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sabato 16 novembre 2013

Itinerario nel cinema di Pier Paolo Pasolini. Conclusioni di Alessandro Barbato, 2005 (5/5)

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Itinerario nel cinema di Pier Paolo Pasolini.
Conclusioni


Siamo giunti alla fine del mio itinerario nel cinema di Pier Paolo Pasolini, ed al momento in cui si impongono alcune riflessioni a cui affido il compito di fare il punto su quanto detto. Credo sia risultato evidente come l’interesse che Pasolini dimostrò di avere per il ‘fenomeno religione’ sia tutt’altro che una passione ingenua o sentimentale. Nelle pellicole che ho analizzato risulta piuttosto la volontà del regista di comprendere, e quindi di rappresentare artisticamente, quella che è da lui ritenuta la caratteristica principale di una forza considerata come un dato immanente nella natura umana.

Spesso è possibile ravvisare delle arbitrarietà nelle prese di posizione dell’autore su problemi e questioni che, nel corso degli anni, hanno dato adito a più di una polemica intellettuale; e si deve anche registrare un uso forse un po’ troppo spregiudicato del dato etnologico. Tuttavia, al di là dei limiti scientifici di opere che peraltro non hanno mai avuto la pretesa di essere tali, ciò che più mi interessa sottolineare è come Pasolini abbia trovato nel sacro la metafora più sublime di quanto non può essere ingabbiato definitivamente dalla ragione umana; specie se questa muta il suo ruolo divenendo non più uno strumento concreto di azione, ma una vera e propria barriera mentale che esclude da sé tutto ciò che non può comprendere razionalmente.
Il Ganz Andere che il sacro rappresenta è visto come qualcosa che continua ad agitare la coscienza dell’uomo moderno, qualcosa che, sebbene non sia presente come un dato oggettivo nella realtà sensibile, può tuttavia trovare concreta espressione in quegli stadi dell’inconscio cui la ragione può accedere soltanto mediante un rapporto dinamico che realizzi la sintesi simbolica di cui ogni complesso culturale non può fare a meno per esistere.


L’istituzione di questo rapporto è ciò che contraddistingue la funzione di ogni religione: il passaggio da una civiltà le cui coordinate spazio-temporali sono sorte e confermate dalla relazione dell’uomo con un ultramondo divino, ad una che invece, con il tramonto di ogni metafisica, confida soltanto nel ‘mondo degli uomini’ per erigere i valori che ne fanno una civiltà viva ed organica, si pone come un periodo incerto e difficile proprio per la mancanza di strumenti di mediazione che debbono essere costruiti su nuove basi. La ridefinizione di questi strumenti passa comunque sempre per la pratica del confronto tra sé e gli altri, fra la propria civiltà e quella altrui, fra l’io e l’inconscio. Un confronto che, come si è visto, il regista non ritiene possibile per il mondo borghese, mondo che viene ferocemente attaccato proprio per la sua incapacità ad accettare l’esistenza dell’Altro.
La «rappresentazione drammatica dell’origine dell’alienazione borghese» di Pasolini fa leva proprio su questa caratteristica, insita nella civiltà dei consumi, per inscenare l’apocalisse senza riscatto che attende un mondo dimentico del proprio passato, e quindi incapace di crearsi un futuro. La modernità per il Poeta non avrà mai i crismi della cultura, ma sarà piuttosto rappresentata come una barbarie tecnologica alla quale si contrappone la «meravigliosa alterità» dell’uomo arcaico: un uomo che viveva forse in un mondo materialmente più duro, ma che riusciva a trarre dal proprio rapporto con la terra quel bagaglio di simboli che lo sollevavano dalla sua naturalità. 


Il dramma su cui Pasolini intendeva ammonire è dato dall’impossibilità del mondo borghese di trarre dal processo di produzione e consumo, proprio del modello capitalistico, un sistema simbolico in grado di restituire senso al vissuto individuale e collettivo. I suoi studi dedicati alla fenomenologia religiosa, arricchiti dai riferimenti alla psicoanalisi, sono protesi alla rappresentazione di un contrasto tra due tipi di umanità che si ripete non solo nelle relazioni interumane (siano esse sociali o interculturali), ma anche all’interno di ogni individuo. Un contrasto che non può non travolgere la persona, e per estensione la società a cui essa appartiene, nella misura in cui ci si ostina ad escludere da sé la sfera dell’alterità; componente spesso confinata nell’ombra della coscienza, da dove poi però, in qualsiasi momento, può tornare (irrelata) a turbare il cammino della Ragione. 

