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mercoledì 19 febbraio 2014

ACCATTONE, 1961 - Angela Molteni aprile 1997

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





ACCATTONE, 1961
Articolo di Angela Molteni

La drammaticità e la tragicità della "storia" che Pasolini narra nel film è sottolineata, fin dall'apparire dei titoli di testa, dalla musica della Passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach, quasi ad accostare la squallida povertà, morale e materiale, della vita del sottoproletario urbano alle terribili sofferenze del Cristo condannato a morte. Accattone è il personaggio centrale delle vicende narrate, un "povero Cristo", emarginato da una società di benpensanti borghesi quale quella che Pasolini sfidava e criticava senza indulgenze. Non a caso, quella stessa società che perseguitò letteralmente il poeta-regista poiché questi osava dichiarare implicitamente - nel film, come nelle opere letterarie - la propria solidarietà, la propria simpatia per i piccoli delinquenti, per i sottoproletari romani, per la vita dei "diversi", dei "relitti" umani. Accattone è, appunto, la realistica rappresentazione di un povero essere umano, frustrato e senza speranza nel futuro, senza volontà di riscatto, così come sono i suoi compagni di strada. La società "normale", quella borghese (alla quale - è da tener presente - anche Pasolini apparteneva; ed è anche da questa appartenenza che traggono origine i motivi persecutori, anzi, i linciaggi esercitati nei suoi confronti) è rappresentata nel film soltanto attraverso la presenza di alcuni funzionari e agenti di polizia. Ed è chiaro come la pensi Pasolini nei confronti di questi ultimi: riserva loro modi autoritari, sbrigativi, repressivi, punitivi, antipatici; nelle mani del poliziotto in borghese al quale è assegnato il compito di spiare le mosse di Accattone per coglierlo in flagrante vi è un foglio, "Candido", un periodico della destra neofascista. Non vi sono altre raffigurazioni di questa società, "altra" rispetto al mondo vissuto da Accattone e dai suoi compagni, e ciò rafforza il concetto di separazione, di indifferenza, di non considerazione, di non riconoscimento reciproco: mondi diversi e che si ignorano vicendevolmente. Nel film ho trovato descritta, più in generale, un'umanità senza lavoro, priva di futuro, che vive alla giornata di espedienti, di miseri lavori, duri e malpagati ("...poi, quando uno c'ha bisogno... basta ch' è lavoro..." "Te pagano bene?" "Tanto pe' non mori' de fame", è il dialogo, essenziale, tra Accattone e Stella. E quando anche questi mancano, la vita quotidiana è fatta di "stravaccamenti" intorno al tavolino di un baretto, di piccoli furti, di ricettazione, o di un "artigianale" quanto subito abortito sfruttamento della prostituzione. Così è fatta la vita quotidiana di Accattone, così è quella dei sottoproletari confinati nelle periferie delle grandi città, ci dice Pasolini. Se aggiungessimo le tossicodipendenze, lo scenario sarebbe esattamente quello dei nostri giorni... L'attualità, la "modernità" di Pasolini è qui, in questa denuncia di condizioni di isolamento, di "non esistenza", di disperazione e di emarginazione: le stesse di oggi. Condizioni che fanno sì che le vittime affidino le loro vite, il loro futuro - inesistente - ai propri carnefici. O, in altre parole, che - qui e ora - il sottoproletariato urbano in una città come Roma voti in massa per la destra, per esempio. Oppure, per fare un altro esempio, che i supersfruttati operai del celebratissimo Nordest suppongano che la soluzione di tutti i problemi stia nel neoliberismo e nel cosiddetto "mercato". Vi sono nel film rari momenti di amara ironia, come nell'episodio della "spaghettata" di Accattone e dei suoi amici nella baracca di un altro disperato loro pari ("Sbrigatevi a butta' giù 'sta pasta sennò famo la fine de quelli de Norimberga") e di sana filosofia popolare ("A 'sto mondo, più bene fai, più calci in faccia ricevi"). Ma un elemento che certamente non è secondario, un elemento attraverso il quale Pasolini costruisce e rafforza i messaggi che intende trasmettere con le sue figurazioni, è costituito dalla musica e... dai silenzi. Nella sequenza del "sogno" di Accattone, quella che personalmente ho più apprezzato, la suggestione maggiore è proprio dovuta al silenzio, all'assenza assoluta di suoni che non siano lo scambio di pochissime parole tra Accattone, coloro che seguono il suo funerale, il becchino, e il respiro, quasi un lamento, di Accattone che sogna. Geniale. Trasmette fino in fondo l'angosciante sensazione della morte pre-sentita, lo struggimento di non poter neppure contare su una fossa esposta al sole... Definitiva e terribile conferma dello spregio che lo circonda in vita e in morte. Agli stornelli o a spezzoni di canzoni popolari con testi "rivisitati" sono affidati momenti di aperto sarcasmo o di ironia di Accattone e della combriccola cui spesso si accompagna. Nel momento più tragico, quello della morte, insieme alle ultime parole di Accattone ("Ah, mo' sto bbene"), viene riproposto Bach. Il "Corale" della Passione secondo Matteo, che nel film è eseguito da soli strumenti, contiene un testo che mi piace riportare, poiché mi pare l'esatto coronamento della frase del protagonista: "Siamo seduti in lacrime / e ti chiamiamo nella tomba: / dormi tranquillo, dormi in pace! / Riposate, stanche membra! / Dormi tranquillo, dormi in pace!"

