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mercoledì 19 marzo 2014

LO SFONDO, IL CARNAIO.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




3. LO SFONDO, IL CARNAIO.
UN RADUNO DI ALTRI
Alma Mater Studiorum - Università di Bologna
─────────────────────────────
DIPARTIMENTO DI ITALIANISTICA
Dottorato di Ricerca in Italianistica
XIX Ciclo
Settore scientifico disciplinare L-FIL-LET/11
ALTRI CORPI:
Temi e figure della corporalità
nella poesia degli anni Sessanta.

Il Coordinatore:  
Chiar.mo Prof. 
VITTORIO RODA 

Il Relatore:
Chiar.mo Prof.
NIVA LORENZINI

Il Dottorando:
Dott.GIAN MARIA ANNOVI
─────────────────────────────
Esame finale anno 2007



«Colui non par corpo fittizio»
(Dante, Purgatorio XXVI )


Fino ad ora si è discusso del corpo dell’Altro, luogo del simbolico, o meglio, del «raduno di altri» che si stagliano come calchi vuoti, privi di soggettività, sullo sfondo magmatico di Poesia in forma di rosa. Ma questa raccolta, si è detto, è segnata anche da una «riemersione in primissimo piano»(102) del soggetto poetico e, occorre aggiungere, del suo corpo. Corpo che si costituisce alternativamente – attraverso i meccanismi di identificazione a cui si è accennato in precedenza – come omologo e separato da quello dell’Altro seppur interno allo stesso campo, descritto da Lacan attraverso una citazione pittorica particolarmente cruenta ma non priva di interesse:

il prossimo, viene a profilarvisi, separato da noi, erigendosi, se posso dir così evocando l’immagine del Carpaccio di San Giorgio degli Schiavoni a Venezia, in mezzo a un’immagine di carnaio(103).

Il dipinto in questione è Duello di San Giorgio e il drago, opera narrativa che ripropone la nota vicenda agiografica tratta dalla Legenda aurea; non potendo certo fare di meglio lascio a Roberto Longhi l’illustrazione di quello che Lacan definisce, all’ingrosso ma con efficacia, un carnaio:

«il terreno stregato dove la morte espone lucida, tra i ramarri, le botte e i fili d’erba avvelenati, i suoi vari “memento”: le collezioni di teschi, il braccio che fu elegante, il lurido frammento di un eroe sfortunato, i resti della donzella dove la camiciola smangiata sul petto integro, la mezza manica sul braccio che riposa, il torso sfibrato come una corteccia dolce da masticare»(104)

Si tratta di un campionario di orrori, dove arti, pezzi di corpi e ossa si accampano su un terreno arido, bruciato se non dal sole dalla vampa del drago, una figura che ritroveremo anche in Amelia Rosselli. La morte si inscrive sullo sfondo attraverso brani di corpi insepolti, resti di scheletri.
Anche Pasolini delinea la fisionomia del mondo, e dunque della realtà, attraverso l’anatomia di un cadavere, il proprio:

«Tutto il mondo è il mio corpo insepolto» 
(Le belle bandiere).

Ho già ribadito che alla base del simbolismo c’è l’identificazione tra il corpo dell’infans e il mondo, identificazione da intendersi come equivalenza – per utilizzare la terminologia introdotta da Melanie Klein – identità tra due elementi. Non è ancora chiaro se l’identificazione si basi sul principio di piacere – come vuole Joens – o sull’angoscia, ma appare evidente che nel caso di Pasolini sia determinata dalla pulsione di morte del soggetto, già presente sin dagli esordi friulani (cfr. Il nini muàrt). In quelle poesie, però, come ha ricordato Zanzotto, la morte è nominabile e collocabile «a due passi dal paese, in un cimitero campestre, in cui tutto è accarezzato e quasi richiama la resurrezione, è cellula tra le cellule viventi»(105) chiamata a rappresentare solo la condanna «a vivere in modo infernale dentro un ambito che è idilliaco»(106). Negli anni Sessanta, con l’avanzare della omologazione consumistica e della contaminazione massmediatica del linguaggio, l’idillio non è ormai più possibile, e la morte, con il suo inferno non è più solamente cellula ma organismo, corpo, sottoposto allo stesso «squartamento fisico in atto»(107) dell’autore. Lo si vede con chiarezza in più di un luogo:

Per gli sventrati, i radi
orizzonti pervasi d’un funebre stallatico;
la quantità, l’immensità che pesa
inutilmente nel mondo, i cui prati bruciati
o marci d’acqua, sono una distesa
priva di possibile poesia, rozza cosa
restata lì, ai primordi
[La Guinea]

impalcature di fanghi screpolati
e induriti su altri fanghi – sterco bianco
come zucchero, graffito di chine e villaggi,
sopra chine e villaggi lievi come ossa –
la Geenna col suo fiumicello secco
(sull’orizzonte, uno strapiombo di garza,
maculato di sangue teneramente ingiallito)
[L’alba meridionale]

come, il mondo, non fosse che un cumulo
di scintillanti frantumi, di casuali rifiuti,
spazzati da un cataclisma, e ora in pace riversi
[Poema per un verso di Shakespeare]

Si tratta di descrizioni carnali, fisiche, corporali, di un mondo in combustione, sventrato, che mostra il suo scheletro sotto la violenza di una «luce che disossa», e «schiumeggia» sui prati, quasi materiasse di vischiosità la luminosità di un sole «micidiale», «febbrile» in cui «appare e persiste la fisicità del deserto». Questa «periferia di macerie e di paludi»(108), che secondo Lacan è esattamente lo sfondo su cui si forma il soggetto, è anche la rappresentazione fisica di una morte che coinvolge anche l’io di Poesia in forma di rosa. A dispetto del titolo, preso a prestito proprio da uno scritto di Longhi sui manieristi, il poemetto Una disperata vitalità ruota intorno al sentimento della morte e della sua rappresentazione nel proprio corpo. Si leggano di nuovo questi versi, tra i più citati:

Sono come un gatto bruciato vivo,
pestato dal copertone di un autotreno,
impiccato dai ragazzi a un fico,
[…]
come un serpente ridotto a poltiglia di sangue
un’anguilla mezza mangiata
- le guance cave sotto gli occhi abbattuti,
i capelli orrendamente diradati sul cranio
le braccia dimagrite come quelle di un bambino

Le analogie con i rimandi paesistici appena riportati sono fin troppo evidenti, ma colpisce in questi versi non solo la rappresentazione di sé come soggetto a un’immane violenza (combustione, spappolamento, cannibalismo…), ma la forte erosione fisica del corpo, il suo sformarsi o deformarsi. C’è l’idea profonda e lancinante di un corpo in perdita, in declino, che perde materia, carne («magrezza che gli divora la carne»), fino a coincidere con la figura di uno scheletro. In un testo non confluito nella raccolta ma concepito negli stessi anni, Poesia su una poesia, Pasolini scrive che 

«cresce, con l’età, la magrezza / del corpo. Mi ritrovo, ogni giorno, / più consunto, e già, la consunzione / è disincarnazione». 

Disincarnazione che evidenzia, mentre le ossa diventano «ogni giorno / più cave», una rassomiglianza con la madre «che si fa sempre più fatale». E, aggiungerei, fetale. Si evidenziano infatti in questi, come nei versi precedenti, le due pulsioni cardine che muovono l’opera di Pasolini, già individuate da Agosti come strutturanti nel romanzo Petrolio(109): la pulsione di morte e quella di reifetazione.
Parallelamente alla rappresentazione di sé come scheletro 

(«mostrare la mia faccia, la mia magrezza», «il mio, sarà uno scheletro / senza neanche nostalgia del mondo», «penso con pace al mio scheletro», «Diavolo tuttossa»), 

il soggetto si rappresenta «solo come feto», come un «feto adulto». Nella pulsione di reifetazione, che rimanda a un prima dell’origine, rientrano anche le rappresentazioni zoomorfiche non infrequenti in Poesia in forma di rosa («come un cane senza padrone», «come un gattaccio in cerca d’amore», «passivo come un uccello», «solo come un animale senza nome», «come una bestia»), ma sempre in un ottica metaforica. Il «come» vanifica in partenza qualsiasi decentramento soggettivo che l’animalizzazione fisica comporterebbe: lo si può verificare con profitto in La mancanza di richiesta di poesia, dove Pasolini costruisce una propria fisionomia teriomorfa attraverso un’immagine di indistinzione di tratti animali, ma all’interno di una grande metafora dichiarata sin dall’incipit:

Come uno schiavo malato, o una bestia,
vagavo per un mondo che mi era assegnato in sorte,
con la lentezza che hanno i mostri
del fango – o della polvere – o della selva –
strisciando sulla pancia – o su pinne
vane per la terraferma – o ali fatte di membrane…