Fonte: Biblink Editori

Pubblicato anche in:

"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini
http://pasolinipuntonet.blogspot.it/



Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Dall’Orestiade a Medea: dalla ‘grande pazienza’ al ‘niente è più possibile’ di Alessandro Barbato, 2005 (4/5)

 

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Dall’Orestiade a Medea:
dalla ‘grande pazienza’ al ‘niente è più possibile’
di Alessandro Barbato, 2005 (4/5)


Tra il dicembre del 1968 e il febbraio del 1969, tra una pausa dal set di Porcile ed un rinvio delle udienze per il processo a Teorema, Pasolini trovò il modo per recarsi in Tanzania ed in Uganda a realizzare un’opera che meditava di realizzare dall’inizio degli anni Sessanta e forse da ancor prima. Da quando cioè, nel 1959, Vittorio Gassman gli chiese, ed ottenne, una traduzione della trilogia di Eschilo, l’Orestiade, per una rappresentazione ceatrale da tenersi al teatro greco di Siracusa. La traduzione venne in seguito pubblicata da Einaudi11, comprensiva di una lettera del traduttore, il quale intendeva così chiarire le modalità seguite durante l’operazione di traduzione, nonché l’interpretazione data alla trilogia. Interpretazione che poi farà da leit motiv anche a quella che può essere considerata a tutti gli effetti una riattualizzazione del mito di Oreste. Mito di cui il regista ravviserà così evidenti analogie con la condizione storica delle popolazioni africane appena liberatesi dal giogo coloniale, da decidere per questo di riversare la sua ‘fatica letteraria’ in un lungometraggio: Appunti per un’Orestiade africana12. Il filmato, attraverso lo stile lacerato del work in
progress, si propone di far penetrare lo spettatore nel laboratorio del regista; il quale intendeva sottoporre a verifica, alla luce di un dibattito che verrà anche inserito nella pellicola stessa, la propria proposta ermeneutica.

La scelta di affidare alla ricchezza espressiva del mito la propria interpretazione dei fatti in cui erano invischiate le popolazioni del Terzo Mondo risponde ad una precisa volontà di ricerca di un linguaggio in grado di coinvolgere anche quella parte dell’individuo che, nell’uomo moderno, rischia di rimanere tagliata fuori soprattutto a causa della eccessiva fiducia riposta nel Logos, per nulla esaustivo della complessità di cui si compone ogni soggetto. Più che essere una semplice scelta stilistica, il mito si offre come chiave di lettura e di accesso alla storia; una storia da cui le popolazioni del Terzo Mondo erano a lungo state escluse, e nella quale ora finalmente irrompevano, correndo però il rischio di vedere snaturato ed appiattito il proprio carattere originario, soprattutto in virtù di quel processo livellante che il regista aveva studiato ed efficacemente rappresentato nelle pellicole analizzate in precedenza.
Per comprendere la portata della scelta pasoliniana si deve innanzi tutto chiarire come dell’Orestiade egli esalti soprattutto la sublimazione delle Erinni in Eumenidi, e cioè la terza parte del ciclo tragico, in cui le furie ancestrali che perseguitano Oreste dopo il matricidio vengono trasformate da Atena ed elette al rango di custodi della comunità, salvando così il giovane eroe. A tal proposito è importante notare come la sublimazione delle Erinni, rappresentate efficacemente come elementi vegetali o attraverso l’ira di una leonessa ferita, sia messa in scena attraverso l’esecuzione di un non meglio precisato rito della tribù dei Wa-gogo: ciò dimostra quanto fosse acuta la sensibilità storico-religiosa di Pasolini nel ritenere pertinente al piano rituale la sublimazione del furor animale che le Erinni rappresentano. Oreste poi, fuggendo dalla natia Argo verso Atene, conosce la modernità e la raffinata civiltà di una città che affida le proprie contese al tribunale umano, istituito per la prima volta proprio dalla divinità che lo guida nelle sue peripezie, e decide quindi di portare nel proprio paese la democrazia e la concordia svelategli dalla sua disavventura: in modo che si ravvisi una chiara illusione ai popoli africani che, venendo in contatto con l’Occidente, hanno potuto
conoscere la democrazia ed il progresso tecnologico.