Angela Molteni aprile 1997
Fonte:
http://pppasolini.altervista.org/articoli.htm

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La ricotta - Testo di Angela Molteni aprile 1997

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 
 
La ricotta
testo di Angela Molteni

"Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sentiranno colpiti infatti cercheranno di far credere che l'oggetto della mia polemica sono la storia e quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e che i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti", è una premessa che Pasolini stesso fa al suo film La ricotta. Un altro film fuori dagli schemi di una rappresentazione tradizionale e di una iconografia asservita. Un altro lavoro, dopo Accattone e Mamma Roma, nel quale il fine primo dell'autore è quello di trasmettere messaggi politico-sociali; nel quale non sono da sottovalutare tuttavia alcuni elementi che cercherò qui di seguito di mettere in luce. Vi sono alcuni segni "forti" della grande ricchezza culturale di Pier Paolo Pasolini: - le citazioni figurative (l'accostamento alla pala d'altare del Pontormo); - i richiami che ha inserito nel film (alcune sequenze accelerate sia nelle immagini sia nella musica ricordano il film muto e in particolare il primo Chaplin, amatissimo da Pasolini); - l'utilizzo sempre sapiente della musica: un Dies Irae arcaico, un "Sempre libera degg'io" dalla Traviata di Verdi - titolo oltremodo significativo se solo si consideri l'effettivo grado di libertà dei figuranti e di Stracci, il protagonista che recita la parte del Ladrone buono (e ancor più significativo se si fa attenzione alla trasformazione subita da quest'ultimo brano: una grottesca, quasi parossistica accelerazione che trascina la musica in un irrefrenabile "zumpa-pa-zumpa-pa" che si avvita su se stesso...). È il terzo film di Pasolini e in esso, ancora una volta, il registra privilegia una storia che fa capo agli strati più umili ed emarginati della società - tutte le comparse, i generici, i figuranti del "film nel film" la cui storia viene narrata (e che rappresenta la Passione di Cristo) sono dei sottoproletari, dei "morti di fame" in senso letterale, come ci dirà lo stesso Pasolini attraverso l'"enorme mangiata" di ricotta rappresentata quasi a conclusione del film e della vita stessa di Stracci. Ma, per la prima volta nel cinema pasoliniano, compare anche la borghesia, nei panni rozzi e volgari del produttore e del suo entourage. E viene anche "messa in scena" l'"integrazione sociale" cui sembra essere pervenuto il regista "marxista" (interpretato da Orson Welles). La pellicola fu sequestrata con l'imputazione di "vilipendio alla religione di Stato" (1963): nelle numerose pagine in cui il presente commento è inserito se ne parla molto ampiamente. Quindi non mi soffermo più di tanto sul processo che ne seguì e nel quale, tra l'altro, il Procuratore della Repubblica Di Gennaro presentò ai "cattolici benpensanti" il film come "il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio". Sull'onda delle vicissitudini giudiziarie, al film saranno apportati alcuni tagli: le tre ripetizioni de "la corona!", lo spogliarello della generica Maddalena, la risata del generico Cristo; si sostituisce l'ordine "via i crocefissi!" con "fare l'altra scena!", l'espressione "cornuti" con "che peccato", la frase finale "povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione" con "povero Stracci! crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo"! Soltanto nel maggio 1964 la Corte d'appello di Roma, accogliendo il ricorso di Pasolini, assolverà il regista perché "il fatto non costituisce reato". Le critiche e le motivazioni della persecuzione giudiziaria, come Pasolini stesso aveva previsto, erano dettate dalla malafede. Pasolini aveva diretto, in effetti, attraverso questo film, un attacco frontale nei confronti della borghesia e questo era il motivo vero che scatenò ancora una volta la canea nei suoi confronti. Il senso di questo attacco è contenuto essenzialmente nelle parole qui sotto riportate, pronunciate dal regista-Orson Welles e dirette al giornalista che gli chiede una intervista: "Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?" "Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo." "Che cosa ne pensa della società italiana?" "Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d'Europa." "Che cosa ne pensa della morte?" "Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione" "Qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico Fellini?" "Egli danza... egli danza..." Il regista-Orson Welles, dopo aver letto una poesia ("Io sono una forza del passato...), tenendo tra le mani il libro Mamma Roma, dice infine al giornalista (mentre quest'ultimo idiotamente ride): "Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste... Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione... e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale... Addio." In un breve scitto del 1961, infine, Pasolini così si espresse: "Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando [La ricotta] ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di "imitatio Christi", quell'irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l'esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene".

