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mercoledì 30 luglio 2014

Pasolini - Perché allo Strega no e al Festival sì - l’ultima stagione pasoliniana, corsara e luterana - Terza parte

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 


UNIVERSITÀ DEGLI STUDI "ROMA TRE" ROMA 
DOTTORATO DI RICERCA 
IN 
STUDI DI STORIA LETTERARIA E LINGUISTICA ITALIANA 
XXII CICLO 
TESI DI DOTTORATO 
1968-1975:
l’ultima stagione pasoliniana, corsara e luterana




Candidato:                                                                                        Docente tutor: 

Andrea Di Berardino                                                 Chiar.Mo Prof. Giuseppe Leonelli 



ANNO ACCADEMICO 2008 / 2009  
ANDREA DBERARDINO 


Indice capitolo 1 - 1968: bisogna «gettare il proprio corpo nella lotta»

 

Una chiusa così battagliera, dove si prospetta una lotta senza quartiere contro lo sconosciuto Moloch che sta marciando minaccioso sulla società italiana, sembra subire una parziale smentita appena una settimana dopo, con la lettera aperta al direttore della mostra cinematografica veneziana («Ho cambiato idea per farla cambiare»)(193). In base ad uno stratagemma retorico ripetutamente sperimentato, Pasolini mostra al lettore lo sviluppo dialettico in fieri del proprio pensiero, senza aggirarne o nasconderne le incoerenze, anzi cercando sempre di portarle a galla e motivarle:
 
Caro Chiarini,
dopo aver scritto su queste stesse colonne del “Giorno” le ragioni per cui ho deciso di mandare al tuo Festival il mio film dissentendo così con l‟Anac e tutte le altre formazioni culturali e politiche che si erano allineate nel contestarlo, oggi succede un fatto nuovo e inaspettato (anche a me stesso): non mando più il mio film al Festival di Venezia così come era ufficialmente – e sia pure fortunosamente e con grande e imperterrita passione da parte tua – istituito. Che cosa è successo, che mi ha fatto prendere una diversa decisione?
E qual è questa decisione?(194)
 
Come rivela il successivo capoverso, si tratta in realtà di un cambio di rotta più formale che sostanziale. Teorema, infatti, sarà comunque proiettato a Venezia, l‟invio del film seguirà tuttavia un iter differente da quello tradizionale (inizialmente preventivato dal regista):
 
Rispondo prima alla seconda domanda. Io mando il mio film a Venezia attraverso l'Associazione autori cinematografici (Anac) anziché attraverso la normale organizzazione da te diretta: questo significa che aderisco alla “occupazione di lavoro” durante la quale saranno proiettati i film (da te invitati) e verrà elaborato il nuovo regolamento della Mostra.(195)
 
Nelle parole del diretto interessato, il ripensamento s‟inquadra in un contesto mutato rispetto a qualche giorno prima: «gli autori cinematografici soci dell‟Anac hanno accolto [...] le esigenze per le quali ero in disaccordo con loro»(196). In particolare, è cambiata la posizione che l‟associazione dei cineasti ha assunto verso le tre istanze pasoliniane: proiettare in ogni caso i film; ridimensionare la questione Festival («che solo in ordine di tempo può essere la prima di una serie di azioni serie per il rinnovamento del cinema italiano»(197)); troncare al più presto la becera polemica contro il direttore della mostra, trasformato in capro espiatorio dalla disonestà intellettuale e dalla virulenza verbale del «fascismo di sinistra». Ciononostante, persiste in Pasolini la scarsa simpatia – per usare un eufemismo – nei confronti di qualsiasi forma di ribellismo violento e fine a se stesso: «confermo anche pubblicamente, scrivendolo anzi in maiuscolo, che io considero il Comitato di boicottaggio alla Mostra una cosa velleitaria, un po‟ ridicola e profondamente antipatica»(198). Beninteso, insomma, questo riavvicinamento alla posizione dei colleghi contestatori non va messo sullo stesso piano di un‟adesione incondizionata:
 
La mia riunione con l‟Anac sul problema del Festival non è affatto una adesione alla linea tenuta finora dall‟Anac; e non si aggiunge quindi alla frana di adesioni che si è registrata in questi ultimi giorni; niente affatto: la mia adesione all‟Anac implica un cambiamento della sua linea politica. Tanto è vero, aggiungo, che se qualcosa del vecchio spirito con cui finora l‟Anac – meglio un gruppo di soci più ingenui e aggressivi dell‟Anac – ha lottato, dovesse ancora manifestarsi, io darei subito le dimissioni dall‟associazione. Non temo nessuna contraddizione, nessuna marcia indietro, nessun ridicolo: sia chiaro.(199)
 
Fiancheggiare più che marciare insieme: è la posizione tipica del “compagno di strada” – simile a quella cui Pasolini si conformò anche nei rapporti con il PCI dopo l‟espulsione dal partito a seguito dei fatti di Ramuscello (1949)(200) –, ovvero di chi garantisce il suo appoggio, sovente dall‟esterno, ma nel contempo vigila e non esita a ricoprire il ruolo di “coscienza critica”. Il monito orgoglioso che rivendica la propria libertà di scelta introduce la seconda parte dello scritto, nella quale viene riconosciuto a Chiarini l‟impegno profuso negli anni passati alla presidenza della rassegna lagunare, un periodo tra l‟altro costellato da oggettive difficoltà («hai avuto contro la destra più volgare [Luigi Chiarini era «un socialista appartenente all‟ala moderata del PSU»(201]) oltre ai potenti organismi industriali ecc.»(202)). I passaggi salienti dell‟articolo restano comunque quelli della terza e ultima parte, dove viene spiegato al destinatario perché è sbagliato intestardirsi in una querula autodifesa (e forse si sottintende che è arrivato il momento di dimettersi dall‟incarico, o comunque di riconsiderarlo in una luce diversa). Infatti, qui il discorso si slarga da una ristretta prospettiva personalistica ad una dimensione collettiva, chiamando in causa il moto di protesta giovanile che stava scuotendo l‟Occidente:
 
