuale pregiudizievole all'età evolutiva e alla formazione psicologica dei minori.
Il 28 febbraio 1992 su richiesta di RETEITALIA SPA ( Fininvest ), la commissione di revisione cinematografica toglie il divieto ai minori di 18 anni, a seguito delle seguenti modifiche:


  • Alleggerimento intervista a ragazzo interno balera; eliminazione dialogo da "Sai cos'è il sadismo per esempio" a "però io sono uscito una volta con una lesbica - mt 7,4
Alleggerimento intervista al giovane napoletano che descrive il problema dei militari che con la loro diaria non riescono a pagare le prostitute - mt 11,9


Lunghezza totale dei tagli metri 19,3 in 35mm.
Lunghezza totale del film dopo i tagli metri 2570 in 35mm.

Bruno Esposito


Note:

1- Pasolini per il cinema,Meridiani Mondadori (2001)
2- Pasolini per il cinema,Meridiani Mondadori (2001)
3- Lettera del settembre 1963 ad Alfredo Bini





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domenica 7 febbraio 2016

Pier Paolo Pasolini - Il centralismo della civiltà dei consumi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



 

Il centralismo della civiltà dei consumi

Molti lamentano (in questo frangente dell’austerity) i disagi dovuti alla mancanza di una vita sociale e culturale organizzata fuori dal Centro "cattivo" nelle periferie "buone" (viste con dormitori senza verde, senza servizi, senza autonomia, senza più reali rapporti umani). Lamento retorico. Se infatti ciò di cui nelle periferie si lamenta la mancanza, ci fosse, esso sarebbe comunque organizzato dal Centro. Quello stesso Centro che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture periferiche dalle quali, appunto, fino a pochi anni fa, era assicurata una vita propria, sostanzialmente libera, anche alle periferie più povere e addirittura miserabili.

Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la "tolleranza" della ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni.

Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè, come dicevo, i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che "omologava" gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale "omologatore" che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina).

Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?

No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i "figli di papà", i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli.

Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari umiliati cancellano nella loro carta d'identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di "studente". Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo-borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo-borghese, nell’adeguarsi al modello "televisivo" che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale, diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio "uomo" che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.

La responsabilità della televisione in tutto questo è enorme. Non certe in quanto "mezzo tecnico", ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. E attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.

Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Un giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano; il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata bruttata per sempre…


Estratto da "Scritti Corsari" di Pier Paolo Pasolini
("Corriere della Sera" il 9 dicembre 1973 con il titolo
"Sfida ai dirigenti della televisione")


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Pier Paolo Pasolini, Il metodo di lavoro - Da Ragazzi di vita.

"Le pagine corsare " 
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Il metodo di lavoro
DA
Ragazzi di vita
di Pier Paolo Pasolini
Einaudi, Torino 1972 (appendici)
già in "Città aperta", 7-8 aprile-maggio 1958



Il fatto che leggendo frammenti e pagine da Una vita violenta si possa pensare di trovarsi di fronte a frammenti o pagine di Ragazzi di vita non è casuale: significa che il paradigma, lo spitzeriano periodo-campione, è lo stesso, e che quindi stilisticamente non c’è soluzione di continuità. E se non c’è trasformazione stilistica non ci sarà neppure più trasformazione interna, psicologica e ideologica.