NULLA MUORE MAI IN UNA VITA:

è una frase che può essere convintamente e affettuosamente rivolta proprio a Pier Paolo Pasolini.
Angela Molteni aprile 1997

* Le citazioni sono tratte da Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano.

Fonte:
http://pppasolini.altervista.org/articoli.htm

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Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Angela Molteni giugno 1997

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

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Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Angela Molteni

Un commento a questo film richiede una premessa sia pure breve, poiché un elemento drammatico, dal quale non è possibile prescindere, ne segna il cammino: la tragica morte di Pasolini avvenuta prima che il montaggio fosse compiuto. È chiaro che tutte le critiche che si rovesciarono sul film non trovarono più il principale interlocutore. Sul film, però, nel corso della sua lavorazione, Pasolini ebbe modo di esprimersi in svariate circostanze. Saranno quindi in primo luogo i suoi scritti, le sue interviste o alcuni commenti di critici particolarmente acuti che ci permetteranno di comprendere più chiaramente i contenuti, i significati e i messaggi dell'ultimo film del regista. Occorre però tracciare, almeno per sommi capi, alcuni punti fondanti che presiedono alla realizzazione del film. Dopo Il fiore delle Mille e una notte, Pasolini aveva in mente la realizzazione di alcuni altri progetti cinematografici, tra cui un film su San Paolo, che avrebbe dovuto intitolarsi Bestemmia: "Ho sempre fatto film col sole […] adesso farò un film tutto di pioggia […] Evidentemente, questa mia violenza contro la Chiesa è profondamente religiosa, in quanto accuso san Paolo di aver fondato una Chiesa anziché una religione. Io non rivivo il mito di san Paolo, lo distruggo". Un altro progetto aveva come tema l'Ideologia: "Una cometa (l'Ideologia) trascina dietro a sé un Re Magio [Pasolini prevedeva per questo ruolo l'interpretazione di Eduardo De Filippo], il quale, seguendola, viaggia a lungo, facendo dunque esperienza dell'intera realtà". Si veda a questo proposito la lettera sottoriportata del 24 settembre 1975 con la quale Pasolini - dopo aver girato Salò - propone a Eduardo di fare il film, che si sarebbe chiamato Porno-Teo-Kolossal. Roma, 24 settembre 1975 Caro Eduardo, eccoti finalmente per iscritto il film di cui ormai da anni ti parlo. In sostanza c'è tutto. Mancano i dialoghi, ancora provvisori, perché conto molto sulla tua collaborazione, anche magari improvvisata mentre giriamo. Epifanio lo affido completamente a te: aprioristicamente, per partito preso, per scelta. Epifanio sei tu. Il "tu" del sogno, apparentemente idealizzato, in effetti reale. Ho detto che il testo è per iscritto. In realtà non è così. Infatti l'ho dettato al registratore (per la prima volta in vita mia). Resta perciò, almeno linguisticamente, orale. Ti accorgerai subito infatti, leggendo, di una certa sua aria un po' plumbea, ripetitiva, pedante. Passaci sopra. Mi era impossibile - per ragioni pratiche - fare altrimenti. Io stesso l'ho letto per intero oggi - poco fa - per la prima volta. E sono rimasto traumatizzato: sconvolto per il suo impegno "ideologico", appunto, da "poema", e schiacciato dalla sua mole organizzativa. Spero, con tutta la mia passione, non solo che il film ti piaccia e che tu accetti di farlo: ma che mi aiuti e m'incoraggi ad affrontare una simile impresa. Ti abbraccio con affetto, tuo Pier Paolo Nel 1974, dopo la vittoria (12 maggio) dei "no" al referendum sull'abrogazione del divorzio (un "no" che aveva ricevuto una tiepida adesione da parte dei comunisti, preoccupati soprattutto che questa contesa sul divorzio potesse turbare i sentimenti religiosi degli italiani), Pasolini pubblica sul "Corriere della Sera" l'articolo "Gli italiani non sono più quelli" (ora in Scritti corsari [edito da Garzanti] con il titolo "10 giugno 1974. Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia", ampliato poi da un altro articolo dell'11 luglio 1974). "L'ansia del consumo è un'ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l'ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice, nell'essere libero: perché questo è l'ordine che egli inconsciamente ha ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di sentirsi "diverso". Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L'uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo." Rispetto a questi scritti pasoliniani vi fu una vivace reazione dei comunisti e si accese una dura polemica prima con Maurizio Ferrara, poi con Italo Calvino e Franco Ferrarotti; Pasolini inviò una lettera aperta a Calvino, pubblicata sul "Corriere della Sera", alla quale replicarono, oltre allo stesso Calvino, Alberto Moravia, Franco Fortini, Umberto Eco, Giorgio Bocca e Natalia Ginzburg. Questi sono gli stati d'animo, questo il clima generale, questo il quadro che fanno da sfondo alla decisione di Pasolini di appropriarsi di un progetto che Sergio Citti stava esaminando. Citti pensava, infatti, di produrre una sceneggiatura dalle Centoventi giornate di Sodoma di De Sade. Pasolini fa proprio il progetto (Sergio Citti, con Pupi Avati, saranno poi collaboratori alla sceneggiatura), sviluppa l'idea che sorregge il romanzo di De Sade del "piacere" della violenza, delle sevizie, della perversione sessuale, e traspone l'originaria ambientazione settecentesca nella repubblica di Salò del 1944: "L'idea mi è venuta da Le centoventi giornate di Sodoma, questa specie di sacra rappresentazione mostruosa, al limite della legalità. Mi sono accorto tra l'altro che Sade, scrivendo pensava sicuramente a Dante. Così ho cominciato a ristrutturare il libro in tre bolge dantesche [in effetti il film sarà strutturato in un antinferno e tre gironi, ndr]. Ma l'idea di sacra rappresentazione peccava di estetismo, occorreva riempirla di immagini e contenuti. Quattro nazifascisti fanno dei rastrellamenti; il castello di Sade dove portano i prigionieri, è un piccolo campione di lager. Mi interessava vedere come agisce il potere dissociandosi dall'umanità e trasformandola in oggetto." Occorre infine tener conto, nel formulare o nel proporre conclusioni sull'ultima opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini, di quella che è una filosofia di fondo, riferita al cinema, del pensiero pasoliniano: "A mio parere, il cinema è sostanzialmente e naturalmente poetico [...] perché ha il carattere del sogno, perché è vicino ai sogni, perché una sequenza cinematografica è la sequenza cinematografica di un ricordo o di un sogno e non solo questo, ma le cose in se stesse sono profondamente poetiche: un albero fotografato è poetico, un volto umano fotografato è poetico, perché la fisicità è poetica in sé, perché è un'apparizione, piena di mistero, piena di ambiguità [...] Il cinema di poesia è il cinema che adotta una particolare tecnica, proprio come un poeta adotta una particolare tecnica per scrivere versi. Se si apre un libro di poesie, si riconosce immediatamente lo stile, il modo di rimare e tutto il resto: si vede la lingua come strumento, si contano le sillabe di un verso. L'equivalente di quello che si vede in un testo poetico lo si ritrova in un testo cinematografico, attraverso gli stilemi, ossia attraverso i movimenti di macchina e il montaggio. Per cui fare un film è essere poeti." A metà febbraio 1975 iniziano le riprese di Salò nelle campagne intorno a Mantova. Il 25 marzo, in una autointervista sul "Corriere della Sera" Pasolini tra l'altro scrive: "Il sesso in Salò è una rappresentazione, o metafora, di questa situazione: questa che viviamo in questi anni: il sesso come obbligo e bruttezza. […] Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto) che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c'è in Salò (e ce n'è in quantità enorme) è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione (magari onirica) di quella che Marx chiama la mercificazione dell'uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento). Dunque il sesso è chiamato a svolgere nel mio film un ruolo metaforico orribile. […] [Le mie Centoventi giornate di Sodoma si svolgono a Salò nel 1944], e a Marzabotto. Ho preso a simbolo di quel potere