Mondo antico e mondo moderno, ragione ed inconscio, totalitarismo sanguinario e democrazia affratellante: questi i temi che Pasolini, con una traduzione attualizzante ai limiti dell’esasperazione, presenta al proprio lettore. L’idea di poter arrivare ad una sintesi tra gli opposti non ha ancora abbandonato il poeta al momento del suo approccio con il testo eschileo.Ben presto però quella stessa speranza, in un contesto già profondamente cambiato rispetto a quando, nei primi anni Sessanta, il Paese era agli esordi del boom economico, gli sembrerà una chimera irraggiungibile. Così, nel 1966, egli affiderà ad una tragedia in versi, concepita come ideale proseguimento dell’Orestiade, il compito di narrare il risveglio delle Erinni, illusoriamente credute vinte per sempre da Oreste. Nel suo Pilade13 la speranza cederà il passo ad un nichilismo disperato e privo, per quanto riguardava il caso italiano, di ogni apertura verso una modernità dal volto realmente umano. Sarà allora nell’Africa, non ancora piegata dal consumismo neocapitalistico, che Pasolini ravviserà l’alternativa – indicata già come ‘unica’ nella conclusione della poesia Frammento alla morte – alla barbarie prodotta dall’omologazione mercificante. Con questo stato d’animo il regista cercherà un’altra possibilità – per se stesso ma soprattutto per la cultura che in quanto intellettuale rappresenta – nell’Altro; un’altra via da percorrere in un continente mitico in cui passato e futuro possono ancora coesistere, in quel Terzo Mondo che rappresentava forse, ed ancora, una regione ideale a cui tendere.

Pasolini confeziona così un prodotto che oscilla tra il documentario, a cui riconducono le immagini dense di attualità colte con la camera a spalla, ed il sopralluogo preliminare atto alla ricerca di un’ambientazione originale per un film da farsi, tecnica già sperimentata per i Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo. Il film così realizzato, per il suo carattere incompiuto, si presenta allo spettatore come una pagina
bianca da scrivere in presa diretta, una pagina tutta rivolta ad un futuro da edificare coniugando tradizione e progresso, e con un finale che non può non rimanere come sospeso nel tempo, con il regista che chiosa in modo sublime: «il futuro di un popolo è nella sua ansia di futuro. E la sua ansia è una grande pazienza…».

L’Orestiade africana si chiude con un indubbio messaggio di speranza: speranza coltivata a lungo negli anni Cinquanta e poi, con rinnovato slancio, riversata nei popoli ‘altri’ rispetto al mondo borghese. Eppure anche in questa pellicola, dai toni insolitamente ottimistici, affiora la presa di coscienza che le potenzialità insite nell’incontro fra culture siano già state consumate sotto il segno dell’inesorabile omologazione. Quello che emerge dal dibattito con gli studenti africani dell’Università "La Sapienza" (dibattito in cui il regista assume i contorni di un Oreste giudicato da un consiglio costituito da altrettanti Oreste e che ribadisce così il gioco di specchi che dà inizio al filmato) è infatti un esito certamente non in linea con le aspettative dell’autore, che decide pertanto di retrodatare all’inizio degli anni Sessanta un’opera che, come ho detto in precedenza, era inizialmente concepita come totalmente protesa verso il futuro.

Per il mondo tradizionale ed agricolo, che Pasolini sente sempre più di dover opporre a quello tecnocratico e moderno, non v’è alcuna possibilità di riscatto, nessuna sintesi è possibile tra una civiltà che vive del proprio rapporto con il sacro ed un’altra in cui esso è ritenuto, tutt’al più, una arcaica sopravvivenza.In Medea il sogno di una sintesi si trasformerà nell’incubo di una fine che nasce dalla ormai completata «cristallizzazione degli opposti»: tutto ciò che aveva fatto sinora sperare in un connubio fecondo sarà qui tradotto in opposizioni assolute.
La vicenda della sacerdotessa della Colchide, che rappresenta il mondo arcaico e sacrale – ma anche il furore irrazionale ed i popoli di quel Terzo Mondo sognato e sognante – evoca l’apocalisse terribile che aspetta non solo il mondo antico e tradizionale, ma soprattutto quello moderno ed irreligioso che trova in Giasone il suo simbolo più compiuto: l’eroe borghese che attraversa il mare per recuperare il Vello d’oro, emblema perfetto della perennità dell’ordine. Tutti i temi che abbiamo incontrato nei film precedenti trovano nell’ultimo capitolo della celebre trilogia classica una formale sistemazione tecnica e teorica, con il regista che affida ancora una volta al mito il compito di narrare l’origine dell’alienazione dell’uomo moderno.