Ora sei vittima – ingiustamente, dal punto di vista personale e umano – di una situazione che trascende tutte le nostre persone e i nostri singoli casi umani. E si tratta di una situazione totalmente nuova, che tu hai torto di non voler riconoscere. La novità assoluta di questa situazione rende inutili i tuoi sacrosanti appelli a ciò che hai fatto di giusto e di buono prima che tale situazione si verificasse. Intendo parlare di ciò che è stato fatto quest‟anno dai giovani in tutto il mondo, creando appunto quella situazione “irreversibile” che mette in crisi te, me e tutti quelli che hanno operato in questi decenni.(203)
 
Pasolini trova così modo di ribadire la propria posizione dinanzi alle rivendicazioni rumorosamente avanzate dai «figli», toccando di sfuggita una volta ancora gli equivoci e le ambiguità che questa contestazione porta con sé:
 
Tu sai la mia reazione a questo avvento dei nostri figli sulla scena su cui finora abbiamo operato noi: ciò che ne ho colto pubblicamente subito sono stati soltanto i pericoli (il fascismo di sinistra, il perpetuarsi e il farsi definitivo di quel vecchio spirito borghese ormai lontano da quella Resistenza che gli intellettuali hanno vissuto a fianco degli operai); sai anche però ciò che penso degli uomini della nostra generazione che si sono resi succubi della violenza giovanile; e sai infine quanto io sia cosciente dell‟eterna tattica strumentalizzatrice dei partiti, stavolta esercitata sui giovani. Dunque non sono sospetto di falsi entusiasmi, di equivoche tenerezze, di fughe nel nuovo.(204)
 
Nel contempo, però, accenni in qualche misura palinodici emergono tra le righe prima di giungere, più distintamente visibili, in superficie. Infatti, il conflitto generazionale alla base dei movimenti di protesta ha risvegliato nello scrittore una riflessione ormai da tempo sepolta sotto la coltre di una cattiva abitudine:
 
Tuttavia devo dire che l‟“avvento” dei figli mi ha dato coscienza, da una parte, del fatto di essere “padre”, e quindi di dover adempiere come padre, fedele, forzatamente, a certe vecchie abitudini di “prima”, che non potrò mai perdere, sia le buone che le cattive; dall‟altra parte – insieme a molti uomini della mia età – mi sono accorto di essermi abituato al fair play con la società borghese, la cui idea negativa – il male borghese – si era cristallizzata dentro di me, in una lenta perdita della fiducia a estirpare tale male, e ad averne addirittura bisogno, come di un momento dialettico interiore: così insomma come i cattolici hanno bisogno del peccato.(205)
 
A distanza di alcuni mesi dai polemici versi del PCI ai giovani!!, Pasolini riconosce quindi alla contestazione del ‟68 di avergli offerto l‟occasione per analizzare in un‟ottica nuova il personale rapporto con la società borghese:
 
L‟azione dei giovani ha smosso questa cristallizzazione del bene e del male dentro di me: mi ha dato la capacità a sperare, e magari a sperare ancora ingenuamente: a sperare, dico, di ottenere dei risultati, ma subito, adesso. Mi sono accorto che per uomini come noi, nati sotto il fascismo, la realizzazione anche dei più elementari diritti “democratici” (dico democratici e non ancora socialisti) è sempre sembrata un sogno: cioè qualcosa per cui lottare, senza sperare di raggiungere. I giovani invece non considerano più, con tutta naturalezza, la realizzazione dei loro diritti come un sogno.(206)
 
Uno sbuffo – se non proprio una ventata – di aria fresca, capace di rinverdire le utopie adolescenziali, ha scosso lo scrittore-regista (che in campo letterario si percepiva ormai come un sopravvissuto) e ne ha riattizzato la passione sociale e l‟ideologia civile. Direttamente proveniente dal deposito delle illusions perdues, nell‟animo pasoliniano riprende così vigore – almeno per qualche tempo – il marxiano «sogno di una cosa», la speranza della rivoluzione che sappia regalare al mondo la tanto sospirata palingenesi:
 
Ecco perché io agisco come agisco: voglio ignorare che tra le forze della contestazione ci sono dei fascisti di sinistra o, meglio ancora, purtroppo, degli sciocchi, dei falliti, dei nevrotici. Ma voglio pensare soltanto ai puri: a coloro che lottano con ingenuità. Sono i soli che contano. E sono quelli che senza calcolo (i calcolatori si sono individuati subito) hanno cambiato lo stato d‟animo del mondo.(207)
 
Sulla scorta di questo imprevisto ritorno di fiamma, c‟è spazio anche per gli ingenui entusiasmi (l‟autore medesimo, peraltro, non fa fatica ad ammetterli), che nel caso specifico e nell‟immediato lasciano pensare ad una riforma possibile anche per un‟istituzione ufficiale e un po‟ sclerotizzata quale la rassegna veneziana:
 
Per tornare al Festival, mentre fino a un anno fa un‟occupazione di lavoro e una assemblea costituente di lavoro mi sarebbero sembrate delle cose impossibili, incomprensibili e retoriche, oggi invece mi entusiasmano. Certo, tu puoi accusarmi di ingenuità: ma non me ne vergogno affatto.(208)
 
Quella del Festival, poi, sarebbe soltanto la prima tappa di un percorso che, attraverso graduali riforme, porterebbe finalmente a compimento il processo democratico in Italia:
 
Insomma, credo che si possa lottare, con probabilità di successo, per trasformare, almeno, la falsa democrazia in democrazia “reale”. Il Festival di Venezia (meno importante ma più appariscente di tutti), la legge sul cinema, gli enti di Stato, la censura, il codice penale: sono tutti organi, oggi, di falsa democrazia. Perché non lottare (democraticamente, e senza i fanatismi dovuti alla diabolica congiunzione di irrazionalismo e mito dell‟azione) affinché diventino organi di democrazia reale?(209)
 
Quasi in contemporanea con il secondo degli articoli ospitati sulle colonne del “Giorno”, con un pezzo uscito il 27 agosto su “Tempo”, Pasolini replica ad un‟accusa che era peraltro nell‟aria:
 