Infatti ho pensato contemporaneamente tre romanzi, Ragazzi di vita, Una vita violenta e Il Rio della grana (titolo questo, provvisorio, forse sostituito da La città dl Dio) negli stessi mesi, negli stessi anni e insieme li ho maturati e elaborati. La sola differenza è che Ragazzi di vita è scritto per intero e fisicamente: gli altri due ancora no: sono scritti dentro e in parte stesi (Una vita violenta è pronto per soli due terzi). Mentre scrivevo dunque Ragazzi di vita erano già impostati gli altri due romanzi nella loro struttura e in parte nei loro particolari. Ragazzi di vita doveva essere una specie di, diciamo con cattivo gusto, «ouverture», accennando a mille motivi, fondando un mondo in quanto «particolare», in sé completo, del mondo. Gli altri due romanzi dovevano approfondire. Mentre in Ragazzi dl vita ciò che conta è il mondo delle borgate e del sottoproletariato romano vissuto nei ragazzi, e quindi il protagonista, il Riccetto, era, oltre che un personaggio abbastanza definito, un filo conduttore un po’ astratto, un po’ flatus vocis, come tutti i protagonisti-pretesto, in Una vita violenta e nel Rio della grana ciò che conta sono i due personaggi centrali, Tommasino Puzzilli nel primo, Pietro nel secondo. Due storie in certo modo interiori, interiori come possono essere in ragazzi del popolo, abbandonati per le strade, senza un mondo morale se non, rispetto al nostro, preistorico, o ad altro livello storico, malgrado il bombardamento ideologico intensissimo, Il «panem et circenses» della borghesia democristiana e americanizzante.

La storia di Tommasino Puzzilli è una introversione dovuta al fatto che si tratta di un ragazzo non bello, non forte e non sano: un debole, insomma, che deve per forza essere un forte, in un mondo dove ciò è obbligatorio. Egli cerca dunque continuamente di affermarsi: e si sa dove si va a finire per questa strada: alla pseudo-forza della delinquenza, del cinismo, della «dritteria». come la chiamano. Nella specie, la disperata tensione di Tommasino - che non è un delicato, al contrario, è molto volgare - è all’esterno, la storia dei suoi diversi credo politici: è fascista, anarchico, democristiano e infine comunista. Naturalmente all’interno, la storia è più monotona; il meccanismo che scatta è sempre lo stesso, sotto l’influenza delle circostanze esteriori (l’amicizia con dei ladri missini lo fa essere fascista; un certo miglioramento della sua famiglia che era sempre vissuta in baracche e tuguri e che finalmente ha un quartierino all’Ina-Case, lo fa diventare benpensante e democristiano; infine la tubercolosi e l’ambiente del Forlanìni, dove si trova una forte cellula del Pci, lo fa diventare comunista). Bene o male, alla fine, questa spinta «ad affermarsi», «ad esistere», questa sgangherata energia vitale, si illumina di qualche confusa luce morale.

Parlando di Gadda, su «Vie Nuove» trovavo in questo grande autore dei tipi diversi e apparentemente contraddittori di usare il dialetto, che catalogavo in quattro serie. La prima, scrivevo, «è una serie di tipi d’uso dialettale di specie verghiana: implicanti cioè una regressione dell’autore nell’ambiente descritto, fino ad assumerne il più intimo spirito linguistico, mimetizzandolo incessantemente, fino a fare di questa seconda natura linguistica una natura primaria, con la conseguente contaminazione».

Questa la formula definitoria, che, mentre descrive solo in parte Gadda, descrive me interamente. Perché questa selezione linguista mimetizzante? Per poter dare, come scriveva Contini, «un’imperterrita dichiarazione d’amore». Il fondo sentimentale e umanitario, appartiene è vero, alla mia preistoria: ma, si dice, «la nostra storia è tutta la storia» e io aggiungerei «e anche la preistoria». Il mio realismo io lo considero un atto d’amore: e la mia polemica contro l’estetismo novecentesco, intimistico e para-religioso, implica una presa di posizione politica contro la borghesia fascista e democristiana che ne è stata l’ambiente e il fondo culturale.