Come lo stesso Pasolini dichiarò nel corso di una lunga intervista rilasciata a Jean Duflot16, il film poggia interamente su una base teorica di Storia delle religioni, ed ha nell’originale euripideo solo la materia da cui trarre qualche citazione. Per la circostanza il regista si avvalse anche della preziosa consulenza di Angelo Brelich, al quale Pasolini si rivolse forse pensando erroneamente di trovarvi il fedele allievo di Kerényi. Ciò dimostra una volta di più come in misura sempre maggiore sia andato crescendo in lui l’interesse per gli studi sul sacro; e come, nella sua rilettura in controluce della società moderna, egli abbia trovato punti di riferimento autorevoli proprio negli studiosi di Storia delle religioni.

Sulla natura controversa ed informale della collaborazione offerta da Brelich a Pasolini provvede ad informarci una lettera17, datata 26 novembre 1969, che l’allora docente di Storia delle religioni all’Università "La Sapienza" indirizzò al regista.Oltre alla lettera di Brelich, nell’Archivio Pasolini sono conservate alcune cartelle dattiloscritte in cui sono descritti diversi riti religiosi così come essi venivano praticati nell’antico Egitto, nell’India vedica o dai pellerossa della California; materiale forse desunto da un altro testo pubblicato nell’ambito della Collana viola che, come già accennato, suscitava un attento interesse nel regista.

Si tratta, con tutta probabilità, del testo di Adolf E. Jensen intitolato nella traduzione italiana Come una cultura primitiva ha concepito il mondo. Nel suo lavoro Jensen, partendo da un mito raccolto presso una popolazione del Ceram occidentale, in quelle che venivano allora dette Indie olandesi, propone uno studio avente per oggetto i miti e le credenze di una civiltà agraria di tipo ‘primitivo’, definita «civiltà lunare». I diversi elementi che compongono il nucleo di questa cultura formano un’unità semantica in cui trovano posto la concezione della generazione e della morte, le iniziazioni sociali e le tecniche agricole, la fecondità e l’uccidere, il rapporto con i vegetali e con la luna; tutti aspetti che si coagulano nella «idea centrale intorno a una divinità uccisa, che con la sua morte ha inaugurato l’attuale ordine del mondo»19, ed il cui destino viene
messo in scena durante quei riti che riattualizzano la vicenda primordiale della divinità lunare.

Riti di cui Pasolini ci offre un corrispettivo fedele nel lungo brano che vede Medea impegnata a presiedere ad un sacrificio umano per smembramento che ha lo scopo di assicurare la fertilità dei campi, ma che più in generale si inquadra in una periodica rigenerazione totale del cosmo che viene rifondato ritualmente. Il lungo brano in questione può essere considerato come un frammento di cinema etnografico, cinema che è una
costante di molte pellicole pasoliniane; nel caso di Medea vi è però un evidente salto di qualità perché il rito è ricostruito con una dovizia di particolari davvero superba.

Il silenzio domina la scena dove tutto è scandito sul modello del mito: il sacrificato appare sorridente e partecipe di ciò che avviene intorno a lui, esprimendo in tal modo quella «partecipazione mistica» che Lévy-Bruhl teorizzò come caratteristica dell’uomo arcaico, uomo profondamente diverso da quello moderno proprio per il fatto che egli vive in perfetta comunione con il mondo circostante, di cui condivide la stessa sostanza. Tutto ciò è teso a sottolineare ancora di più la profonda differenza tra il mondo di Giasone, individualista e disincantato, e quello arcaico di Medea dove tutto è invece simbolicamente unito; una differenza che è resa tanto dall’ampiezza sconfinata dello spazio dove il sacrificio avviene, quanto dalla forma delle dimore scavate nella roccia della Colchide, così diverse da quelle che si troveranno a Corinto, luogo dove lo spazio appare razionalizzato e ristretto. Si tratta tuttavia di due mondi che non sono altro che le facce di una stessa medaglia visto che entrambi sono votati alla distruzione, sia pure per ragioni e con modalità diverse; ed occorre tener presente che, stando alle intenzioni del regista, la tragedia di Medea nasce proprio dalla mancata attuazione del rapporto dialogico tra i due protagonisti, che incarnano altrettanti mondi culturali, opposti tra loro.