Su l‟“Unità” dell‟11 agosto, Ugo Casiraghi – che è comunista, e quindi non ha assunto verso il Festival di Venezia una posizione cieca e moralistica come certe erinni del Psiup – cercando di ragionare, con calma, si è proposto di convincere me, Bertolucci, la Cavani e altri italiani invitati alla Mostra di Venezia, a non andarci, cioè ad allinearsi con la “contestazione”.
[...] egli fra le altre cose, mi accusa di incoerenza: cioè mi chiede: perché allo Strega no e al Festival sì?(210)
 
Data subito risposta alla prima richiesta di Casiraghi e confermata quindi l‟intenzione di partecipare a Venezia con Teorema, lo scrittore-regista dedica la parte più cospicua dell‟intervento a dimostrare perché il suo non sia affatto un comportamento contraddittorio. Innanzitutto, la genesi di un testo letterario è scandita da tappe sostanzialmente differenti dalle fasi di produzione di una pellicola cinematografica:
 
Ecco: non si potrebbe mai dire “produrre” un libro (parlo di un libro di autore, per cui la parola “produrre”, anche in senso metaforico, sarebbe offensiva): si dice “fare” un libro. Io “faccio” un libro senza bisogno di produttori: me lo “faccio” da me, in casa mia, con la mia penna, sulla mia carta, “come un vecchio artigiano” che fa vasi, sedie, stivali. Non posso “fare” allo stesso modo un film: per fare un film ho bisogno di un produttore, che lo finanzi, con un numero non esiguo di milioni, e lo organizzi, anche come lavoro puro e semplice.(211)
 
Da ciò deriva che, volendo – perlomeno in via del tutto ipotetica e fors‟anche anacronisticamente utopistica –, si potrebbe evitare di scendere a patti con i meccanismi spietati della volgare mercificazione del libro (sul crinale tra realtà e paradosso, lo scenario dell‟esempio è evocato en poète, visti quei «trenta lettori» di manzoniana memoria):
 
Una volta “fatto” un libro, esso c‟è: è una realtà. Potrei, con pazienza artigiana, ricopiarmelo una trentina di volte, e i trenta lettori così raggiunti farebbero della mia opera una realtà poeticamente e socialmente completa (magari in attesa di fortune maggiori). L‟editore, cioè l‟industria culturale, interviene non per “fare” il libro, ma per “pubblicarlo” e “lanciarlo”. Quindi io, se voglio, posso con un solo rifiuto, semplicissimo, liberarmi di ogni ingerenza industriale e nella fattispecie capitalistica. Ciò mi consente allora di poter fare del moralismo (non fanatico e inutile); per esempio mi consente di ritirare il mio libro dallo Strega, per protestare contro l‟industria culturale che “pubblica” e “lancia” dei libri mediocri, e, attraverso la réclame e ogni sorta di sopraffazione sovverte il reale ordine dei valori letterari. La mia protesta ha senso, perché io non ho bisogno degli editori, posso, se voglio, non compromettermi con loro; “ne sono libero”.(212)
 
Discorso diametralmente opposto vale per un film, nella cui gestazione la compromissione con le logiche industriali è inevitabile, dato che agisce già nel periodo pre-creativo:
 
Un film, invece, per esistere, per essere una realtà artistica e sociale, ha fin dal primo momento l‟assoluto bisogno del finanziamento di un produttore: almeno oggi, nel mondo borghese in cui viviamo. Quindi, non mandare il film alla Mostra, per protestare contro il suo asservimento all‟industria del cinema è immorale (si dice così?) se poi io, per fare quel film e tutti i miei prossimi film, non posso fare a meno dell‟industria cinematografica e mi devo necessariamente compromettere con essa. Insomma è ridicolo protestare contro un festival (che poi fra l‟altro, oggettivamente, ha fatto negli ultimi anni scelte quasi esclusivamente culturali) per poi continuare a fare film coi soldi dei produttori (e non è solo il caso mio: anzi!).(213)
 
Rinunciare a girare dei film equivale dunque al recupero ideale di vecchie istanze luddistiche, che finiscono per arenarsi alla sola pars destruens. Al contrario, la via d‟uscita da una paventata impasse – fare tacere, in nome di una presunta “coerenza”, la cinepresa come la penna, nell‟attesa che passino i mala tempora – coincide con l‟uso critico e consapevole degli attuali mezzi di produzione, accompagnato dall‟inesausto tentativo di rinnovarli e migliorarli:
 
Io sono dunque convinto – poiché “voglio fare” dei film – che il meglio che ancora posso fare è operare, contemporaneamente, su due piani: sfruttare “cinicamente” le strutture industriali esistenti (e qui comprendere in questo cinico sfruttamento, i festival) e, nel tempo stesso, lottare perché i modi di produzione cambino (lottare, per esempio, per una nuova legge sul cinema) e perché i festival diventino – visto che sono pagati dallo Stato – delle rassegne esclusivamente e democraticamente culturali.(214)
 
Sulle colonne del Caos non si rinvengono solamente i propositi pasoliniani alla vigilia della manifestazione veneziana, ma anche i commenti del post-festival e le reazioni ai fatti che resero turbolenta quell‟edizione della mostra cinematografica. È il caso degli interventi pubblicati in data 14 settembre, quando il titolare della rubrica esordisce con il proponimento di calarsi nei panni del cronista testimone diretto degli avvenimenti (il primo paragrafo della serie, introduttivo alla vera e propria ricostruzione dell‟accaduto, è intitolato Che cosa è successo a Venezia(215)):
 
È questa una breve cronaca dei primi giorni della Mostra di Venezia, da cui cercherò di far emergere quello che, secondo me, è il senso reale di quanto è successo.
L‟occupazione della Mostra, decisa dall‟Anac – che la definiva una «occupazione pacifica di lavoro» – e portata avanti da un Comitato di coordinamento formato dalle più svariate forze di opposizione – dai partiti di sinistra, compresa parte del Psu, a una esigua rappresentanza di studenti – si è presentata all‟opinione pubblica come una lotta per la cultura, e quindi solo implicitamente politica.(216)
 