Questo mostro – così simile al drago dipinto da Carpaccio – è un essere primordiale che reca insieme la polverosa lentezza della morte («trascino con me la morte nella vita»). Anche in questa figura la vita e la morte si confondono, così come accade, secondo Lacan, nella figura di Antigone che sperimenta «la morte vissuta anticipatamente, morte che sconfina nel campo della vita, vita che sconfina sulla morte»(110). Anche l’io di Pasolini si mostra «ritardatario sulla morte, in anticipo / sulla vita vera» proprio perché l’io, nel momento della sua formazione, si erge davanti a «sé, precedendosi sullo sfondo di un’irriducibile ritardo su se stesso.»(111) È allora importante ricordare che proprio Pasolini ha elaborato la figura di Antigone al momento di girare l’Edipo Re, scegliendo di rappresentarla attraverso Ninetto, che accompagna Edipo-Citti nel suo viaggio dopo l’accecamento: «il mio corpo – dirà Davoli in una intervista – era un proseguimento di quello di Pier Paolo»(112). Per essere più precisi, come è stato più volte ricordato, Ninetto rappresenta per Pasolini «l’immagine archetipica di bellezza adolescenziale»(113), un giovanetto ricciuto con i capelli sulla fronte e «gli occhi dolci e ridarelli»114al centro di numerosissime riprese cinematografiche o immagini pittoriche, spesso con il volto parzialmente coperto. Ciò mostra nuovamente che anche il desiderio è mosso dalla pulsione di morte, in quanto percorso dentro il sapere che implica il sapere della morte, palesato con crudezza in un testo del 1968 intitolato Coccodrillo, in cui lo scrittore immagina di scrivere il proprio necrologio: «mai oggetto di narcisismo fu più fecondo di un cadavere». La morte si configura come ultimo tentativo di appropriazione della realtà, di congiungimento – quasi erotico – con essa, mediato però da una forte istanza estetica, che è «la vera barriera che ferma il soggetto davanti al campo innominabile del desiderio radicale in quanto è il campo della distruzione assoluta, della distruzione al di là della putrefazione»(115).
Pasolini, che si rappresenta come un cadavere di partigiano che inizia a decomporsi («come un partigiano / morto prima del maggio del ’45 /comincerò piano piano a decompormi», Una disperata vitalità), resta dunque al di qua del desiderio radicale, attraverso l’estetizzazione della propria esperienza. In Poesia in forma di rosa, infatti, sono numerosissimi i riferimenti al mondo dell’arte (Giotto, Correggio, Masaccio, Piero della Francesca, Caravaggio, Pontormo, Watteau, Renoir, Garutti, Collezza, i pittori del Cinquecento Nero), tanto che è possibile sostenere che le descrizioni paesistiche di Pasolini siano vere e proprie èkphrasis, nel senso originario del termine: una descrizione digressiva che ha come tema un’opera d’arte figurativa. È lo stesso Pasolini a ricordarlo a proposito del cinema, quando afferma di non riuscire 

«a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica […] quindi le mie immagini, quando sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obiettivo si muovesse su loro sopra un quadro: concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro.»(116 )

Anche nell’opera poetica, lo ha notato Stefano Agosti, il discorso segue e riproduce «il movimento di un ipotetico occhio sovrastante il reale»(117), un occhio-obiettivo, o cine-occhio che si muove come sopra un dipinto: ciò è riscontrabile nel poemetto La guinea, dove il paesaggio di Casarola pare riprendere «il motivo di una pittura rustica / ma raffinata» e nei testi che compongono Poesie mondane, dove il Pontormo, agisce «con un operatore meticoloso» nel disporre gli elementi che fanno da sfondo alle riprese de La ricotta, o ancora, in Poema per un verso di Shakespeare, tutto giocato su inserti descrittivi di un’opera manierista probabilmente rappresentante il Ratto di Ganimede. Occorre però precisare che ciò che ho finora erroneamente indicato come descrizioni paesistiche sono piuttosto descrizioni di uno sfondo, realtà già mediata dalla visione estetica, simbolizzata. Anche il Pasolini cineasta si pone davanti alla realtà come se fosse già stata dipinta, soprascritta: «amo lo sfondo, non il paesaggio. Non si può concepire una pala d’altare con le figure in movimento. Perciò nessuna inquadratura può cominciare col ‘campo’, ossia col paesaggio vuoto. Ci sarà sempre, anche se piccolissimo, il personaggio.
[…] E dietro, lo sfondo, lo sfondo, non il paesaggio.»(118) È l’opera d’arte a filtrare la percezione della realtà, che ha sempre come centro il personaggio. Motivando la scelta di dedicarsi prevalentemente al cinema, Pasolini rivendicava l’esigenza di essere dentro la realtà, possibile perché quando si fa un film «non c’è fra me e la realtà il filtro del simbolico o la convenzione, come nella letteratura.»(119) In Poesia in forma di rosa il simbolico che si frappone alla realtà è il proprio corpo di personaggio che dice “io”, corpo cadavere che si identifica da sempre con quella che potremmo chiamare una Vorbild, un’immagine prima. A questo mimetismo deve per forza corrispondere anche un mimetismo spaziale: personaggio e sfondo coincidono. Ecco allora che «i resti del vecchi Pasolini / sui profili dell’Agro…» si mostrano in continuità ellittica con «tuguri / e ammassi di grattacieli» e lo sgretolarsi dello sfondo è pari a quello dell’io: «sono pieno di sabbia / accecante, di limo sbriciolato» (Poesia in forma di rosa). E ancora:

Il protagonista è macellato:
una bolla d’aria gonfia la sua pelle,
potrebbe volare per il terrore.
Una spaccatura gli scende dal palato
allo sterno, e irradia dei tremiti
per tutto il corpo: l’intossicazione
gli buca lo stomaco, gli dà la diarrea.
[…]
terra incendiata il cui incendio
spento stasera o da millenni,
è una cerchia infinita di ruderi rosa,
carboni e ossa biancheggianti, impalcature
dilavate dall’acqua e poi bruciate
da nuovo sole
[Poesie mondane]

Alla possibilità di esporre il soggetto ai bordi della morte, di radicalizzarne la messa in discussione e la tenuta lirica, Pasolini sceglie l’artificio teatrale del personaggio, che ingloba in sé la realtà. Infatti, come scrive un Bataille chiosatore di Lacan: «affinché l’uomo si riveli infine a se stesso, egli dovrebbe morire, ma dovrebbe farlo continuando a vivere – per guardarsi mentre cessa d’essere […] si tratta di identificarci a qualche personaggio che muore, e credere così di morire mentre restiamo in vita.»(120)
L’artificio del personaggio, ennesima immagine dell’io estraniato, come da sempre rappresentato ed ex-posto davanti a sé, mostra dunque l’ossessione più forte di Pasolini, «essere dentro e fuori la propria opera»(121) e insieme essere dentro e fuori dalla realtà. Si spiega forse così il suo interesse – già segnalato da Siti – per il famoso dipinto di Velàzquez, Las Meninas, che nel 1966 costituirà il nucleo irradiante della riflessione su Le parole e le cose di Michel Foucault e che Lacan, nel Seminario XIII, tuttora inedito, vede come rappresentazione del rapporto del soggetto diviso con il reale. Nell’ottica pasoliniana ciò che colpisce però è che al centro del quadro vi sia una bambina, anzi, un’infanta – come la madre fruta oggetto dell’identificazione narcisistica – e che alle sue spalle sia intravedibile il vero soggetto dell’opera che l’autore è intento a dipingere. Nel fondo della stanza si trova infatti uno specchio che permette di scorgere le sagome di quella che costituisce una coppia parentale e insieme la rappresentazione del Potere: Filippo IV e sua moglie Marianna. Pare dunque che questo quadro possa fungere nel nostro caso come tavola sinottica di ricapitolazione di quella fase dello specchio alla base delle identificazioni stratificate nell’io, tanto che se si osserva la tela con attenzione si noterà anche un altro particolare di notevole rilevanza nell’economia della nostra lettura: la tenda rialzata che incombe sulla testa delle due figure genitoriali. Tenda che dischiude l’immagine della coppia parentale su cui si apre lo sguardo cieco dell’infanta e che già abbiamo individuato anche nella prima immagine di un Pasolini infans, come struttura portante della Forma-viso. L’altro elemento che merita attenzione è proprio l’opera in corso, l’alto rettangolo monotono che occupa di scorcio la parte sinistra del quadro. La visione di scorcio è qualcosa di ben presente nell’immaginario di Pasolini, che nel 1974, recensendo il volume di Longhi, Da Cimabue a Moranti puntualizza che «tutte le descrizioni che Longhi fa dei quadri esaminati (e sono naturalmente i punti più alti della sua “prosa”) sono fatte di scorcio. Anche il quadro più semplice, diretto, frontale, “tradotto” nella prosa di Longhi, è visto come obliquamente, da punti di vista inusitati e difficili.»(122) Lette queste parole, risulta difficile non associare il rettangoloide marrone che obbliga a concepire l’opera obliquamente nella tela di Velasquez a quell’oggetto «strano, sospeso, obliquo, in primo piano davanti ai due personaggi»(123) del dipinto di Holbein, citato da Lacan a proposito dell’amor cortese per introdurre l’oggetto del desiderio, visibile solo di sbieco, di scorcio. Visto frontalmente – prospetticamente – esso rivelerebbe solo la morte. L’oggetto anamorfico, che nel caso di Velazquez pare coincidere perfettamente con l’opera, rende visibile qualcosa che «non è altro che il soggetto come annientato – annientato in una forma che, propriamente parlando, è l’incarnazione fatta immagine della castrazione»(124). L’opera è ciò che ha il potere di annientare il soggetto, ma per farlo deve essere informe: di qui l’ossimorica esigenza di Pasolini di abiurare alle opere passate e tornare al magma («Sono tornato tout court al magma!», Una disperata vitalità; «col fervore che opera mescolanze di materie / inconciliabili, magmi senza amalgama», Progetto di opere future), ma insieme il riferimento continuo a progetti di scrittura in corso che aprono l’opera sul non finito, o l’inserzione di lacune nei testi, gli abbondanti punti sospensivi, gli omissis, fino allo scacco che incontra il lettore giunto alla fine del poemetto intitolato La realtà, che si rivela discorso non ancora cominciato, da farsi («solo detto questo, o urlato, la mia sorte / si potrà liberare: e cominciare / il mio discorso sopra la realtà»). Anche il corpo del personaggio-autore, identificandosi con la realtà, la mortifica, la disincarna, ne fa una non-vita coinvolta nel campo simbolico del linguaggio. Esso è come il diaframma «che traspone le cose dipinte dal Caravaggio in un universo separato, in un certo senso morto, almeno rispetto alla vita e al realismo.»(125) Scrivendo l’articolo intitolato La luce di Caravaggio, Pasolini
accoglie in pieno l’idea longhina che l’artista bergamasco dipingesse guardando le sue figure riflesse entro uno specchio. Oggetto che abbiamo visto costituire anche per la poesia di Pasolini il primitivo contatto con l’io, con l’altro e con il mondo, in cui «tutto pare sospeso come per un eccesso di verità, e un eccesso di evidenza, che lo fa sembrare morto»(126) e che fa delle sue figure, dei corpi, dei personaggi, «delle figure separate, artificiali»(127), proprio come i corpi dei giovani adolescenti e del vecchio poeta-io al centro di Poesia in forma di rosa.