Tornando al sacrifico del giovane: la vittima viene dipinta con burro fuso, vernice rossa, ed ornata con fiori prima di essere legata ad una croce di legno che richiama quel cristianesimo rurale concepito da Pasolini come omogeneo alle tradizioni ancestrali dei popoli di agricoltori. Una volta legato, il ragazzo viene strangolato e poi ridotto a brandelli con un’ascia del tutto simile al falcetto che Jensen indica tra gli elementi
ricorrenti nella cultura materiale dei popoli appartenenti al ciclo culturale illustrato nel suo saggio. Tutti gli appartenenti alla comunità ricevono una parte del corpo del sacrificato che viene seppellita nei campi per assicurare la fecondità della terra. Subito dopo le spoglie dell’uomo vengono bruciate e le ceneri abbandonate al vento da Medea, che pronuncia, facendo simbolicamente girare una ruota, le uniche parole del lungo brano che sto esaminando: «Dà vita al seme e rinasci con il seme». Le parole rituali rimandano alla concezione circolare del tempo: all’‘eterno ritorno’ cui Mircea Eliade, il celebre storico delle religioni di origini rumene per le cui opere Pasolini dimostrò di avere una profonda inclinazione, dedicò uno dei suoi testi più noti. Si tratta di una concezione che affonda le proprie radici nell’idea della distruzione periodica dell’universo e dell’umanità, seguita dalla rigenerazione delle forze vitali, che trova una concreta espressione nella ricostruzione pasoliniana.

Come ho detto in precedenza, il sacrificio a cui la sacerdotessa presiede si inserisce in un complesso rituale che intende rigenerare non solo la fecondità dei campi, ma anche l’intero universo e con esso l’ordine sociale della collettività. Così, al calare del sole, l’intera comunità prende parte alla fase orgiastica della celebrazione, la fase in cui si ‘mette in scena’ la temporanea regressione nel caos e nell’indistinto, e che comporta l’oltraggio ai regnanti, per rappresentare lo stadio che precedette la creazione dell’ordine su cui l’intera società è modellata. Tale rifondazione consente il mescolamento delle forze vitali che circolano liberamente tra i diversi livelli del reale. Gli opposti vengono congiunti mediante l’abbattimento temporaneo di ogni confine culturale eretto tra i vivi ed i morti, tra il cielo e la terra, tra il mondo umano e quello sovraumano. Alla fine delle celebrazioni, la famiglia reale si ricompone in una sorta di inquadratura statica che riconferma l’ordine sociale della collettività: il tempo sacro della festa lascia nuovamente spazio al tempo profano.

All’homo religiosus così rappresentato da Pasolini (uomo che sembra uscito dalle pagine di un altro testo di Eliade22 che il regista arriva a citare letteralmente nella sua opera, e che fu anche materia di ispirazione per le elaborazioni poetiche inserite nella sceneggiatura del film, pubblicata in concomitanza dell’uscita della pellicola nelle sale) si oppone, come detto, Giasone: il quale incarna il processo di desacralizzazione della
realtà in cui più tardi trascinerà Medea. All’inizio il film ci presenta proprio il piccolo Giasone mentre viene educato dal centauro Chirone, creatura favolosa e mitica che simboleggia con la sua doppia natura – animale ed umana – la medesima coincidentia oppositorum che rinvia all’idea di totalità psichica elaborata da C.G. Jung. Il centauro inizia dapprima il bambino alla scienza degli dei con parole che gli svelano la sacralità del
mondo circostante; mondo in cui ogni angolo appare abitato da divinità. Subito dopo però, quando Giasone è ormai un ragazzo, con un mutamento del registro linguistico che da poetico diviene estremamente prosaico (e che ha un corrispettivo nella trasformazione subita dal centauro che si umanizza completamente), Chirone stesso gli indirizza parole di Eliade:



Ciò che l’uomo, scoprendo l’agricoltura, ha veduto nei cereali, ciò che ha imparato da questo rapporto, ciò che ha inteso dall’esempio dei semi che perdono la loro forma sotto terra per poi rinascere, tutto questo ha rappresentato la lezione definitiva. La resurrezione, mio caro. Ma ora questa lezione definitiva non serve più. Ciò che tu vedi nei cereali, ciò che intendi dal rinascere dei semi è per te senza significato, come un lontano ricordo che non ti riguarda più. Infatti non c’è nessun Dio.
La dissacrazione è avvenuta, ciò che prima era abitato dagli dei appare ora come pura natura, tuttavia anche per Giasone non sarà possibile mettere a tacere definitivamente quella parte di sé che lo accomuna all’uomo arcaico.