Da queste battute iniziali si evince che l‟obiettivo della breve cronistoria è l‟individuazione della reale componente politica sottesa agli scontri, un aspetto sfuggito agli esponenti dell‟intelligencija, agli organi d‟informazione e perfino agli stessi protagonisti della contestazione. Nella vox populi, infatti, nella città lagunare era andata in scena una battaglia esclusivamente culturale:
 
Ciò ha creato un‟enorme confusione: a) presso gli uomini di cultura, che, sul piano culturalistico, ci rimproveravano di opporci a una Mostra che era effettivamente dalla parte della cultura; b) presso gli operai, che non si sentivano più di accettare l‟equivalenza, tautologica e retorica – buona per tutti gli anni Cinquanta –: lotta per la cultura “progressista” uguale lotta politica; c) presso gli studenti, che si disinteressano, a ragione o a torto, dei problemi strettamente culturali, e che, non essendo vissuti negli anni Cinquanta, non ci pensano nemmeno a operare un‟identificazione aprioristica tra una lotta per la cultura e una lotta politica; d) presso gli osservatori e i giornalisti, che hanno visto nella lotta dell‟Anac semplicemente una misera lotta competitiva col direttore della Mostra.(217)
 
Al contrario – e l‟affermazione apre il paragrafo successivo, Ci sono anche i fascisti(218), che inizia a ricapitolare gli eventi – il carattere pericolosamente politico della protesta è subito apparso evidente ad una ristretta minoranza di osservatori: «Gli unici che hanno avuto subito idee chiare sul senso politico dell‟opposizione alla Mostra, sono stati gli uomini politici: ma non tutti gli uomini politici, bensì gli uomini politici al potere»(219). Per dimostrare la sua tesi, Pasolini si sofferma a ricostruire minuziosamente i tre giorni da sabato 24 a lunedì 26 agosto: la riunione preliminare degli oppositori della Mostra – cioè di coloro che volevano riformarne lo statuto (tra essi c‟era anche il regista di Teorema) – i quali decidono di procedere ad una pacifica occupazione dei locali adibiti ad ospitare la rassegna; le dimissioni del direttore della Mostra – il già citato Chiarini – ed il conseguente passaggio del controllo della manifestazione al Comune di Venezia; l‟incontro tra i dimostranti ed il sindaco, durante il quale viene deciso di affidare la direzione artistica del Festival «a un‟Assemblea formata di diritto da tutti i cineasti» ed incaricata di redigere il nuovo regolamento (scelta che quindi avrebbe sancito l‟«autogestione della Mostra»(220)); l‟improvvisa assemblea dei giornalisti inviati a Venezia, timorosi che il cambiamento potesse rivelarsi un «passaggio violento e demagogico del potere dalle cure culturali di Chiarini alle cure culturali dell‟Anac»(221); il chiarimento immediato da parte dell‟Assemblea del Comitato, che invita i giornalisti a riunirsi con sé; l‟intervento autoritariamente risolutore dello Stato, richiesto dal sindaco a seguito di un brusco voltafaccia, che tramite la polizia fa sgombrare con la forza le sale dove si stavano svolgendo le riunioni – per così dire – “costituenti”; la conclusione della vicenda all‟insegna della violenza e della repressione, visto che tanto i giornalisti quanto i cineasti si trovano presi tra due fuochi: da un lato i poliziotti, dall‟altro gruppi di fascisti (previamente infiltrati nelle file dei contestatori). Pertanto, lo sviluppo e l‟epilogo degli eventi, ingarbugliati agli occhi dell‟opinione pubblica, nel giudizio pasoliniano non lasciano invece adito a dubbi:
 
Ecco perché dicevo da principio che solo gli uomini politici al potere hanno capito che la lotta contro la Mostra è una lotta politica, il cui obbiettivo è una forma di democrazia diretta assolutamente nuova per l‟Italia e forse per l‟Europa. L‟autogestione del microcosmo culturale della Mostra avrebbe costituito un precedente che il potere non avrebbe mai, in nessun modo, potuto accettare.(222)
 
D‟altra parte, la reazione del governo centrale al tentativo di cambiare radicalmente l‟organizzazione della rassegna cinematografica, la dice lunga sulla carica innovativa che l‟iniziativa dei contestatori portava con sé:
 
Se dunque la paura e la violenza di chi è al potere sono la misura per giudicare quali siano i fatti veramente rivoluzionari, la conseguenza è semplice: la paura e la violenza del potere contro il progetto di autogestione di un ente statale, dimostra che questo progetto è un fatto rivoluzionario.
Ma la richiesta dell‟autogestione è una richiesta democratica. Una richiesta democratica è, dunque, rivoluzionaria.(223)
 
Se c‟è una cosa che “giustifica”, nella prospettiva distorta della conservazione del potere, l‟intervento statale a Venezia è proprio l‟equazione tra istanza democratica e azione eversiva. Dal punto di vista di chi impugna il bastone del comando, infatti, scendere a patti con le rivendicazioni riformiste dei “sudditi” tradirebbe l‟incapacità di mantenere il ruolo ed i privilegi acquisiti.
Sette giorni dopo la sintetica cronistoria degli avvenimenti veneziani, Pasolini apre la rubrica su “Tempo” tornando ancora sull‟argomento e stavolta chiamando direttamente in causa un altolocato rappresentante della politica italiana. Il testo – che con il senno di poi assume le sembianze di una “lettera luterana” in piena regola – si articola in due paragrafi, intitolati rispettivamente Lettera al Presidente del Consiglio(224) e Una pretesa di democrazia reale(225), ed è indirizzato all‟onorevole Giovanni Leone, allora capo del governo e futuro presidente della Repubblica. Come ha sottolineato Siciliano, l‟intervento fa un po‟ da spartiacque, poiché introduce un capitolo a se stante nella carriera pasoliniana: «È questo il primo passo di un confronto con la classe politica che Pasolini porrà in atto, aspramente, da questo momento per gli ultimi sette anni della vita: un confronto non astratto, non intellettuale, ma su dettagli specifici»(226). Lo scrittore e l‟uomo politico, come testimoniano le righe iniziali, avevano già avuto occasione di incontrarsi e di dialogare un paio di anni prima (presumibilmente nel 1966):
 