102 G. SANTATO, cit., p. 201
103 J. LACAN, Il godimento della trasgressione, in cit., p. 257
104 R. LONGHI, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, in Da Cimabue a Moranti, cit., p. 639.
105 A. ZANZOTTO, Pasolini poeta, in cit., p. 155.
106 ID., Pasolini, l’«Academiuta di lenga furlana», Nico Naldini, in cit., p. 287.
107 ID., Pasolini poeta, cit., p. 155.
108 J. LACAN, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, Volume I, Torino, Einaudi, 1974, p. 91.
109 S. AGOSTI, L’inconscio e la forma, in La parola fuori di sé, cit., pp. 66-82.
110 J. LACAN, Il seminario. Libro VII, cit., p. 315.
111 M. BORCH-JACOBSEN, Lacan, il maestro assoluto, Torino, Einaudi, 1999, p. 38.
112 Riportato da W. Siti nel suo intervento dal titolo L’opera rimasta sola, posto in chiusura al secondo volume di P.P.PASOLINI, Tutte le poesie, cit., p. 1925.
113 G. ZIGAINA, Pasolini e la morte: mito alchimia e semantica del “nulla lucente”, Venezia, Marsilio, 1987, p. 47.
114 P.P.PASOLINI, Alì dagli occhi azzurri, Garzanti, Milano, 1965.
115 J. LACAN, La pulsione di morte, in cit., p. 275.
116 L. BETTI – M. GULINUCCI (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Le regole dell’illusione: i film, il cinema, Associazione «Fondo Pasolini», Milano, Garzanti, 1991, p. 60
117 S. AGOSTI, cit., p. 21
118 P.P.PASOLINI, Le pause di Mamma Roma, in «Il Giorno», Milano 20 maggio 1962.
119 ID., Pasolini su pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1303.
120 G. BATAILLE, Hegel, la mort et le sacrifice, in OEuvres complètes, vol. XII, Paris, Gallimard, 1988, pp. 336-337.
121 W. SITI, L’opera rimasta sola, cit. p. 1933.
122 P.P.PASOLINI, Roberto Longhi, Da cimabue a Moranti, in cit., p. 333.
123 J. LACAN, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, Einaudi, Torino, 1979,p. 87.
124 Ibidem.
125 P.P.PASOLINI, La luce di Caravaggio, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., p. 2673.
126 Ivi, p. 2673.
127 Ivi, p. 2674.


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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UN PADRE VIENE PICCHIATO

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




2. UN PADRE VIENE PICCHIATO
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Esame finale anno 2007



«L’uomo che amava gli appariva come un delizioso carnefice»
(M. Proust, Il tempo ritrovato)


In una lettera a Silvana Mauri, moglie di Ottiero Ottieri, Pasolini si riferiva con queste parole al sorgere infantile del suo desiderio omosessuale, definito a tre anni con l’espressione «teta veleta»:

«te lo scrivo tremando tanto mi fa paura questo terribile nome inventato da un bambino
di tre anni innamorato di un ragazzo di tredici, questo nome feticcio, primordiale,
disgustoso e carezzevole»(70)

Pare dunque che sin dall’inizio il desiderio emerga sotto forma di significante feticizzato che ha il potere di intimorire e far tremare, significante che corrisponde già a un oggetto parziale: la «parte convessa interna al ginocchio»(71) delle gambe di alcuni ragazzi che giocavano al pallone. Non è certo possibile risalire alla verità, al senso di quella prima espressione del desiderio, ma colpisce l’automatica associazione all’espressione “testa velata”, quella della madre, che già abbiamo rintracciato in un altro ricordo di infanzia attraverso la mediazione di Gide e Lacan(72). Il feticcio, infatti, è già nell’interpretazione di Freud, «l’immagine o il sostituto di un fallo femminile, vale a dire un mezzo mediante il quale noi neghiamo che la donna manchi del pene».(73) Le gambe intraviste da Pasolini bambino, dalla chiara valenza fallica, si feticizzano laddove si produce un’interruzione, una barra, nel nostro caso l’incavo, che permette «l’erettilità d’un frammento di corpo».74 Il desiderio può così emergere e appagarsi, scongiurando nello stesso tempo il timore della castrazione e la pulsione di morte, già provate proprio di fronte al regolare eclissarsi del volto materno, al suo velarsi. Più tardi, in Empirismo eretico, Pasolini riporterà la spiegazione data da Contini a quella espressione, ricondotta dalla figura paterna del critico al fenomeno linguistico del “reminder” di «una parola dell’antico greco, “Tetis” (sesso, sia maschile che femminile, come tutti sanno).»(75) Attraverso la mediazione di Contini “teta veleta” viene dunque a significare l’indistinzione sessuale presente nella pulsione.
Nel romanzo postumo Petrolio, Tetis diventerà infatti il nome del demone capace di scindere in due il protagonista, una divinità a cui bisogna abbandonarsi proprio come nel masochismo amoroso: «ogni persona che ci fa soffrire può essere da noi messa in relazione con una divinità, di cui essa non è che un riflesso frammentario.»(76) Sono parole di Proust, non meno estraeneo alle gioie del masochismo sessuale del suo Monsieur Charlus(77), ed esplicitamente citato da Pasolini in Progetto di opere future come uno dei propri fratelli. Nel masochismo è infatti presente la ricerca di un trascendente e l’inconscia garanzia di poter accedere al sublime e all’idealizzato: «dal corpo all’opera d’arte, dall’opera d’arte alle Idee, si tratta di un’ascesa che deve essere fatta a colpi di frusta»(78), sottolinea Deleuze lettore di Sacher-Masoch. Dal corpo alla poesia. È ciò che avviene anche nell’esperienza dell’amor cortese, caratterizzata dal «desiderio di annientamento» e dalla «voluttà di umiliazione»(79) del poeta servo e schiavo della propria Domina. Anche in Pasolini «la “passione”, il “sesso” sono vissuti come schiavitù colpevole ma fatale e “predestinata”»(80, schiavitù che attraverso il fantasma della donna-madre («sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù», Supplica) si riverbera nell’esperienza erotica omosessuale di «schiavo malato» succube di ogni «carnefice biondo, o killer colore / del fango» (La realtà):

Rimase l’inclinazione allo scisma:
un naturale bisogno di farmi male alla ferita
sempre aperta. Un configurare
ogni rapporto col mondo che a sé m’invita,
al rapporto del mio figliale
sadismo, masochismo: per cui non sono nato,
e sono qui solo come un animale
senza nome: da nulla consacrato,
non appartenente a nessuno,
libero d’una libertà che mi ha massacrato.
[La realtà]

Il bisogno di scandalo e punizione – per citare il titolo di un intervento di Angelo Romanò – per Pasolini non fu mai qualcosa da tenere celato e con Poesia in forma di rosa emerge in maniera esplicita in numerosi testi. La necessità di farsi male che in questi versi è ricondotto a un sadismomasochismo definito come figliale, viene altrove associato ai propri «amori di pura sensualità, / replicati nelle valli sacre della libidine. / Sadica, masochistica» dove «i calzoni / con la loro sacca tiepida» segnano quello che è «il destino di un uomo» (Le belle bandiere), ossia divenire padre.
Proprio nello snodo edipico tra figlio e padre andrebbe ricondotta secondo Deleuze la dinamica masochistica:

Il masochista si pone al posto del padre, e vuole impadronirsi della potenza virile (stadio sadico). Poi, un primo sentimento di colpa, una prima paura della castrazione come punizione, lo indurrebbe a rinunciare a questo scopo attivo per prendere il posto della madre e offrirsi egli stesso al padre. Ma così cadrebbe in una seconda colpa, in una diversa paura della castrazione, in questo caso implicata dall’impresa passiva; al desiderio di un impresa amorosa con il padre si sostituirebbe allora «il desiderio di essere picchiato», che non
soltanto rappresenta una relazione più lieve, ma equivale alla stessa relazione amorosa.(81)

Pasolini non ha mai fatto mistero del tragico rapporto avuto con il padre, che lo spinse a edificare quella diade protettiva con la madre sfociata poi nella tragica fuga da Casarsa, ma è proprio negli anni Sessanta che egli arriva a comprendere, forse anche attraverso l’elaborazione poetica di Poesia in forma di rosa, che dietro alla rivalità e all’odio per il genitore si celava invece «un amore parziale, che riguardava unicamente il sesso»(82). Forse accelerata dalla sua morte recente, questa consapevolezza si riverbera in tutta la raccolta, vera e propria «fantasia di figlio che non sarà mai padre» (La realtà) e che non saprà mai «”effettivamente”, essere padre, padrone» (L’alba meridionale). Egli non può dunque assumere il ruolo di dominatore ma solo solo quello di figlio che si fa masochisticamente picchiare, e nel farlo – scrive Deleuze – «quel che fa colpire, umiliare, ridicolizzare, è l’immagine del padre, la somiglianza del padre, la possibilità del ritorno offensivo del padre. Non è “un bambino”, è un padre ad essere picchiato.»(83) Non è un caso che l’immagine della vittima sia associata sin da Le ceneri di Gramsci – figura di padre, ha detto Zanzotto, «che però è di cenere»(84) – a quella del diverso, perseguitato e violentato dal Potere e dalla morale borghese, dal loro ordine violentemente fallico, ma con esso masochisticamente coinvolto. È un livello di analisi che è stato ampiamente affrontato dalla critica e su cui non voglio soffermarmi perché quello che mi interessa è piuttosto comprendere come Pasolini voglia sentirsi vittima anche al cospetto del proprio oggetto d’amore, non rinunciando mai alle proprie «abitudini / di bestia ferita, che guarda negli occhi, / godendo nel morire, i suoi feritori…» (L’alba meridionale, II).
In una recensione-stroncatura del volume Donne mie di Dacia Maraini, Pasolini traccia in negativo, nell’ironia della parentetica e nell’allusione finale, il profilo del partner maschile ideale:

Certo che un “cattivo” così, se esistesse, sarebbe ricercatissimo: un cattivo che arriva, preso in un raptus di erotismo quasi ascetico, tutto “fissato” sul pene e la vagina, sulla violenza cieca del coito, sul sadismo come pretesa schiavistica, come riduzione della persona a corpo, per tradizione popolare e ingenuità adolescenziale, ecc. ecc. ecc., potrebbe essere per certe donne (e uomini) un “ideale” erotico sublime. Conosco certe donne e certi uomini che per un “partner” maschile simile sarebbero disposti a sacrificare una fortuna…(85)

Ecco presentarsi con dovizia di particolari la scena sadomasochistica pasoliniana e non è un caso che lo scrittore fosse appunto disposto a sacrificare una fortuna per essere «contento di una giovane / faccia
crudele», fino forse alla morte.(86) Il masochismo deve infatti essere fatto a misura della sua vittima, che è colui che stabilisce il contratto con il Master autorizzando l’umiliazione («e un amore / tutto di umilianti trattative di compensi», L’alba meridionale).
Il controverso filosofo sloveno Slavoj Zizek, radicalizzando la lettura lacaniana, ha tentato di comprendere l’amore cortese attraverso la dinamica della coppia masochistica, sostenendo la natura eminentemente teatrale del masochismo in cui «è il servo che scrive la sceneggiatura […] mette in scena la sua stessa servitù»(87). Il masochista è come un regista obbligato a mantenere una certa distanza riflessiva per non distruggere l’illusione che sospende ogni realtà sociale. Anche l’amore cortese – ricorda Lacan – «non è immune dalle barriere sociali»(88) ed anzi trova proprio in esse il fondamento del vassallaggio amoroso e poetico: nel caso di Pasolini, borghese confesso, la reinvenzione di quel modello lirico è evidente: infatti i giovani oggetto del desiderio sono perlopiù sottoproletari, appartenenti a una classe inferiore. Non va dunque lontano dalla verità Franco Fortini quando sostiene che la norma che Pasolini desiderava violare non era tanto quella dell’eterosessualità ma dell’uguaglianza con l’altro, e che il suo fosse pertanto un senso di colpa di classe(89). Il contratto masochistico funge infatti da livellatore delle disparità sociali ed anzi inverte i ruoli di potere attraverso la messinscena, «la simulazione di un ‘come se’ che sospende la realtà.»(90)A riprova dell’efficacia teatrale del masochismo, anche i giovani sottoproletari possono assumere per Pasolini, come la donna della lirica cortese, il ruolo di angeli(91), spiriti, simbolicamente superiori alla carne che rappresenta il poeta («carne tra questi spiriti»), tanto che – come ricorda Siti – «il ruolo di Angelo, costantemente nei film attribuito a Ninetto, ne è il sintomo rivelatore, il sigillo»(92). Pasolini, che ha incarnato realmente la figura di regista nella sua vita, assolverebbe dunque la stessa funzione anche nella dinamica del proprio desiderio. Lo scenario è fisso: la periferia romana, squallida e spettrale, i campi assolati tra ruderi di case o bagnati dalla luce lunare, spesso associati alla presenza di un corso d’acqua. Ciò spiegherebbe anche la continua osmosi che avviene tra Italia e paesi del Terzo mondo. Il soggetto, pressato dal sentore che la sua realtà sta cambiando, sente il bisogno di ricreare altrove il teatro del proprio desiderio: Africa, India, Israele si delineano come «unica alternativa» possibile. Acquista nuova luce anche la feticizzazione del corpo simbolico, del volto e dei suoi tratti, che non rappresenta altro che la neutralizzazione fantasmatica dell’oggetto d’amore, nella forma di un diniego percettivo che apre all’ordine della fictio.
Il masochismo, infatti, «ci pone di fronte all’ordine del simbolico in quanto ordine della “finzione”»(93) dove ciò che conta maggiormente è la maschera e non ciò che c’è sotto. Si spiega nello stesso modo il non realismo del grand chant courtois, dove «l’amante non descrive l’oggetto d’amore, non lo percepisce nella sua individuazione, nel suo corpo, non riesce a vederlo, ma ne parla».(94) L’ordine della finzione esige sì che i corpi siano solo una «sommazione d’oggetti parziali»(95), ma anche che la violenza sia sospesa, che sia solo l’infinita ripetizione di un gesto interrotto:

e mille volte questo atto è da ripetere:
perché non ripeterlo, significa provare
la morte come un dolore frenetico
[La realtà]

Piano piano le migliaia di gesti sacri,
la mano sul gonfiore tiepido,
i baci, ogni volta a una bocca diversa,
sempre più vergine,
sempre più vicina all’incanto della specie,
alla norma che fa dei figli teneri padri,
piano piano
sono divenuti monumenti di pietra
che a migliaia affollano la mia solitudine.
[Le belle bandiere]

Il godimento masochista è fatto di atti ripetitivi che allontanano la pulsione di morte da cui il desiderio è mosso in quanto azzeramento della stessa pulsione, tanto che sovente il passaggio all’atto dei comportamenti masochistici avviene in uno stato di restringimento corpuscolare della coscienza, in quella che viene indicata come “foschia erotica” (erotic haze)(96): 

«Io, cupo d’amore, e intorno, il coro / 
dei lieti, cui la realtà è amica. / 
Sono migliaia. Non posso amarne uno» 
(La realtà). 

Questi versi assumono maggior chiarezza se si ricorda con Lacan che l’oggetto «si introduce attraverso la porta assai singolare della privazione, dell’inaccessibilità»(97). Il soggetto non può intrattenere nessun rapporto reale con l’oggetto d’amore, nessuna empatia è possibile tanto che «le scene masochistiche hanno bisogno di fissarsi come sculture o dipinti»(98). Alla donna di pietra dei romanzi di Sacher-Masoch fanno allora specchio la Petra dantesca, la «viva petra» di Petrarca ma anche gli adolescenti immortali e pietrificati di Pasolini, «monumenti di pietra», «figure masaccesche», «forme dell’esistere crudelmente mute». All’ordine della ripetizione va ricondotto anche il carattere moltitudinale dei giovani pasoliniani che Gadda, non allontanatosi troppo dalla verità, definiva come «un petrarchismo generico, ma anche numerico»(99). Non solo i giovani si presentano come nebulose di oggetti parziali ma vengono a sciami, a schiere, a migliaia: «sudate comitive di maschi adolescenti», «squadre ordinate di fiori nel caos dell’esistenza», «in squadre / meravigliose», «ignari giovincelli, in schiera», «gruppi di giovinottelli», «mandrie di belve», «quattro o cinque ragazzetti», «dolci scimmie in branco coperte di magliette»(100). Il punto qui non è stabilire una «proporzione tra una nuova massa / predestinata e un vecchio io»; esiste una profonda differenza tra «i milioni di scheletri viventi» dei borghesi e i nugoli di fanciulli. Nè si tratta di dare forma al desiderio del soggetto, di individuare nell’orgia un ordine pulsionale, quanto di rimarcare la funzione simbolica dell’oggetto, del corpo: «ognuno ha la sua nuova la sua antica / bellezza che è di tutti». È come se il soggetto,  avvicinandosi troppo all’oggetto del desiderio, determinasse una visione diplopica o prismatica che rende ragione del vedere fantasmatico e non percettivo di cui già si è accennato: «non conta né il segno né la cosa esistente». Non è possibile il darsi di un corpo reale all’interno dell’ordine della scrittura che è solo un insieme di infiniti universi discorsivi, ma il darsi di un corpo simbolico che tende a infinito, all’alterità radicale:

onde non io, ma colui che comunico,
trae la disperata conclusione,
di essere il reietto di un raduno
di altri

Non è il soggetto ad esprimersi nell’ordine del discorso ma il personaggio, l’io; il simbolico è infatti fuori del soggetto e ne rappresenta la legge che lo circoscrive, così come il reale, escluso da ogni simbolizzazione, si ripresenta sempre come un resto che sfugge alla ragione e che il corpo patisce. «Di fronte a chi pretende di esaurirla completamente in sé, la realtà ribadisce la propria esistenza ed espelle l’individuo»101, come si trattasse di un corpo estraneo, inassimilabile al proprio organismo: «espulsione da sé del mondo, di me, suo corpo estraneo» (Nuova poesia in forma di rosa).