Non esiste, per me, un metodo esterno di lavoro: il metodo è unicamente stilistico, e quindi interno. Ci sono naturalmente dei dati di fatto che presi a sé possono suggerire l’idea, superficiale, aneddotica, di un metodo «applicato», «a formula». In una loro rivista satirica, Lina e il cavaliere Franca Valeri e i suoi collaboratori hanno inventato un tipo di scrittore, i dati fonetici del cui cognome corrispondono vagamente a quelli del mio. Questo scrittore (ch’era poi una scrittrice, impersonata dalla Valeri) teneva chiuse in un armadio due servette meridionali: quando doveva lavorare le tirava fuori dall’armadio e le faceva «parlare». Operazione da «magnetofono», dunque, con qualche leggera correzione nel senso della «contaminatio»: assoluto naturalismo corretto da un lieve ma a suo modo assoluto «stilismo puro». A parte la comicità della faccenda, la Valeri non aveva affatto intuito male. Spesse volte, se pedinato, sarei colto in qualche pizzeria di Torpignattara, della Borgata Alessandrina, di Torre Maura o di Pietralata, mentre su un foglio di carta annoto modi idiomatici, punte espressive o vivaci, lessici gergali presi di prima mano dalle bocche dei «parlanti» fatti parlare apposta. Questo, naturalmente accade in occasioni specifiche. Per esempio a un certo punto del racconto uno dei miei personaggi ruba una valigia e qualche borsa: c’è un termine gergale per indicare valigia e borsa? Come no! Valigia si dice «cricca», borsa «campana»: la refurtiva in genere, oltre che «morto», si dice «riboncia», ecc, (invece che dire «ecc.», o «cose di questo genere», nel mio romanzo metterò sempre «e santi benedetti» o «e tanti benedetti», quando non un meno vivace «e tante belle cose»). Non sempre questo materiale strumentale a livello bassissimo e particolarissimo lo trascrivo direttamente: lo faccio solo nei casi in cui mi si presenti una difficoltà o una necessità stilistica a tavolino, mentre scrivo tutto solo. Allora lascio in bianco la parte che necessita di espressività, e faccio la mia ricerca, di solito breve e fruttuosa (ho alla Maranella un amico, Sergio Citti. pittore, che finora non ha mai fallito alle mie richieste, anche più sottili). Esiste anche una mia passione generica: in tal caso annoto per conto mio, magari di nascosto, «fulgurato» da qualche improvvisa e ignota forma del patrimonio. Si tratta in tal caso di materiale di riserva, che a ogni buon conto metto da parte: in modo da non dover scendere alla Maranella nel caso mi si presenti la sopraddetta necessità espressiva. In fondo allo scartafaccio del romanzo ho dunque un bel mucchio di pagine di modi idiomatici, un tesoretto lessicale.

Cosi si esaurisce il «colore» del mio metodo di lavoro. Tutto il resto accade nella solitudine della mia stanza ormai in un quartiere borghese, dietro il Gianicolo.

La differenza tra Il personaggio della Valeri e me è che il rapporto coi «parlanti» in me è stato, ed è, necessario. Sia pure: ogni regressione richiede un tanto di aprioristico e di volontario. Ed è chiaro che ogni autore che usi una lingua «parlata», magari addirittura allo stato naturale di dialetto, deve compiere questa operazione esplorativa e mimetica di regresso - come accennavo - sia nell’ambiente che nel personaggio, in sede, cioè, sia sociologica che psicologica. Vista marxisticamente la cosa si presenta come una regressione più che da un livello culturale a un altro, da una classe all’altra.

Io mi sento assolto in questa operazione da ogni possibile accusa di gratuità, o cinismo, o dilettantismo estetizzante per due ragioni: la prima, di tipo, diciamo, morale (riguardante cioè il rapporto tra me e le persone particolari dei parlanti poveri, proletari o sottoproletari) è che, nel caso di Roma, è stata la necessità (fra l’altro la mia stessa povertà sia pure di borghese disoccupato) a farmi fare l’esperienza immediata, umana, come si dice, vitale, del mondo che ho poi descritto e sto descrivendo. Non c’è stata scelta da parte mia, ma una specie di coazione del destino: e poiché ognuno testimonia ciò che conosce, io non potevo che testimoniare la «borgata» romana. Alla coazione biografica si aggiunge la particolare tendenza del mio eros, che mi porta inconsciamente, e ormai con la coscienza dell’incoscienza, a evitare incontri che causino possibili (e sia pur molto leggeri, come m’insegna l’esperienza), traumi di sensibilità borghese, o di borghese conformismo: e a cercare le amicizie più semplici, normali presso i «pagani» (la periferia di Roma è completamente pagana: I ragazzi e i giovani sanno a stento chi è la Madonna), che vivono a un altro livello culturale, e nei quali il bombardamento ideologico non ha ancora toccato se non genericamente i problemi del sesso. Quindi - placatasi la necessità sociologica - io continuo comunque a vivere necessariamente nella periferia.