Ci siamo conosciuti – se lo ricorda onorevole Leone? – a una proiezione privata di Uccellacci e uccellini (Lei, come si sono riaccese le luci, mi ha dato sul film il primo giudizio, sospeso ma cordiale); Le posso dunque scrivere non come a un remoto capo del governo, ma come un uomo in carne e ossa, come a un amico.(227)
 
In nome di questa conoscenza, il secondo capoverso espone la materia su cui verte la lettera aperta: «Vorrei porle una domanda precisa (una “interrogazione”?), seguita da altre domande nascenti da una curiosità puramente intellettuale, non implicanti una risposta»(228). Segue la formulazione della «precisa» richiesta, che punta senza tentennamenti al nocciolo della questione:
 
La prima domanda è: per quale ragione il governo da Lei presieduto, e che, appunto perché provvisorio [rimase infatti in carica dal 24 giugno al 12 dicembre del 1968], rappresenta in modo più funzionale e trasparente il potere statale, ne è l‟emanazione diretta e impretestuale, si è dimostrato violentemente ostile a una richiesta così “squisitamente” democratica, com‟era quella delle forze di contestazione contro la Mostra di Venezia (dopo un primo momento, diciamo, eversivo: l‟occupazione, del resto solo minacciata)?(229)
 
Attorno al nucleo costituito dalla domanda citata ruotano, alla maniera di vari elettroni, le altre incalzanti richieste pasoliniane, inframezzate ad osservazioni pungenti, lontane dalla diplomazia e aliene dai giri di parole. Innanzitutto viene ripresa e ulteriormente chiosata la protesta dei cineasti, dei quali nella circostanza Pasolini diventa quasi portavoce:
 
Come Lei sa, la nostra richiesta si imperniava su due punti: autogestione, e, quindi, decentramento. Nel momento stesso, insomma, in cui chiedevamo che un ente statale – sovvenzionato dallo Stato – fosse autogestito dagli interessati (nella fattispecie gli autori cinematografici e i critici) era evidentemente una richiesta di “decentramento” del potere dello Stato che noi chiedevamo.(230)
 
A ben vedere le rivendicazioni dei dimostranti, pur presentando i crismi della protesta, erano tutt‟altro che delle pretese aggressive in quanto ambivano al riconoscimento di diritti fondamentali in una società civile:
 
Ma sia l‟autogestione che il conseguente effetto di decentramento del potere – come ho scritto nel “Caos” di una settimana fa – non escono dal quadro di assestamento democratico della nostra società. Non era una richiesta rivoluzionaria, ecco, che noi avanzavamo, e – questo sia ben chiaro – non era neanche una “riforma”. Era semplicemente una pretesa di democrazia reale. Ora, Lei non può essere contro nessuna forma di democrazia reale. La Costituzione italiana vuol essere la Costituzione di una democrazia reale; non rientra nel suo spirito soltanto la necessità (capita solo dopo vent‟anni) di riformare lo Statuto fascista della Biennale (ma perché non il Codice penale fascista?); ma deve rientrare nel suo spirito anche qualsiasi richiesta dei cittadini che pretendano di esercitare i propri diritti entro il quadro di una effettiva democrazia.(231)
 
I governanti, perciò, non avrebbero dovuto opporsi a delle aspirazioni così legittime, che in ultima analisi ponevano sul tappeto «una richiesta di democrazia reale», senza mirare affatto a sovvertire l‟ordine sociale (e il tono requisitorio del passo un po‟ preannuncia gli articoli, della metà degli anni Settanta, sul “processo” ai gerarchi democristiani):
 
Perché dunque, il Suo governo non ha preso nella minima considerazione la nostra più che giustificata pretesa di autogestione, e, anzi, è intervenuto con la violenza? Perché il Suo governo ha difeso così accanitamente il centralismo statale, intaccato solo da una irrisoria richiesta di democrazia diretta, da parte di quattro gatti di autori?(232)
 
Il caso specifico del festival del cinema, poi, sollecita una riflessione, condotta con l‟artificio di una doppia domanda retorica, sulla storia italiana del secondo Novecento:
 
Ma lasciamo stare Venezia (per poi tornarci magari al di fuori di questa maledetta mostra). È, il popolo italiano, in grado di accepire le nozioni di autogestione e di decentramento? Ha mai vissuto, il popolo italiano, non dico un momento di democrazia reale, ma il desiderio di una democrazia reale? Ebbene… sì. Nel ‟44-‟45 e nel ‟68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c‟è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.(233)
 
A onor del vero, qui non è difficile cogliere un po‟ in contraddizione Pasolini. Infatti, l‟affermazione che istituisce un nesso copulativo tra la Resistenza e il Movimento Studentesco, considerando i due fenomeni le «uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano», smentisce i passi del PCI ai giovani!! e di Anche Marcuse adulatore?, dove viceversa si sottolineava tanto l‟indifferenza degli studenti contestatori per la Resistenza (e la vicinanza delle loro lotte piuttosto ai moti costituzionali del 1848), quanto l‟estraneità di propositi realmente rivoluzionari dalle rivolte giovanili, nate e compiute in seno alla borghesia. Tuttavia, come si è già visto nella conclusione della lettera aperta a Chiarini, occorre segnalare che l‟atteggiamento pasoliniano nei confronti della contestazione studentesca conosce vari momenti che non devono essere ritenuti contradditori tout court, ma che vanno inquadrati nell‟ottica di una dialettica di proposito evolutiva, anche a prezzo di alcune apparenti incoerenze (del resto, già i versi in coda alla poesia sui fatti di Valle Giulia assumevano le sembianze di un tardivo ed esplicito pentimento). In ogni caso, subito lo scritto approfondisce le ragioni di un appaiamento così inaspettato, soprattutto per i lettori che avevano ancora fresco nella mente il ricordo della lirica anti-studentesca di qualche mese addietro:
 