70 P. P. PASOLINI, Lettere 1940-1954, Einaudi, Torino, 1986
71 ID., Quaderni rossi, in Romanzi e racconti, vol. I, Mondadori, Milano, 1998
72 L’altra inevitabile associazione è con l’espressione “tetta velata”, richiamo allo scoprirsi e velarsi del seno materno. La psicoanalisi individua nel seno l’oggetto totale, «cosmico», che il bambino associa al corpo integrale della madre. Proprio per questo, però, il seno è omologo allo sguardo e, dunque al volto materno. Faccio notare inoltre che anche il romanzo di Laura Betti, che prende il titolo proprio dall’espressione di Pasolini, si apre con il ricordo delle suore velate («non si sono mai lavate la testa da sempre perché è proibito togliersi la cuffia») e che la copertina mostra, tautologicamente, una Betti con veletta. Cfr. L. BETTI, Teta veleta, Garzanti, Milano, 1979.
73 G. DELEUZE, Il freddo e il crudele, Se, Milano, 1996, p. 34
74 J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 114
75 P. P. PASOLINI, Dal laboratorio, in Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1991, pp. 68-69
76 M. PROUST, Il tempo ritrovato, Einaudi, Torino, 1974, p. 237
77 Mi riferisco in particolare all’episodio della casa d’appuntamento per soli uomini in cui il protagonista spia dall’oblò della porta la scena sadomasochistica tra Maurice e M. Charlus (cfr. M. PROUST, cit., p. 143)
78 G. DELEUZE, cit., p. 25
79 M. MANCINI, cit., p. 25
80 M. DAVID, cit. p.
81 G. DELEUZE, cit., p. 65
82 P. P. PASOLINI, Il sogno del centauro, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1408
83 G. DELEUZE, cit., p. 73
84 A. ZANZOTTO, cit., p. 227
85 P. P. PASOLINI, Dacia Maraini, «Donne mie», in Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 2067-68 (mio corsivo)
86 Rimando a D. BELLEZZA, Morte di Pasolini, Oscar Mondadori, Milano,1995.
87 S. ŽIŽEK, cit., p. 92
88 J. LACAN, L’amor cortese a mo’ di anamorfosi, in op. cit., p.
89 F. FORTINI, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino, 1993
90 S. ZIZEK, cit., p. 92
91 «Gli angeli pasoliniani ricordano le donne angelicate, le messaggere d’amore […] Un tema che fu inaugurato proprio da quei provenzali a cui Pasolini si richiamava nel fondare la sua Provenza poetica sulla riva destra de Tagliamento», vedi S. PARUSSA, op. cit., p. 27.
92 W. SITI, Tracce scritte di un’opera vivente, in Romanzi e racconti, cit., p. LVIII
93 ibidem
94 M. MANCINI, cit., p. 29
95 J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, cit., p.
96 S. BACH, On sadomasochistic object relations, in G. I. FOGEL – W. A. MYERS, Perversions & near-perversions in clinical practise, Yale Univ. Press, Yale, 1991.
97 J. LACAN, L’amor cortese a mo’ di anamorfosi, cit., p. 190
98 G. DELEUZE, cit., p. 79
99 Lo riporta E. SICILIANO nel suo Vita di Pasolini, Giunti, Firenze, 1995
100 La moltitudinalità dell’oggetto sessuale – ma con diverso significato – raggiungerà il suo culmine barocco nell’Appunto 55 di Petrolio, in cui Carlo, il protagonista, si sottomette a un rapporto sessuale con decine di giovani.
101 W. SITI, cit., p.


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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FRAMMENTI DI UN DISCORSO SULL’AMOR CORTESE

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





1. FRAMMENTI DI UN DISCORSO SULL’AMOR CORTESE
UN RADUNO DI ALTRI
Alma Mater Studiorum - Università di Bologna
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DIPARTIMENTO DI ITALIANISTICA
Dottorato di Ricerca in Italianistica
XIX Ciclo
Settore scientifico disciplinare L-FIL-LET/11
ALTRI CORPI:
Temi e figure della corporalità
nella poesia degli anni Sessanta.

Il Coordinatore:  
Chiar.mo Prof. 
VITTORIO RODA 

Il Relatore:
Chiar.mo Prof.
NIVA LORENZINI

Il Dottorando:
Dott.GIAN MARIA ANNOVI
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Esame finale anno 2007



«Per cortesia, un po’ d’ordine in queste orge»
(D. A. F. De Sade, La filosofia nel boudoir)


Si è spesso ribadito che per Pasolini la perdita di soggettività da parte delle nuove generazioni di adolescenti fosse da considerarsi una tragedia prodotta dalla società dei consumi, tragedia culminante nella postuma Abiura dalla Trilogia della vita,(21) con la dichiarazione di odio per i corpi e gli organi sessuali dei giovani italiani. È ciò che conduce Pasolini all’immersione in apnea di Salò, oscura «favola di Sade»(22), e all’orgiastico e meccanico profilarsi del sesso di Petrolio(23). Si tratta del risultato della famosa mutazione antropologica delineata ossessivamente negli interventi giornalistici e d’occasione a partire da Scritti corsari. In realtà, i corpi dei giovani di cui parla Pasolini, che da un certo punto in poi divengono la superficie privilegiata su cui tracciare il proprio discorso sull’omologazione ad opera del Potere (che Foucault chiamerà bio-potere), sono corpi che in poesia il suo immaginario fa vivere come originalmente vuoti, «calco vuoto di una corporeità che è tanto più forte in quanto assente»(24) e quindi nonsoggetti, o meglio soggetti solo in quanto animati dall’immagine dell’io e dal suo desiderio. Ad un’attenta esamina dei testi di Poesia in forma di rosa, alla ricorrenza insistita del termine “corpo”, non corrisponde nessuna corporalità, intesa come descrittiva materialità del corpo dell’altro, ma c’è al suo posto una topica di frammenti, di oggetti parziali. Se proprio nel 1964, Il visibile e l’invisibile di Merleau-Ponty richiamava al pensiero di un corpo come datità e fatticità, individuato da una percezione capace di rendere tattile anche lo sguardo (come se gli occhi fossero un «frammento di materia»(25) ), Pasolini – che non a caso si presenta ripetutamente «come un cieco» – ci mostra corpi totalmente astratti, indica cioè concrezioni già concettuali, immagini. Gli elementi o parti di corpo a cui Pasolini fa ricorso in Poesia in forma di rosa per riferirsi ai giovani adolescenti oggetto del suo desiderio sono di fatto sempre i medesimi: i capelli – anche nella variante di ciuffo – la fronte, la nuca, gli occhi:

«in quella faccia / dove l’attaccatura dei capelli / alla fronte, i ciuffi, le onde sono grazia più che corporea»;
«apparve / un’altra pettinatura, un'altra nuca, / nera, forse, o castana»; «ardore di occhi azzurri, / fronte virile, capigliatura innocente», «occhi castani, / nel modesto ciuffo pettinato». 

Dagli esempi forniti è evidente che nei testi il corpo viene ridotto a volto, faccia, a quelle «amate facce di ieri» che proprio nell’Abiura sono dette ormai ingiallire come vecchie foto, immagini, appunto. Le restanti parti del corpo vengono indicate unicamente per via metonimica, attraverso l’abbigliamento, ridotto comunque a pochissimi elementi carichi di valenze erotiche: i calzoni o la maglietta 

(«quei corpi, coi calzoni dell’estate, / un po’ lisi nel grembo»; «vestiti a festa, in blu, in nero, senza cappotti, […] gruppi di giovinottelli, /coi ciuffi, o le nuche placidamente tosate»; « i maschi, tutti giovani, coi calzoni di tela leggera»; «ragazzi con blue jeans color carogna e magliuccie bianche aderenti», «vestiti blu, leggeri, e il gonfiore / sotto la fila dei bottoni sacri»). 