che trasforma gli individui in oggetti […] il potere fascista e nella fattispecie il potere repubblichino. Ma, appunto, si tratta di un simbolo. […] In realtà lascio a tutto il film un ampio margine bianco, che dilata quel potere arcaico, preso a simbolo di tutto il potere, e abbordabili alla immaginazione tutte le sue possibili forme. […] Nel potere - in qualsiasi potere, legislativo e esecutivo - c'è qualcosa di belluino. Nel suo codice e nella sua prassi, infatti, altro non si fa che sancire e rendere attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, diciamolo ancora una volta, degli sfruttatori contro gli sfruttati. […] I potenti di De Sade non fanno altro che scrivere Regolamenti e regolarmente applicarli". Pasolini ha concepito questo film, dunque, in un momento storico in cui percepiva lucidamente, attraverso tutto ciò che stava accadendo attorno a lui (la violenza, la corruzione, la caduta verticale dei valori, l'imposizione di miti consumistici, l'omologazione sociale e culturale) il grado di sfacelo di un intero paese e il crimine di un potere "tritacoscienze" che agiva - e agisce - in nome di una democrazia solo nominalmente, formalmente tale, una situazione di cui gran parte di noi italiani avrebbe cominciato a prendere coscienza solamente sul finire degli anni Ottanta. È interessante osservare come alcuni intellettuali abbiano percepito e commentato i contenuti dell'ultima opera cinematografica pasoliniana. Nell'esame di Enzo Siciliano, per esempio, vi sono due riflessioni che considero particolarmente interessanti: quella sull'"estraneazione teatrale" di scuola brechtiana e quella di una serie di brutalità orrende - radicali e totali - che i nazifascisti della repubblica di Salò avrebbero potuto credibilmente compiere. Torturare e uccidere, anche attraverso rivoltanti perversioni sessuali, era per i carnefici nazifascisti una possibilità concreta e non un frutto della "invenzione", o delle "fantasie distorte" di Pasolini (si veda il commento contenuto in queste Pagine corsare, e per molti versi ignobile ["Nulla ci può difendere dall'inganno"], del critico cinematografico Giovanni Grazzini. Mi verrebbe da dire: "Nulla ci può difendere dall'inganno del critico…"). Ma vediamo ciò che dice tra l'altro Enzo Siciliano: "Salò o le 120 giornate di Sodoma è una sorta di saggio critico per immagini. Tema del saggio, nel quale il romanzo postumo di Sade viene assunto come provocazione intellettuale, è la mentalità concentrazionaria nazifascista, istigatrice di violenza. Ma i suoi temi sono anche la trasgressione e la morte. […] Sade mette in bocca ai propri personaggi discorsi di incontinente verbosità e narrazioni di una programmatica astrattezza. Ebbene, tanto spreco di parole e discorsi ha un fine preciso: ridurre l'azione romanzesca a rito e a emblema. In Salò, ritualismo e emblematicità sadiani filtrano interi. I personaggi di Les 120 journées de Sodome interpretano, sulla pagina scritta, le proprie azioni al modo degli attori, non coincidendo mai con esse. Si verifica così un calcolato scollamento fra ciò che dicono e ciò che fanno. Pasolini punta deliberatamente a questo scollamento, a questa "estraneazione teatrale", di cui Brecht è stato il teorico. Salò, film "brechtiano", film "critico", film ritualistico, si apre con immagini di campagna padana: i nazifascisti vi compiono razzia di giovani. […] la cerimonia avrà inizio una volta che la razzia è accuratamente ultimata. […] Il potere è anarchia, dice Pasolini: il potere vuole abolire la storia e sopraffare la natura. Storia e natura possono essere abolite e sopraffatte attraverso il sesso. La cronaca dei fatti umani suggerisce che durante la repubblica di Salò, col dominio dei nazisti, una tale sopraffazione, radicale e totale, avrebbe potuto compiersi. Ecco, quindi, nel film sotto il suggerimento di Sade, rendersi esplicita la metafora di quella apocalisse". Il drammaturgo e critico Serafino Murri, nel suo importante intervento pubblicato qualche anno fa, pone l'accento su diversi aspetti del film e su alcune traversie che ne hanno caratterizzato la lavorazione. Ma è una sua considerazione