Sia nella Resistenza sia nel Movimento Studentesco, la richiesta di democrazia reale veniva convogliata all‟interno di una idea più vasta: l‟idea del socialismo. E ciò è stato e sarà inevitabile. […]
Una richiesta realmente democratica (collettivizzazione, gestione diretta, decentramento del potere) non può essere che socialista: tuttavia permane in essa un momento puramente democratico, al quale nessun Potere ha il diritto, neanche soltanto formale, di rispondere con la brutalità e la violenza.(234)
 
Inoltre, seppur inconsapevolmente, la contestazione giovanile – che, accecato dal culto obsoleto dello statalismo, il Potere si accinge a combattere con la forza (se ne sono avute le avvisaglie proprio a Venezia) – in Italia ha preso di mira un giusto bersaglio:
 
Il Movimento Studentesco (che Lei, come appare chiaro da molti sintomi, si prepara a reprimere con la violenza, in nome di una idea dello Stato ormai vecchia e intollerabile) è ancora una volta esempio, sia pure confuso, della realtà italiana così come storicamente è in questo momento: il Male, il peccato, l‟Errore, per il Movimento Studentesco, s‟identifica col potere del Centro. E, evidentemente per reazione (e, insieme per la tradizione nazionale italiana, frazionata in mille tradizioni particolari), tale maniaco odio verso il centralismo è più forte nel Movimento Studentesco italiano che in tutti gli altri Paesi dove esistano Movimenti analoghi.(235)
 
La replica del destinatario di questa pubblica missiva non si fa attendere: il 28 settembre il settimanale “Tempo” la ospita nello spazio riservato alle lettere al direttore(236). Leone risponde – «con la stessa franchezza»(237) di quell‟incontro avuto dopo la proiezione privata di Uccellacci e uccellini che il regista aveva ricordato in apertura del suo articolo – soffermandosi su tre dei passaggi dell‟“interpellanza” di Pasolini. Il testo si arrocca subito su posizioni difensive, preoccupandosi innanzitutto di negare l‟intervento governativo al Festival, senza però contestare la ricostruzione degli avvenimenti operata dallo scrittore-regista (eppure, en passant, giudicando ambiguo il comportamento pasoliniano):
 
In primo luogo devo dirle che il governo non è intervenuto affatto nella vicenda della Mostra del Cinema di Venezia, avendo lasciato – com‟era suo dovere – che ogni decisione fosse assunta nella propria autonomia dagli organi responsabili dell‟Ente autonomo. Non mi occuperò dello svolgimento dei fatti; mi sarebbe solo facile a tal proposito dirle che non è stato possibile – e non solo a me – comprendere il suo atteggiamento nei confronti della Mostra (può dirsi, senza offenderla, che fu per lo meno contraddittorio, o perplesso).(238)
 
Leone ripercorre invece, scendendo più nel dettaglio, i provvedimenti varati o progettati (rigorosamente in absentia) dallo Stato e volti a salvaguardare l‟autonomia della manifestazione:
 
A Venezia non fu inviato alcun rappresentante o portavoce di organi ministeriali. La presenza a Venezia di due alti funzionari era – come lei sa e sanno tutti – in funzione della loro posizione (quali direttori generali del Ministero del Turismo e della Pubblica Istruzione) di componenti il consiglio di amministrazione dell‟Ente. Quando ricevetti la delegazione del Consiglio comunale di Venezia accompagnata dal Sindaco, ripetei l‟assoluta estraneità del governo alle decisioni relative alla Mostra. In quell‟occasione dichiarai – confermo – che il governo era pronto a presentare un disegno di legge che disciplinasse in maniera nuova e democratica l‟Ente. Fui pregato di attendere i risultati del convegno indetto per i primi di ottobre. Non appena saremo in possesso di tali dati, presenteremo al Parlamento – sollecitandone l‟esame – il disegno di legge, nell‟intento di rimuovere per il settembre 1969 le cause della contestazione.(239)

Di seguito, lapidaria – anzi al confine con la reticenza tipicamente “istituzionale”– è la risposta sull‟intervento aggressivo della polizia: «Circa l‟azione delle forze dell‟ordine, non vi è stata alcuna brutalità o violenza. Non posso dare altre indicazioni per riguardo al Parlamento, dovendosi nei prossimi giorni discutere le interrogazioni su tali fatti»(240). In conclusione, viene smentita anche la pessimistica previsione su un‟energica repressione statale della contestazione giovanile nell‟immediato futuro:
 
Non è esatto infine che il governo si propone di risolvere repressivamente le dimostrazioni degli studenti. La imminente presentazione al Parlamento del disegno di legge sulla cosiddetta piccola riforma delle università vuole essere l‟apertura di un dialogo franco e democratico con tutte le componenti universitarie.(241)
 
Nel congedo, dopo aver ribadito con fermezza un po‟ enfatica la buona fede del governo e i doveri del cittadino esemplare, Leone rivolge tuttavia un appello e insieme un invito all‟interlocutore, dimostrando con ciò di essere aggiornato sugli ultimi sviluppi della riflessione di Pasolini in ambito socio-politico:
 
Non si può qualificare il dovere del governo di difendere le istituzioni, le libertà e la integrità dei cittadini come intervento repressivo. Sotto questo aspetto ogni italiano responsabile, fedele agli ideali di democrazia e di libertà, dovrebbe evitare l‟enunciazione o la diffusione di deformazioni che non giovano allo sviluppo civile e democratico della società italiana. Non parlò un giorno anche lei (o ne è pentito?) di un certo fascismo che qualificò di sinistra? Ebbene, operiamo tutti a sradicare l‟istinto della violenza e della sopraffazione da qualsiasi parte venga. Per tale compito vorrei impegnare anche lei. Per altre considerazioni contenute nella sua lettera aperta mi consenta di rimandare ad altre occasioni il dialogo, limitandomi ad affermare che il mito del centralismo statale non appartiene al mio pensiero ed alla mia azione politica.(242)
 
La terza e ultima puntata di questo confronto “epistolare” va in scena sul Caos che appare nel numero di “Tempo” datato 5 ottobre (l‟articolo s‟intitola Risposta al Presidente Leone(243)). Nelle battute d‟avvio, il titolare della rubrica manifesta una cordiale soddisfazione per l‟udienza ricevuta presso l‟uomo politico:
 