Soffermiamoci però per un momento sugli elementi che caratterizzano questi volti: Bazzocchi individua nella capigliatura, al centro dell’indagine sociologica di Pasolini a partire dal famoso articolo del 7 gennaio 1973, Il «discorso» dei capelli26, una riflessione sul corpo che oscilla tra idealizzazione erotica e irretimento nelle maglie del potere.(27) Se può apparire geniale far parlare i capelli per narrare il mutamento antropologico avvenuto in Italia dal dopoguerra in avanti, non si spiega comunque la fissazione dell’autore per quella che è solo una tra le diverse parti del corpo. I capelli, infatti, possono anche stare per il corpo ma ciò non significa che la corporalità possa essere ridotta ai capelli, o alle nuche rasate. Se ciò avviene è perchè gli elementi corporei utilizzati da Pasolini sono così altamente stilizzati e desoggettivati da potersi riferire a una medesima persona, o meglio, a una non-persona: bruno, biondo, occhi azzurri, occhi scuri, poco importa («bruno / o biondo, lieve o pesante»).
L’oggetto del desiderio – il corpo dei giovani adolescenti – è insomma svuotato di tutte le sostanze reali ed elevato a ideale astratto, a pura funzione simbolica. Non si tratta di un fatto nuovo od insolito in poesia, anzi, è qualcosa che ha a che fare con l’origine stessa della lirica occidentale: l’esperienza dell’amor cortese, quella di «cantori che si qualificano come trovatori nel Mezzogiorno, come trovieri nella Francia del Nord come Minnesänger nell’area germanica, l’Inghilterra e alcuni domini spagnoli»(28). Che nell’opera di Pasolini sia in atto un fenomeno di stilizzazione del corpo oscillante tra poesia provenzale e stilnovismo, lo sottolinea anche Sergio Parussa, non traendone però le dovute conseguenze. Lo studioso, infatti, sostiene che Pasolini preferisca indugiare nel descrivere il corpo, l’incarnato del volto, il colore degli occhi o dei capelli dei suoi ragazzi piuttosto che il loro carattere o le loro emozioni, al fine di farne spiccare l’inconsapevolezza, il loro essere inconsci(29). A me pare, al contrario, che ad emergere nella fissazione su pochi significanti, ossessivamente ricorrenti, che richiamano proprio agli ingessati stilemi provenzali e stilnovisti, sia invece l’inconscio dell’autore, ed esattamente per via di ciò che manca a quei corpi: la descrizione, intesa però come percezione, oggettività o, più pasolinianamente, realtà. Quelle di Pasolini sono tuttalpiù prosopografie, ritratti rigidamente codificati secondo il modello medievale della descriptio puellae – seppur ribaltata in una descriptio pueris – ma parimenti impersonali, astratte, sine materia. Se considerata da questa prospettiva, la poesia di Pasolini è davvero assimilabile alla logica che governa la ‘gaia scienza dei trovatori’, per utilizzare l’espressione che dà il titolo ad un saggio di Mario Mancini, proprio perché nei suoi testi poetici è presente, di fronte al corpo dell’altro, un «orrore segreto per la descrizione, per la percezione, per ogni possibile intrusione dell’oggettività»(30), poiché solo nell’elusione del corpo altro da sé si può manifestare il fantasma del desiderio del soggetto. È quantomeno interessante che proprio all’inizio degli anni sessanta Jacques Lacan si stesse dedicando, nel suo capitale seminario intitolato L’etica della psicoanalisi, ad una sorprendente lettura dell’amor cortese attraverso la metafora dell’anamorfosi.
Per lo studioso francese l’oggetto del desiderio può essere percepito solo se visto di sbieco, in maniera parziale e distorta, poiché se si tenta di osservarlo direttamente non vi scorgiamo nulla, o meglio, arretriamo nel trovarvi iscritto il nulla, la figura del padrone assoluto, la morte, proprio come nel famoso dipinto Gli ambasciatori di Holbein, che se osservato da una certa angolazione permette di scorgere un teschio sospeso tra le due figure dove prima appariva solo un oggetto apparentemente amorfo. Se è facile individuare nel rovescio della morte un sicuro riferimento alla poesia di Pasolini, presa nell’ossessiva autorappresentazione della propria fine, è comunque opportuno obiettare che al centro della poesia provenzale vi sia la donna, e che l’amor cortese rimandi alla codificazione dell’erotismo eterossessuale. Ad autorizzare l’ipotesi della lettura che sto avanzando è però lo stesso Lacan, quando sostiene che in realtà «la creazione poetica consiste nel porre, secondo il modo della sublimazione dell’arte, un oggetto che chiamerei spaventoso, un partner inumano»(31). Privata di ogni sostanza reale la donna al centro della lirica cortese, e poi di quella stilnovista, funge solo da specchio su cui proiettare gli ideali narcisistici dell’uomo. La dialettica dell’amor cortese presenterebbe dunque una base narcisistica perché «quando si ama è solo questione di sé, della propria immagine, colta nella specularità dell’altro»(32).
Un «famelico e instancabile Narciso»(33) è al centro anche della poetica di Pasolini, a partire dalla raccolta friulana degli esordi, Poesie a Casarsa (1942), dove i testi sono orientati – il giudizio è di Contini – su una «posizione violentemente soggettiva».(34) Fu proprio il grande critico ad individuare per primo nel “cùarp” di quella lingua minore che è il friulano reinventato da Pasolini, tracce di un «trovadorismo cividalese, dove quei bravi anonimi intendono porsi all’altezza dei giullari di provenza, dei notai meridionali»(35), rinvenendo poi nel «rimpianto narcissico» del donzèl e del lontàn frut preciadôr i senhal dell’amor de lohn e di midons(36).
A indirizzare la diagnosi continiana di un Pasolini «autentico félibre»(37), era stato lo stesso autore, che aveva tratto l’esergo delle Poesie a Casarsa da una lirica di Peire Vidal, letta con tutta probabilità nel volume del 1938 di A. Cavaliere, Cento liriche provenzali.(38) Interessante che proprio in Poesia in forma di rosa Pasolini ritorni a quelle atmosfere «da indicibili / azzurrini di Linguadoca…se non da siciliane / azzurrità di Origini» (Progetto di opere future) chiarendo che ancora «il vecchio poeta è “ab joy” / che parla, come lauzeta o storno» (Vittoria), con un chiaro riferimento alla famosa canzone di Bertran de Ventadorn, Quan vei la lauzeta mover.
Nel saggio che apre «il Meridiano» contenente Tutte le poesie di Pasolini, Fernando Bandini ha ricordato che il termine félibre rimanda etimologicamente al poppare del neonato(39), a una situazione infantile, tanto che Rinaldo Rinaldi, nella sua articolata monografia pasoliniana del 1982, rilegge attraverso la chiave offerta dalla fase dello specchio lacaniana l’esperienza narcisistica delle poesie friulane. Lo studioso ripercorre le varie fasi di rispecchiamento del soggetto infans, dapprima nel naturale, poi addirittura nella vertiginosa simmetria dei testi, sino al suo risolversi, in una figura esterna ed autonoma, cristallizzata nei volti dei giovinetti, «volti nei quali il soggetto continua a riconoscersi, come dentro a specchi viventi»(40):

Un fanciullo si guarda nello specchio,
il suo occhio gli ride nero.
Non contento guarda nel rovescio
per vedere se è un corpo quella Forma.
Ma vede solo un muro liscio
o la tela di un ragno maligno.
Scuro torna a guardare nello specchio
la sua Forma, un barlume nel vetro.(41)
[Suite Furlana, vv. 1-8]

In questo testo, che esplicita nei versi successivi l’identificazione del soggetto con il fanciullo-Narciso («Io fanciullo, guardo nello specchio», v.9) e che nel tardo ripercorrere – calpestando – La nuova gioventù, verrà condensato dall’autore completamente sulla prima persona, appare evidente che il corpo è già concepito come Forma (si noti la lettera maiuscola dell’originale), immagine dell’io risultante dal rispecchiamento che unifica la prima percezione frammentaria che il soggetto ha del proprio corpo, tanto che ancora in Poema per un verso di Shakespeare i corpi dei ragazzi appaiono come «poetiche, anonime forme / di gioventù». Anonime, si badi bene. Da Suite furlan emerge inoltre che questo processo di identificazione secondaria che assimila per riduzione il corpo al viso del fanciullo segue a un primitivo contatto con lo sguardo dell’Altro, quello della madre («dietro lo specchio mia madre fanciulla», v. 25). Il volto si presenta però come un buco nero per il soggetto, superficie aperta sul vuoto («nero», «scuro», «muro») perché luogo del nascondimento della mancanza originale che impedisce la consistenza del soggetto, proprio come è vuoto il posto della donna nell’amor cortese, che funziona solo come buco nero attorno al quale si struttura il desiderio del partner(42).
In Giovinezza di Gide o la lettera e il desiderio, Lacan rievoca l’immagine – probabilmente ben presente anche a un Pasolini avido lettore dell’opera dello scrittore francese – di una forma di donna velata, la madre, che dietro al velo mostra essere solo un buco nero(43). Qualcosa di simile si delinea anche in quella che Pasolini presenta a Gennariello – adolescente napoletano immaginato come destinatario delle lettere pedagogiche poi confluite in Lettere luterane – come la prima immagine della propria vita:

La prima immagine della mia vita è una tenda, bianca, trasparente, che pende, credo immobile, da una finestra che dà su un vicolo piuttosto triste e oscuro. Quella tenda mi terrorizza ed angoscia: non come qualcosa di minaccioso o sgradevole, ma come qualcosa di cosmico.(44)

Non è fondamentale credere nella veridicità di questo ricordo per intravedervi una simbolizzazione della presenza e della mancanza materna (il freudiano Fort-Da), dell’apparire e scomparire del suo volto. La struttura in bianco e nero di questa immagine è davvero sufficientemente chiara: il «vicolo triste e oscuro» funziona come buco nero, assenza, mentre la tenda – il velo di Gide – come parete bianca dietro cui può apparire o celarsi il volto materno. Si spiega dunque il valore «cosmico» e angosciante della tenda che può rivelare la pienezza dello sguardo che ci riconosce, appagando il nostro desidero d’essere, o il vuoto. Sul valore di questo ricordo tornerò in seguito, ma mi pare interessante notare che sull’importanza del viso come ‘sistema muro bianco-buco nero’nell’economia soggettiva hanno riflettuto in maniera originale anche Gilles Deleuze e Fèliz Guattari:

il viso costituisce il muro di cui il significante ha bisogno per rimbalzare, costituisce il muro del significante, il quadro e lo schermo. Il viso scava il buco di cui la soggettivazione ha bisogno per apparire, costituisce il buco nero della soggettività come coscienza o passione, la cinepresa, il terzo occhio.(45)

Dopo quanto osservato in precedenza non credo servano ulteriori commenti, ma faccio presente come anche in Poesia in forma di rosa Pasolini sottoponga a un processo di ‘viseificazione’ il corpo dei ragazzi perché attraverso la loro rappresentazione verbale possa emergere – rimbalzando – la propria soggettività, come se i loro volti non fossero che uno schermo cinematografico su cui proiettare, narcisisticamente, il proprio io. È ciò che avviene, parallelamente alla scrittura poetica, nell’esperienza cinematografica dello scrittore, dove la «luce è monumentale» e brucia e sfonda i corpi – seguendo la lettura longhiana di Masaccio(46) – riducendoli a volti in bianco e nero come quelli delle diapositive proiettate dal critico durante le lezioni bolognesi: figure bidimensionali, quasi un affresco, dove si fissa il moto materiale della vita, scolpito in una forma statica: 

«che sfondi, faccia pure / di questi corpi in moto statue / di legno, figure masaccesche / deteriorate, con guancie bianche / e occhiaie nere opache»
(Poesie mondane), 
«con profili di visi masacceschi neri, / controluce, su fondali castamente ardenti…» 
(L’alba meridionale).

Il narcisismo degli inizi della produzione poetica pasoliniana – ancora attivissimo anche all’altezza di Poesia in forma di rosa («narcisismo! Sola forza / consolatoria, sola salvezza!») – concorre dunque a spiegare la riduzione a pochi tratti del volto (occhi, capelli, fronte, nuca) del corpo oggetto di desiderio, mostrando anche come il modello provenzale non abbia agito solo linguisticamente, ma costituisca anche un inconscio serbatoio di stilemi rappresentativi che velano sotto formule convenzionali, circoscritte soprattutto al viso, la valenza simbolica del corpo rappresentato. A riprova di questo, nella raccolta del ’64, sono ancora numerosi i rimandi al possibile scambio tra la propria e l’immagine codificata dei ragazzi, proprio perché il loro corpo stilizzato non è che la proiezione simbolica dell’ideale dell’io dell’autore:

In realtà, io, sono il ragazzo, loro
gli adulti.
[…]
Solo se leggero,
dentro la norma, sano, il figlio
può farmi nascere il pensiero
scuro e abbacinante: solo così gli somiglio
che nella verifica infinita di un segreto
ch’è nel suo grembo impuro come un giglio.
[ La realtà ]

Interessante notare l’associazione tra sesso maschile, impurità e giglio, che esemplifica l’ottica di ribaltamento del modello erotico della lirica tradizionale in cui si muove Pasolini. Il giglio, da sempre simbolo di purezza e candore, è infatti insieme alla rosa, ben più sensuale, metafora del sesso femminile; in questi versi viene invece associato al grembo di un adolescente e a un desiderio «scuro», non senza una inversione qualitativa a livello simbolico. Se riflettiamo invece sulla valenza sessuale del fiore che dà il titolo alla raccolta, e alla sua valenza nella poesia medievale, penso a Guinizzelli, D’Alcamo e allo stesso Dante («Quivi è la rosa che ‘l verbo divino /carne si fece»), risulta interessante lo stupore con cui Michel David coglie «il simbolo ambivalente e violentemente sessuale della “rosa” – stranamente usato per indicare il sesso maschile dei ragazzi, ma pur legato inconsciamente a quello della donna, della madre»(47).