che, in particolare, ha richiamato la mia attenzione: "Ciò che è certo, è che Pasolini, pur mettendo in conto la sua morte, non aveva alcuna intenzione di fermarsi". È noto, infatti, che Pasolini era già stato oggetto di aggressioni, di minacce, e che era letteralmente "accerchiato" da una sorda ostilità: è possibile che in più d'una occasione abbia anche temuto per la sua vita. Ma a fronte di una persona che dice di se stessa, come egli fece, dopo Salò: "Un nuovo regista. Pronto per un mondo moderno", è priva di fondamento un'ipotesi che insinui che "sia andato volontariamente in cerca di qualcuno che lo suicidasse" (si veda ancora il commento di Giovanni Grazzini). Ed ecco uno stralcio delle riflessioni di Murri: "Salò è di certo un film estremo, che risponde alla sfida della Tolleranza rappresentando tutto ciò che viene rimosso dall'immagine che la società dà di sé: la violenza e la perversione, reintegrate al finto candore televisivo di cui la nuova classe politica si fa scudo per imporre i suoi dettami, non possono che provocare indignazione e scandalo. Il film fu girato con difficoltà, tra le frequenti ribellioni degli attori, che cercavano di rifiutarsi di eseguire i gesti osceni e di pronunciare le battute in maniera così cruda ed esplicita come li aveva immaginati il regista. Ma Pasolini, durante la lavorazione, non ha mai smussato alcuna di queste punte, e ha cercato di rappresentare consapevolmente "il cuore della violenza" con una freddezza e una lucidità espressive quasi maniacali: "Se uno deve cadere a terra morto, glielo faccio ripetere mille volte finché sembra proprio un corpo che cade morto. Insomma, un punto di perfezione formale che mi serve per chiudere in una specie di involucro le cose terribili di De Sade, del fascismo". Pasolini non fece in tempo a vedere, completo di montaggio, il suo film sul Potere. Quando Salò o le centoventi giornate di Sodoma fu proiettato in anteprima al Festival di Parigi, il 22 novembre del 1975, il regista era già morto da tre settimane. Molti hanno interpretato la sua morte per assassinio come una sorta di "suicidio per procura", un gesto volutamente provocato da un uomo stanco di vivere, che cercava il pericolo e l'autoannullamento. Altri, rifacendosi alla violenta escalation della sua polemica politica degli ultimi mesi (era giunto a sostenere che occorreva una nuova Norimberga per la Dc), hanno adombrato il sospetto di una morte "non casuale", senza credere all'autonomia della colpevolezza di Giuseppe Pelosi, il ladruncolo minorenne che lo aveva ucciso. Ciò che è certo, è che Pasolini, pur mettendo in conto la sua morte, non aveva alcuna intenzione di fermarsi. Che Salò potesse essere soggetto a traversie giudiziarie che vanno dall'imputazione per oscenità a quella di corruzione di minori, durate a fasi alterne fino al 1978, era prevedibile; e che le reazioni nell'opinione pubblica non avrebbero potuto essere di tacitante indifferenza, era l'aperta ambizione del regista: "Questo film va talmente al di là dei limiti, che ciò che dicono sempre di me dovranno poi esprimerlo in altri termini. È un nuovo scatto. Un nuovo regista. Pronto per un mondo moderno", aveva detto Pasolini in una delle sue ultime interviste. […] si preparava dunque, Pasolini, a dare battaglia all'indifferenza, a turbare l'inquietante "sdrammatizzazione" operata dal Potere, in quel mondo oltre la fine del mondo dipinto con Salò?." Pasolini, infine, in una intervista, dichiarò: "Chi potrebbe dubitare della mia sincerità quando dico che il messaggio di Salò è la denuncia dell'anarchia del potere e dell'inesistenza della storia? Eppure così enunciato tale messaggio è sclerotico, menzognero, pretestuale, ipocrita, cioè logico della stessa logica che non trova affatto anarchico il potere, e che trova esistente la storia, anzi, pone ciò come un dovere. La parte del messaggio che pertiene al senso del film è immensamente più reale, perché include anche tutto ciò che l'autore non sa, cioè l'illimitatezza della sua stessa restrizione sociale storica. Ma tale parte del messaggio è imparlabile, non può che essere lasciata al silenzio e al testo"