Di solito, per una risposta come la Sua, si esordisce ringraziando. È dunque ringraziando che qui esordisco: ma non formalmente. Anzi, aggiungo subito che la Sua risposta, in un Paese come il nostro, che Lei meglio di me conosce – è straordinaria: perché esce – anzi contraddice – alle abitudini malamente democratiche che regolano la nostra vita. È chiaro: conoscendola io di persona, non ne sono molto sorpreso: ma so quanto facilmente in Italia le persone possono scomparire nelle istituzioni.
È dunque con uno spirito rallegrato dal suo atto di democrazia “reale” – che è sempre “personale” – che rispondo alle Sue argomentazioni.(244)

Pasolini passa ad analizzare poi i tre punti sui quali s‟incardina la risposta di Leone, a partire dall‟aspetto esteriore che contrassegna la prima delle spiegazioni addotte:
 
Il momento formale della Sua prima argomentazione è questo: i due alti funzionari presenti a Venezia erano presenti a Venezia in funzione di componenti il consiglio di amministrazione dell‟ente veneziano. Ma perché sono componenti del consiglio di amministrazione veneziano? Lo dice Lei stesso: perché sono direttori generali dei Ministeri del Turismo e della Pubblica Istruzione.(245)
 
La sottile distinzione operata dal rappresentante delle istituzioni non appartiene alla formazione culturale dell‟intellettuale, che nella circostanza è interessato più alla componente sostanziale che non a quella formale della questione:
 
Ecco, vede? Lei riesce ad accettare la natura anfibologica di questi due alti funzionari. A me ciò è difficile. Non riesco a distinguere queste “due entità in una”: non posso dimenticare, pensandoli come componenti del consiglio di amministrazione, che sono anche “direttori generali di due Ministeri romani”. Dividerli in due, e vederli o giudicarli separatamente, mi sembra che sia possibile solo su un piano formale.
Non potendo dunque distinguere formalmente le due cariche di tali alti funzionari, non posso non pensare che nella loro azione di “amministratori veneziani” non sia interferita, come un tutto unico, anche la loro azione di “direttori romani”.(246)
 
Recalcitrante ad ammettere «la natura anfibologica di questi due alti funzionari», lo scrittore-regista – per l‟occasione calatosi nei panni dell‟«uomo della strada» dall‟indignazione facile – aveva additato allora le responsabilità del potere statale genericamente inteso (senza quindi lasciarle concentrare su una specifica persona):
 
Ecco perché, certo rozzamente, ho attribuito al “Governo” la loro presenza a Venezia. Forse ho usato la parola “Governo” con l‟ingenuità con cui la usa l‟uomo della strada, quello di cui Le parlavo nella mia prima lettera. Tuttavia, qui, devo ribadire che io non riesco a dirimere l‟azione a Venezia dei due alti funzionari da una responsabilità – almeno indiretta – del Governo da Lei presieduto.
Naturalmente, come Lei aveva capito, io non coinvolgevo Lei personalmente: perché so che c‟è un gioco, appunto, di distinzioni formali che hanno un senso reale, e che entrano in una persona concreta (Lei) in modo dialettico: un gioco insomma di luci e ombre.(247)
 
L‟articolo prosegue poi riepilogando e chiarendo, un volta di più, l‟evoluzione della posizione dell‟autore rispetto alla rassegna veneziana appena trascorsa, evidenziando in sintesi le varie tappe fatte sì di ripensamenti, ma soprattutto di decisioni ponderate: anche se la «linea interna» di questa «azione non si può certo condensare in un riassuntino», si è trattato in ultima analisi di «una lotta per la democrazia reale o diretta»(248), che rispecchia le istanze di una parte non trascurabile della popolazione italiana; non l‟esito confuso di contraddizioni e perplessità individuali – come aveva notato, eufemisticamente e con una punta di ironia, il presidente Leone –, dunque, piuttosto l‟avvicinamento e il sostegno alle sacrosante rivendicazioni di una coralità. E i futuri provvedimenti governativi, nelle intenzioni atti a smorzare le battaglie combattute da questo gruppo di contestatori, in realtà sono destinati a sortire l‟effetto di un buco nell‟acqua (con ciò Pasolini salta dal primo al terzo punto della replica del politico):
 
Non si illuda, perciò, Presidente, che il “disegno di legge” da presentarsi al Parlamento a Roma, dietro indicazioni di un Convegno a Venezia, possa risolvere qualcosa: siamo sempre sul piano formale (che Lei, lo so, assume legalitariamente come sostanziale,in una superiore dialettica dello Stato). Inoltre si tratterebbe di una “riforma” (come del resto per l‟Università): ora è certo, ormai indubitabilmente, che l‟altra Italia non vuole riforme: il riformismo socialdemocratico non ha nulla che fare con la nozione di
«democrazia reale e diretta», così come una concessione non ha nulla a che fare con un‟applicazione di diritti democratici.(249)
 
Se da un lato, insomma, esistono dei doveri precisi che riguardano il cittadino (al cui rispetto un governante è giustamente tenuto a richiamare), d‟altro canto occorre adoperarsi affinché venga garantita l‟effettiva attuazione dei corrispettivi diritti:
 
Come vede, […] comprendo benissimo la sua posizione: «Non si può qualificare il Governo, di difendere le istituzioni, le libertà e l‟integrità dei cittadini come intervento repressivo». È vero, Lei ha ragione: ma sono certo che Lei stesso non saprebbe in alcun modo dimostrarmi (perché è d‟accordo con me) come quelle «istituzioni, libertà e integrità» non siano false o formali. La lotta dell‟altra Italia è perché appunto le «istituzioni, libertà e integrità dei cittadini» siano reali e non formali: Lei deve dunque convenire che le forze dell‟ordine, intervenendo contro questa esigenza di autenticità, non possono non essere considerate repressive.(250)
 