È vero che già nel periodo friulano Pasolini associa la rosa alla madre fruta o fantassuta («tu sei una rosa che vive e non parla», A na fruta) ma anche alla propria sessualità masturbatoria, come fiore candido del proprio seme (la rosa bianca di Suspir di me mari ta na rosa). Colpisce però qualcos’altro nella lettura di David. La “stranezza” dello scambio inconscio tra donna e ragazzi risulta infatti completamente annullata se ci si colloca – come stiamo cercando di fare – nell’ottica dell’amor cortese, dove il ragazzo pasoliniano sta, effettivamente, per la domina. Di questo, mostra inconsciamente di esserne consapevole anche lo stesso David, attraverso quello che Freud chiamerebbe un atto mancato. Perché infatti scrivere «sesso maschile dei ragazzi»? È dunque possibile che ragazzi abbiano sesso femminile? Si rivela così in maniera indiretta che ciò di cui parla Pasolini è il sesso femminile dei ragazzi, cioè che essi occupano – simbolicamente – una funzione tradizionalmente legata alla donna, e giustificabile proprio perché dietro l’immagine narcisistica si nasconde il fantasma di midons, senhal maschile per un corpo femminile. Abbiamo già rilevato che ‘dietro lo specchio’ si trova infatti la figura della madre-fruta, e proprio questo determina la «passionale aspirazione di Narciso a comporsi insieme alla madre in un’immagine eternamente giovane»(48), eternamente filiale (tanto che la rima figlio: somiglio si ritrova – pressoché identica – anche nei primi due versi di Supplica a mia madre) ristallizzata eroticamente nella figura dei ragazzi, ossessivamente indicati come figli:

Quelle nuche! Quei cupi
sguardi! Quel bisogno di sorridere,
ora per i loro discorsi, un poco stupidi,
d’innocenti, ora come per sfida
al resto del mondo che li accoglie:
FIGLI.
[…]
Il mio amore
è solo per la donna: infante e madre.
Solo per essa, impegno tutto il cuore.
Per loro, i miei coetanei, i figli, in squadre
[…] arde
in me solo la carne.
[La Realtà]

Se è già stato più volte sottolineato come la donna si identifichi in Pasolini con una madre-bambina, vero oggetto d’amore, in questi versi si palesa un livellamento della piramide narcisistica in cui madre, figlio e oggetto erotico – i ragazzi – sono parimenti figli, coetanei. Questo drammatico tentativo di esorcizzare l’Edipo (è evidente l’assenza del padre in questa triangolazione filiale), nonostante la lancinante presa di consapevolezza dai toni sfingei di Supplica a mia madre («Per questo devo dirti ciò che orrendo conoscere: / è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia») non fa altro che confermare il continuo intercambio narcisistico dei vuoti corpi-immagine di questi versi, perché «i fanciulli osservati e inseguiti dall’autore sono descritti sempre come calchi, ripetizioni, trasformazioni dell’immagine materna».(49)
Se il narcisismo permette dunque l’accesso a un corpo come Formaviso, immagine dell’ideale dell’io, privo di materialità e di carne, il sesso indicato metonomicamente dalla rosa, dal giglio o semplicemente dalla tela dei pantaloni, rimanda a qualcosa di «oscuro e abbacinante» che riguarda in prima istanza l’io, indicato come «carne tra questi spiriti». Rivolgendo per un attimo la nostra attenzione ad Orgia, testo teatrale composto da Pasolini negli anni Sessanta e in cui enuclea con forza drammatica il tema del corpo e della sessualità attraverso il complesso rituale sadomasochistico della coppia protagonista, possiamo rinvenire un’interessante definizione di carne, utile per stabilire un principio d’ordine anche nell’ottica del desiderio:

Pensavo, giusto, alla carne.
Ma non alla carne bella, con la sua dignità,
del viso, delle spalle, della nuca.
No: ma alla carne dov’è più carne, e quindi muore.
La grazia di un viso o la fierezza
Di un paio di spalle o l’innocenza di una nuca,
non muoiono. Ma ciò che la stoffa di un paio di calzoni
(in un riserbo severo e quasi immacolato)
protegge, se rigida, e, se molle,
stinta e gualcita, rivela quasi infantilmente
-con brutale innocenza- questo muore.(50)

Pasolini evidenzia in questo passaggio due diversi concetti di carne: la carne bella, coincidente con il volto colto sino al limite delle spalle, e la carne più carne, identificata in via metonimica con il sesso maschile “velato” dalla stoffa dei calzoni. Interessante notare che la carne bella, connotata di dignità, grazia, innocenza, è espressione di un «volto immortale», immagine dell’incorruttibilità attribuita all’immagine dell’io, esattamente come bellezza, dignità e grazia sono attributi del volto della donna al centro della lirica trobadorica poi codificata dallo stilnovismo, da Dante, da Petrarca. Il sesso maschile si presenta invece con tutta la veemenza esercitata dalla castrazione, la morte. Il desiderio, dunque, in quanto relazione a una mancanza fondamentale del soggetto, alla sua sottrazione di essere originaria, trova nel corpo simbolico dei ragazzi, corpo in frammenti, il proprio congiungimento con la morte, almeno stando a Lacan: «la vita non è presa, nel simbolico, che frammentata, decomposta. L’essere umano stesso è in parte fuori della vita, partecipa all’istinto di morte»(51).
Nonostante Pasolini sia considerato un autore di nudi (emblematico Teorema del 1968, nel quale appare per la prima volta sugli schermi cinematografici un nudo maschile integrale), in poesia la nudità del corpo è assente e, nello specifico, il sesso maschile può essere solo intravisto nel «riserbo severo e immacolato» dei calzoni. Se, come abbiamo appurato, il corpo degli adolescenti pasoliniani è insieme corpo proprio e corpo della madre, la nudità del sesso viene esorcizzata in quanto evidenza della mancanza del corpo materno, della «Cosa che deve essere sempre “velata” dal simbolico, tenuta a distanza, perché non sia distruttiva per il soggetto»(52). Il nudo è dunque intollerabile per l’integrità dell’Io («terrificante come ogni nudità»). Nel volto invece – corpo viseificato, corpo-sguardo – si può compiere un’identificazione non traumatica tra madre e ragazzi, tanto che nella «grazia di un viso» di fanciullo, vera e propria Gnade trobadorica, è possibile scorgere anche quella grazia materna da cui si genera l’angoscia per la propria omosessualità (cfr. Supplica a mia madre). Il viso è dunque una zona d’indistinzione che supera il corpo e lo idealizza attraverso la sublimazione, sottraendolo alla materialità, come avviene in Dante con Beatrice:

che raggio
di luce li colpisce, in quella faccia
dove l’attaccatura dei capelli
alla fronte, i ciuffi, le onde sono grazia
più che corporea?
[La Realtà]

E stato detto che Dante costituisce la «spina dorsale autobiografica»(53) pasoliniana almeno fino alla Divina Mimesis, che è già presente come idea nel poemetto del 1964 Progetto di opere future. Qualcuno ha anche sostenuto l’ipotesi di un Pasolini dantesco più di «qualsiasi altro scrittore dei nostri giorni»(54) ma ciò che è certo è solo che negli anni Sessanta la presenza di Dante nella sua opera si fa davvero importante. Se non è difficile spiegare le ragioni della sensibilità dello scrittore per la «secolare radioattività del preziosismo fossile dantesco»(55) da Commedia, rinvenibile copiosamente anche in Poesia in forma di rosa,56 non si comprendono le ragioni che hanno sin ora escluso dall’indagine il Dante stilnovista, che rielaborando il modello cortese, trasforma addirittura il corpo di Beatrice, ben prima dell’inumano trekking paradisiaco culminante nella forma della rosa mistica, in allegoria. Proprio citando Dante, Lacan ci ricorda che «non si parla mai d’amore in termini così crudi come quando la persona è trasformata in una funzione simbolica»57. Proprio un corpo simbolico ridotto a «labbia» (tratti del viso, secondo Contini) pare imporsi crudelmente anche nella poesia di Pasolini, tanto che la dialettica tra soggetto e oggetto del desiderio sembra quasi modularsi su un testo canonico della Vita Nuova come Tanto gentile e tanto onesta pare. Sono l’onestà e la purezza, infatti, tratti caratteristici dei giovani pasoliniani («gli amici giovinetti / immuni da ogni atto disonesto», «ragazzo dalla faccia onesta / e puritana»), e persino la madre si configura come «paurosamente umile e onesta», due aggettivi che riconducono facilmente al Dante stilnovista.
Anche in un poemetto come Pietro II, che ripercorre le tappe del processo per vilipendio alla religione seguito all’uscita de La ricotta, c’è un accenno alla canzone della Vita nuova:

I suoi occhi non osano guardare, c’è in essi
il rovescio della luce. La faccia sbianca
e s’empie di chiazze rosse, perversa. L’io soffre
un’inestetica erezione: ha per sé un amore infelice.