Angela Molteni giugno 1997

Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino 1989
Ibidem
Pier Paolo Pasolini, Lettere 1955-1975 (a cura di Nico Naldini), Einaudi, Torino 1988
Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro Editore, Milano
Nico Naldini, cit.
Ibidem
Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze 1995

Fonte:
http://pppasolini.altervista.org/articoli.htm


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IL VANGELO SECONDO MATTEO - di Angela Molteni luglio 1997

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IL VANGELO SECONDO MATTEO

Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo
di Angela Molteni
 
Sul Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini
(da: Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro, Milano)

La gestazione del progetto d un film "sulla religione", che risale al 1962 (più o meno ai tempi in cui il regista girava La ricotta, attraversò diverse fasi, in cui tanto il soggetto ipotetico del film, quanto lo spirito, la chiave stilistica in cui affrontarlo, mutarono più volte, a testimonianza dell'enorme inquietudine con cui Pasolini affrontava questo delicatissimo nodo della propria formazione intellettuale. La prima ipotesi era quella di realizzare un film sulla vita di San Francesco (cosa in parte realizzata parodisticamente solo in seguito, con Uccellacci e uccellini), la quale si trasformò lentamente dapprima nella vita di un santo "poverello" finito, come eretico, ucciso dalle guardie del Papa, poi nel soggetto originale di Bestemmia, storia di un Accattone del Medioevo che a un certo punto della sua vita fonda un ordine, piuttosto blasfemo, che si pone in antagonismo al papato dell'epoca e che per questo verrà stroncato miseramente; di quest'ultimo soggetto Pasolini realizzerà un "racconto in versi", edito soltanto di recente. Contemporaneamente al progetto dell'autunno 1962 di realizzare la trasposizione cinematografica della vita di Cristo così com'è narrata nel Vangelo di San Matteo, Pasolini scrisse un soggetto, mai realizzato, dal titolo di Sant'Infame. In questo soggetto, apparentemente non molto dissimile dallo spirito dissacratorio di La ricotta, è possibile identificare, già nettamente tracciate, le coordinate della riflessione sul senso dell'esistenza che sostanzieranno sia Il Vangelo secondo Matteo che Uccellacci e uccellini (quello che segue è il testo scritto da Pasolini): "Mandato controvoglia, con uno stratagemma, dai genitori in seminario (raccontato in un'osteria tra ladri). Scappa dal seminario, e torna nell'ambiente da cui è venuto: un ambiente di miseria e perversione (una borgata di una grande città). Il seminario l'ha peggiorato, involgarito, ecc., in quanto gli ha fatto perdere l'innocenza del suo rapporto col male. Il vizio e la delinquenza sono perciò veramente sporchi: egli vi cade fino in fondo. "Arricchisce un po', poi la miseria. Prospettive di un futuro di miseria. Finge il pentimento: finge un rinnovarsi della vocazione religiosa. Si fa riprendere nel seminario. Ne esce prete. Attua la sua ambizione di successo e di miglioramento economico, nell'assurda idea di diventare un santo o qualcosa di simile. Organizza - con la pazienza dei santi, e aiutato dalla sua malizia di ex-ladro e truffatore, dal suo cinismo diabolico, dalla sua mancanza di ogni senso morale, e dalla volgarità derivante dal suo rapporto impuro col peccato -, riesce a organizzare una città di ragazzi: e, insieme, a simulare la santità. Viene creduto un santo, o qualcosa di simile. Egli, di nascosto, continua a fare la sua vita sensuale di ragazzo di borgata, frequenta magnaccia, puttane ecc. Prende la sifilide. La cura clandestinamente ecc. (ricatti possibili ecc.), e nella vita normale, continua a fingere la santità. Egli è sempre stato malaticcio (per questo i genitori l'hanno mandato al seminario, ecc.). La sifilide gli porta un'altra grave malattia ecc. Una malattia mortale, che gli causa delle sofferenze atroci. Questo torna a favore del suo inganno di santità: è costretto a non occuparsi altro che della sua città di ragazzi e delle sue opere di bene, ecc.; e la malattia lo tormenta atrocemente. In questa situazione di santo, muore; in tutto come un santo vero". Con l'apologo appena abbozzato di Sant'Infame, Pasolini demistifica (abbassandolo al livello della concretezza e della meschinità umana) il valore "sociale" della santificazione, ma nello stesso tempo espone una tesi più complessa, che riguarda la santità "per sé" del protagonista, così come nel Vangelo riguarda la divinità "per sé" di Cristo. Sant'Infame è l'esemplificazione dell'ambiguità della santità, della sospensione del mito della santità tra la volgare autoesaltazione, piena di spirito di emulazione in fondo anche un po' ingenuo, e la vera, concreta sofferenza, psicologica come fisica, vissuta per raggiungere, follemente, la propria posizione di singolarità definitiva, di privilegio morale sugli altri. E, in fin dei conti, in Sant'Infame viene descritta l'impossibilità di discernere la mistificazione dalla verità, l'ambizione dalla realtà di fatto, dal momento che la Storia non esiste, ma esiste solo l'effetto della Storia sulle tante storie personali, delle quali, come in questo caso, conta unicamente la fine, la morte. Lo stesso irrefrenabile sentimento irrazionale della propria "unicità", che spinge cialtronescamente l'immaginario Sant'Infame a millantare la santità fino a non poterla più distinguere, nella sofferenza, da una santità vera, spinge il personaggio storico Cristo, nella sua lotta contro l'ipocrisia religiosa senza concessioni alla tentazione del potere, a porsi come figlio di Dio. E se questa affermazione, che gli causerà la morte per il reato di "bestemmia", su un piano irrazionalistico può essere sostanziata solo dalla "fede" intesa come credenza disarmata nel Mistero, cosa che Pasolini non accetta, è pur vero che in un altro senso, più razionale, per Pasolini Cristo è divino, di una divinità laica, nella misura in cui "in lui l'umanità è così alta, rigorosa, ideale, da andare al di là dei comuni termini dell'umanità".

Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo
di Angela Molteni

Su richiesta di Alfredo Bini, produttore del Vangelo secondo Matteo, nel giugno 1963 Pasolini si recò in Palestina, insieme a don Andrea Carraro della Pro Civitate Christiana di Assisi, per visitare - e riprendere - i luoghi della narrazione evangelica. Il viaggio in Giordania, Galilea e Siria si protrasse per una quindicina di giorni, toccando in particolare Nazareth e Betlemme, Gerusalemme e Damasco, senza che peraltro Pasolini riuscisse a decidere, superando le perplessità iniziali, se girare o meno il film in quelle località (si aggiunga che Israele era permanentemente in guerra e che, in quelle condizioni, girare un film non sarebbe stato affatto agevole; oltretutto, a ciò era particolarmente sensibile il produttore). Alla fine il regista non fu per niente convinto dell'opportunità di realizzare il film in quei luoghi e il materiale girato rimase inutilizzato. Pasolini provvide unicamente a doppiarlo improvvisando un proprio commento "in tempo reale" nella sala di doppiaggio. Nel filmato sono messi in particolare risalto due elementi: - l'enorme squilibrio arrecato al territorio, alle popolazioni e al paesaggio da un selvaggio e incontrollato "progresso tecnologico" (espansione edilizia a Betlemme, grattacieli a Nazareth), tale che il mondo biblico "appare, ma riaffiora di tanto in tanto come un rottame"; - i volti, le espressioni della gente comune le "solite facce, tetre, belle, dolci, [di una] dolcezza animalesca precristiana" degli arabi poveri; facce, espressioni che sono le stesse dei sottoproletari di tutto il mondo. Nel suo commento, Pasolini dice tra l'altro: "Per me spirituale corrisponde a estetico, non religioso. La mia idea che le cose quanto più sono piccole e umili, tanto più sono grandi e belle nella loro miseria, ha trovato uno scossone estetico, un'ulteriore conferma". Commenta Murri nel suo Pier Paolo Pasolini (Il Castoro, Milano): "Il viaggio in Terrasanta fallisce nel suo scopo principale, quello di individuare alcuni luoghi intatti, così come doveva vederli Cristo durante la sua vita, ma diviene per il regista un tuffo suggestivo tra le macerie di una storia inconclusa e irriconoscibile, da cui trarrà linfa l'ispirazione antiretorica del Vangelo". Pasolini ricostruì dunque i luoghi del Vangelo secondo Matteo nel Sud dell'Italia: Puglia, Lazio e Calabria divennero i luoghi della Galilea così com'era duemila anni prima e la Palestina fu "ricostruita" in Basilicata.

Angela Molteni luglio 1997

Fonte:
http://pppasolini.altervista.org/articoli.htm


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