La seconda ragione è molto più importante, tanto che in fondo avrei anche potuto omettere i commi qui succintamente esposti della prima.

E chiaro che una liceità è possibile anche a una regressione momentanea, sperimentale dalla classe e dalla cultura alta, che avvenga per «scelta», per «volontà»: direi che una liceità è possibile anche nel caso che questa avvenga per ragioni puramente estetiche (se tali ragioni esistessero): poiché, per quanto irrelato, indissolubile da esse, c’è nel fondo sempre un dato documentario, un recupero in qualche modo oggettivo del mondo cosi esplorato.

Prima di usare la lingua dei «parlanti» della periferia romana, per analoghe ragioni biografiche, avevo usato un’altra lingua senza tradizione letteraria, il friulano di Casarsa: e, altrove, confessando, ho già descritto, a posteriori, ché allora male lo sapevo, quali fossero le ragioni interne di quell’adozione linguistica: ma, appunto, benché lo stile, malgrado le apparenze, fosse in realtà «sublimis» e non «humilis», obbedisse alle regole della più rigorosa selezione linguistica, trasvolasse tranquillamente su ogni dato naturalistico, e risultasse in definitiva appartenere all’area dell’ermetismo, alla poetica della Parola, con l’invenzione di una lingua assoluta, «per poesia» - tuttavia, non so se alle origini stesse dell’esperienza, o se nato in un secondo istante, coesisteva al furore stilistico, in quel friulano, un tanto di reale, di oggettivo, per cui il mondo contadino della Bassa friulana in qualche modo affiorava all’espressione. E non per nulla all’interno stesso di quel mio sistema - e non per applicazione - è nata tutta una sezione che si potrebbe anche dire «impegnata», dato l’anno, 1947-48, in cui è stata scritta: Il testament Coran, che è una delle parti più nutrite e forse meglio riuscite del mio libro di versi casarsesi.

Oggi le due componenti della mia ispirazione, quella sensuale-stilistica, e quella, diciamo, naturalistico-documentaria, a fondo politico, si sono, credo, spero, meglio equilibrate. Nello scendere al livello di un mondo storicamente e culturalmente inferiore al mio - almeno secondo una graduazione razionale, ché, irrazionalmente, esso gli è poi assolutamente contemporaneo, per non dire più avanzato, nel suo vitalismo puro, in cui «si fa» la storia - nell’immergermi nel mondo dialettale e gergale della «borgata» io porto con me una coscienza che giustifica la mia operazione né più né meno di quanto giustifichi, ad esempio, l’operazione di un dirigente di partito: il quale, come me, appartiene alla classe borghese, e da questa si allontana, ripudiandone momentaneamente le necessità, per capire e fare proprie le necessità della classe proletaria o comunque popolare. La differenza è che questa operazione coscientemente politica, nell’uomo di partito prevede o prepara l’azione: in me, scrittore, non può che farsi mimesis linguistica, testimonianza, denuncia, organizzazione interna della struttura narrativa secondo un’ideologia marxista, luce interna. Mai però letteratura di fiancheggiamento all’azione edificante, prospettivistica. L’ottimismo, la speranza aprioristica sono sempre dati superficiali: io so bene che la Libertà e la Giustizia non significano la felicità della pienezza morale: e sarebbe un inganno promettere quest’ultima come un corollario, un risultato meccanico del mutamento delle strutture.
Pier Paolo Pasolini


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