Non occorre che mi soffermi sul valore salutare dello sguardo della donna nella lirica stilnovista per individuare in questi versi un evidente ribaltamento ironico, tutto riflesso sulla propria persona, del dantesco «che gli occhi no l’ardiscon di guardare», e nel contempo della fenomenologia del malato d’amore (Lacan parla della poesia medievale come di una «scolastica dell’amore infelice»(58) ). D’altra parte, nel Secretum, anche Petrarca traccia il profilo dello schiavo d’amore proprio attraverso «il pallore e la magrezza e il languire anzitempo del fiore della gioventù».(59) «Schiavo malato» è anche Pasolini che si descrive «col viso sfornato / dalla Febbre, pelle bianca secca e barba» (La ricerca di una casa), proprio perché è la privazione dello sguardo dell’altro (madre, oggetto erotico, potere…) a deformare il soggetto: 

«e non ci voleva nulla, ahi, a deformare / 
questa sua forma, già incerta ai loro sguardi» 
(La persecuzione).

Ma non è certo solo lo sguardo di Beatrice ad aver mediato tra Pasolini e l’amor cortese: proprio riferendosi a Lacan, in un suo densissimo saggio sul Canzoniere di Petrarca, Stefano Agosti definisce il corpo di Laura come corpo morcelé(60), corpo in frammenti, composto di oggetti parziali come gli occhi e le chiome che, non a caso, si riflettono nei corpi evocati da Pasolini, fatti solo di occhi, capelli e sguardi. Secondo lo studioso, l’isolamento o l’ingrandimento totalizzante di una o più parti dell’oggetto del desiderio sarebbe indice di un vedere non percettivo ma fantasmatico, preso all’interno di una visione che è forma pura della struttura simbolica, sguardo dell’altro. Scrive Lacan:

Quando si avanza nella direzione di questo vuoto centrale, in quanto è finora in questa forma che ci si presenta l’accesso al godimento, il corpo del prossimo si frammenta.(61)

Ecco perché i corpi dei giovani pasoliniani si presentano come nebulose d’organi, «trionfo di membra in cui bisogna riconoscere l’oggetto narcisistico di cui abbiamo evocato la genesi»(62); occhi, nuche, capelli si giustappongono in maniera irrelata intorno al vuoto del soggetto.
Impossibile non rilevare in questa partizione la riduzione dei singoli elementi a oggetti feticcio, anzi, il corpo dell’altro, «utilizzato come una protesi per aggirare i conflitti preedipici o le angosce di morte e disintegrazione del sé»(63) diviene un oggetto perverso, quel feticcio impersonale che Khan descrive attraverso l’immagine del patchwork o del collage.(64) Lo stesso Mancini ci ricorda che l’eros medievale «nella sua fenomenologia essenziale, è dominato dal feticcio della domna»(65) dove più della persona conta «la vocazione di feticcio di una parte del suo corpo»(66).
Proprio come avviene in Petrarca, che traghetta il modello lirico medievale verso gli approdi dell’umanesimo, anche in Pasolini il disconoscimento del soggetto passa per il riconoscimento nelle forme frammentate della struttura simbolica, nei corpi in frammenti oggetto di un erotismo feticistico. Se Lacan può sostenere l’evidenza del «carattere inumano dell’oggetto dell’amor cortese»(67) ciò è perché feticizzare, disumanizzare, l’altro è indispensabile per la sopravvivenza dell’io, cioè perchè l’immagine che si è narcisisticamente costruita attraverso le identificazioni non venga scalfita, né si modifichi. L’inumanità del partner però, che vieta qualsiasi relazione empatica, apre agli scenari del masochismo amoroso che governano anche la logica dell’amor cortese, e alla violenza masochistica dell’eros pasoliniano, dove l’amante non teme altro che di essere esaudito, di essere privato della propria schiavitù.(68) Ce lo ricorda anche Roland Barthes nel suo Frammenti di un discorso amoroso, nel capitolo dedicato alla cortezia intitolato Domnei: «io mi smarrisco nella dipendenza ma, ciò che è più – altro tranello – sono umiliato da questo smarrimento»(69).

21 P.P.PASOLINI, Abiura dalla Trilogia della vita, in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, pp.599-603
22 J. LACAN, La pulsione di morte, in Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino, p. 267
23 P.P.PASOLINI, Petrolio, Torino, Einaudi, 1992.
24 D. BARINA, Al caro estinto: il paesaggio come corpo nel cinema di Pier Paolo Pasolini, in Corpo e scrittura, a cura di A.GEIGER, UNIservice, Trento, 2003, p. 100
25 M. MERLEAU-PONTY, cit., p.
26 P.P.PASOLINI, Scritti corsari, in Saggi sulla politica e sulla società, cit. p. 271-277
27 M. A. BAZZOCCHI, cit., pp. 11-24
28 J. LACAN, L’amor cortese a mo’ di anamorfosi, in Il seminario. Libro VII, cit. p. 185
29 S. PARUSSA, L’eros onnipotente. Erotismo, letteratura e impegno nell’opera di Pier Paolo Pasolini e Jean Genet, Tirrenia Stampatori, Torino, 2003, p. 25
30 M. MANCINI, La gaia scienza dei trovatori, Pratiche, Parma, 1984, p. 21
31 J. LACAN, L’amor cortese a mo’ di anamorfosi, cit., p. 192
32 M. MANCINI, cit., p. 16
33 A. ZANZOTTO, Pasolini poeta, in Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, Milano, 1994, p. 154
34 G. CONTINI, Al limite della poesia dialettale, in «Corriere del Ticino», 24 aprile 1943, ora in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, a cura di R. BROGGINI, Edizioni A. Salvioni e Co., Bellinzona, 1981
35 Ibidem
36 Cfr. la dedica del libro a Contini: «A Gianfranco Contini con “amor de loinh», proveniente dalla canzone Lanquan li jorn son lonc en mai di Jaufre Rudel.
37 ID., Dialetto e poesia in Italia, in «L’Approdo», aprile-giugno 1954, p. 13. Conferma viene anche dallo stesso Pasolini che parla dell’ Academiuta di lenga furlana come di una «sorta di modesto félibrige» e afferma di aver scritto in primi versi friulani «senza conoscere neanche un poeta in questa lingua, e leggendo invece abbondantemente i provenzali», in Lettera dal Friuli, in P. P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, 1999, p. 174
38 A. CAVALIERI, Cento liriche provenzali, Bologna, 1938
39 F. BANDINI, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2003, p. XVIII
40 R. RINALDI, Pier Paolo Pasolini, Mursia, Milano, 1982, p. 10
41 «Un frut al si vuarda tal spieli, / il so vuli al ghi rit neri. / No content tal redròus al olma / par jodi s'a è un cuàrp chè Forma. // Ma al jot doma che il mur vualìf / o la sgiarpìa di un ràin ciatìf. / Scur al torna a vuardà tal spieli / la so Forma, un barlùn tal veri.»
42 S. ŽIŽEK, Courtly Love, or, Woman as Thing, in The Metastases of Enjoyment, Verso, London-New York, 1994, p. 94
43 J. LACAN, Scritti. Volume II, Einaudi, Torino, 1974, p. 749
44 P. P. PASOLINI, Lettere luterane, in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano, 1999, p. 567
45 G. DELEUZE-F. GUATTARI, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Cooper Castelvecchi, Roma, 2003, p. 250
46 R. LONGHI, Gli affreschi del Carmine, Masaccio e Dante, in Da Cimabue a Morandi, Mondadori, Milano, 1973
47 M. DAVID, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino, 1966
48 G. SANTATO, cit. p. 13
49 E. LICCIOLI, La scena della parola. Teatro e poesia in Pier Paolo Pasolini, Le Lettere, Firenze, 1977, p. 126
51 J. LACAN, Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 1991, p. 117
52 A. DI CIACCIA - M. RECALCATI, Jacques Lacan, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p. 201
53 W. SITI, Descrivere, narrare, esporsi, in P. P. PASOLINI, Romanzi e racconti, Mondadori, Milano, p. CXIV
54 S. VAZZANA, Il dantismo di Pasolini, in Dante nella letteratura italiana del Novecento, (Atti del Convegno di Studi Casa di dante – Roma, 6-7 maggio 1977), Roma, Bonacci, 1979, p. 279
55 M. S. TITONE, Cantiche del Novecento. Dante nell’opera di Luzi e Pasolini, Olschki, Firenze, 2001, p. 95.
56 «Libito far licito» (Inf. V, 56); «Il cui pane certo non sa di sale» (Pd. XVII, 58); la luce «prava» (Inf. XVI, 9), (Pd. IX, 25); «la virtù dismaga» (Pg. III, 11); «Ara vos prec» (Pg. XXVI, 145); «Fioco per lungo silenzio» (Inf. I, 63); «Il bel paese dove il no suona» (Inf. XXIII, 20); «sapore di sale del mondo altrui» (Pd. XVII, 58).
57 J. LACAN, L’amor cortese a mo’ di anamorfosi, cit., p. 190.
58 Ibidem
59 F. PETRARCA, De secreto conflictu curarum mearum, Garzanti, Milano
60 cfr. S. AGOSTI, Gli occhi le chiome. Per una lettura psicoanalitica del Canzoniere di Petrarca, Feltrinelli, Milano,1993
61 J. LACAN, Il godimento della trasgressione, in Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 257
62 ID., I complessi famigliari nella formazione dell’individuo, Einaudi, Torino, 2005, p. 60
63 R. DALLE LUCHE, L’amore perverso. Eros melanconico e per versificazione, in Malinconia d’amore. Frammenti di un apsicopatologia della vita amorosa, Edizioni ETS, Pisa, 2001, p. 217

64 MASUD M. KHAN R., Le figure della perversione, Bollati Boringhieri, Torino, 1982
65 M. MANCINI, cit., p. 11
66 ivi, p. 12
67 J. LACAN, La pulsione di morte, in cit., p. 273
68 «Come pensava allora ai troubadours, che nulla temevano di più dell’essere esauditi!», R. M. RILKE, I
quaderni di Malte Laurids Brigge, Garzanti, Milano 1974, p. 207
69 R. BARTHES, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 1979, p. 79

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