Le righe citate diventano così trait d’union al recupero ed alla discussione del secondo punto della lettera di Leone. Lì il rappresentante delle istituzioni sosteneva l‟assenza di qualsiasi atto di violenza nell‟azione dei poliziotti a Venezia, qui Pasolini argomenta l‟esatto contrario, rivendicando il privilegio della testimonianza diretta (condita anche da un piccolo retroscena) e continuando a mostrare comunque comprensione per le necessità diplomatiche che hanno spinto l‟interlocutore alle dichiarazioni “innocentiste”:
 
Lei dice che al Lido, da parte della polizia, «non vi è stata alcuna brutalità e violenza». Credo assolutamente nella sua buona fede. Ci crederei anche se non La conoscessi, e quindi anche se la Sua buona fede non mi fosse già garantita. Sarebbe per pura diplomazia e prudenza, infatti, che un Capo del Governo non farebbe affermazioni simili, se non ci credesse veramente. Ma anche Lei deve credere alla mia buona fede. Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia. L‟ho già descritto in questa stessa sede: la polizia prendeva di peso i dimostranti (che, a loro pieno diritto, stavano nella sala Volpi) e li gettava in mezzo alla folla dei teppisti e dei fascisti che li linciavano: letteralmente. Io stesso, sotto la pioggia, al ritorno a Venezia, ho aiutato a trasportare di peso un ragazzo, che poi ha dovuto essere ricoverato all‟ospedale, con un principio di commozione cerebrale: tanto per citare un solo esempio. Può darsi che la polizia non abbia colpito nessuno: ma ha fatto colpire dai fascisti: e questo mi sembra anche più grave.(251)
 
Sull‟onda della repressione – poco cambia se, per così dire, “attiva” o “passiva” – di cui è stato testimone e parte in causa, dalla piattaforma dell‟attualità lo sguardo pasoliniano spazia allora con pessimismo verso l‟immediato futuro, che pare gravido di minacce autoritarie per quanti cercheranno di far sentire “democraticamente” la loro voce:

«Quante cose di questo genere succederanno nel prossimo anno? Quanti studenti e uomini democratici saranno colpiti perché non sono disposti ad accettare “riforme” ma pretendono finalmente l‟applicazione dei loro diritti?»(252).

Le due interrogative condensano i dubbi dello scrittore-regista e di fatto suggellano l‟articolo, offrendo nel contempo a Pasolini il destro per rinnovare la promessa di una guerra senza quartiere anche contro ogni manifestazione o protesta violenta, ivi comprese quelle che pure discendono da giuste cause: «

Lo so: la coscienza dei propri diritti – l‟ho detto ormai tante volte, e non mi stancherò mai di ripeterlo – può diventare aggressiva e terroristica. Non tema: non cesserò di lottare, come posso, neanche contro il “fascismo di sinistra”»(253).

Al testo però, prima del congedo dal destinatario e dai lettori, viene affidato un aforisma che può prendersi quale ideale sottotitolo a un capitolo che racconti la storia del libro/film Teorema inteso come occasione di confronto con l‟establishment letterario (il Premio “Strega”), cinematografico (il Festival di Venezia) e infine anche politico (il capo del governo):

«Ora, per questa lettera a Lei, sarò accusato – è probabile – di debolezza, di compromesso. Ma che me ne importa? Lo so bene quante contraddizioni richieda l‟essere veramente coerenti»(254).

 
193 P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 170-174.
194 Ivi, p. 170.
195 Ibidem.
196 Ivi, p. 171.
197 Ibidem.
198 Ibidem.
199 Ivi, pp. 171-172.
200 Sui quali cfr.: E. SICILIANO, Vita di Pasolini, cit., pp. 186-194; N. NALDINI, Pasolini, una vita, cit., pp. 131-137; F. GRATTAROLA, Pasolini. Una vita violentata, cit., pp. 17-21.
201 F. GRATTAROLA, Pasolini. Una vita violentata, cit., pp. 229-230.
202 P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 172.
203 Ivi, pp. 172-173.
204 Ivi, p. 173.
205 Ibidem.
206 Ivi, pp. 173-174.
207 Ivi, p. 174.
208 Ibidem.
209 Ibidem.
210 P. P. PASOLINI, Perché allo Strega no e al Festival sì, in ID., Il caos, a cura di G. C. FERRETTI, Roma, Editori Riuniti, 19994 (la prima edizione è del 1979), pp. 39-40.
211 Ivi, pp. 40-41
212 Ivi, p. 41.
213 Ibidem.
214 Ivi, pp. 41-42.
215 P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 1110-1111.
216 Ibidem.
217 Ivi, p. 1111.
218 Ivi, pp. 1111-1112.
219 Ivi, p. 1111.
220 Ivi, p. 1112 (per entrambe le citazioni).
221 Ivi, p. 1113.
222 Ivi, p. 1114.
223 Ivi, pp. 1114-1115.
224 Ivi, p. 1116.
225 Ivi, pp. 1116-1118.
226 E. SICILIANO, Vita di Pasolini, cit., p. 449.
227 P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1116.
228 Ibidem.
229 Ibidem.
230 Ibidem.
231 Ivi, pp. 1116-1117.
232 Ivi, p. 1117.
233 Ivi, p. 1117-1118.
234 P. P. PASOLINI, Il caos, cit., pp. 49-50 (il prosieguo dell‟articolo-lettera non viene riportato dall‟edizione dei “Meridiani”: pertanto, i passi successivi si citano dall‟antologia curata da Ferretti).
235 Ivi, pp. 50-51.
236 Cfr. ivi, pp. 211-212.
237 Ivi, p. 211.
238 Ibidem.
239 Ivi, pp. 211-212.
240 Ivi, p. 212.
241 Ibidem.
242 Ibidem.
243 Ivi, pp. 55-59.
244 Ivi, p. 55.
245 Ivi, p. 56.
246 Ibidem.
247 Ibidem.
248 Ivi, p. 57 (per tutte e tre le citazioni).
249 Ivi, pp. 57-58.
250 Ivi, p. 58.
251 Ivi, pp. 58-59.
252 Ivi, p. 59.
253 Ibidem.
254 Ibidem.

 
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Curatore, Bruno Esposito

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