Una volta giunto nella Colchide accompagnato dagli Argonauti, Giasone troverà la sua impresa molto più semplice di quanto aveva previsto: sarà infatti la maga stessa a consegnargli il prezioso simbolo che è venuto a cercare per riottenere il trono di Jolco. A sua volta Medea subisce una trasformazione anticipata da una visione in cui le appare Giasone: al risveglio dallo stato di trance che accompagna la visione, ella si accorge di aver perduto di colpo l’intima connessione con il mondo che la aveva fin qui caratterizzata. Tutto ciò però non la preoccupa: Medea è ormai magneticamente attratta dal ragazzo la cui energia erotica fa da surrogato alla sacralità perduta, sulla falsariga di quanto avvenuto alla moglie di Pietro in Teorema.

Dopo il furto sacrilego la sacerdotessa si unisce come una furia a Giasone e agli Argonauti. La carovana prende la fuga inseguita dal Re, che con le sue truppe cerca di recuperare il Vello rubato da Medea, che nella sua impresa ha coinvolto anche il fratello Apsirto. È a questo punto che avviene l’imprevisto, l’indicibile: per rallentare la corsa degli inseguitori Medea uccide il fratello e ne dilania il corpo gettandolo pezzo per pezzo dal carro, costringendo suo padre a fermarsi per raccogliere le spoglie alle quali doveva essere data una degna sepoltura. La violenza del gesto di Medea è antitetica alla logica del rito officiato poco prima, poiché in questo caso non vi è il supporto del simbolo: di conseguenza lo stesso comportamento che nel rito rivestiva un profondo significato cosmico si carica ora di una crudezza insensata che lo fa apparire come pura crudeltà; non si tratta certo di un caso se il regista nel primo episodio riprende l’uccisione e il successivo smembramento del sacrificato quasi integralmente, mentre ora vela, quasi con pudore, il gesto che Medea compie nascosta dal carro.

Prima di spostare definitivamente l’asse della scena a Corinto, Pasolini offre allo spettatore una ulteriore testimonianza di cinema etnografico: le truppe del re di Ea tornano al villaggio senza il Vello d’oro, e portando per di più le spoglie dilaniate di Apsirto: il pianto rituale che de Martino ha descritto in Morte e pianto rituale: dal lamento funebre antico al pianto di Maria – opera tra le più dense dello storico delle religioni conosciuto ed apprezzato da Pasolini – viene così messo in scena attraverso una ricostruzione rigorosa. In questo frangente si assiste all’esplosione parossistica della madre di Apsirto: esplosione che si manifesta attraverso l’urlo scomposto accompagnato dal tipico gesto di portarsi le mani alle tempie, così come de Martino aveva efficacemente documentato nel corso del suo studio sul campo in Lucania. All’esplosione della madre fa seguito quella delle donne della comunità, inquadrate mentre cantano litanie funebri accompagnandosi con un movimento ondulatorio del busto, anch’esso documentato in Morte e pianto rituale.

Il viaggio di ritorno verso Jolco si consuma in assoluto silenzio, Medea, per la prima volta sola, inizia a percepire la distanza dalla sua terra. Distanza che diviene incolmabile quando, una volta arrivata, ella si accorge di aver perduto molto di più di un semplice luogo geografico. In effetti, una volta sbarcati, gli Argonauti iniziano a costruire l’accampamento dove trascorrere la notte, e lo fanno senza alcuna preoccupazione di carattere rituale ma semplicemente piantando la tenda ed accendendo il fuoco. Simile comportamento è incomprensibile per Medea, che si aspetterebbe nella circostanza qualche forma di ritualità. Nulla di tutto questo però: la terra in cui è giunta è davvero distante da quella che ha lasciato; così, in preda ad una crisi convulsiva, grida disperata la perdita del mondo, lo sradicamento che nasce dalla separazione dall’universo a cui fino ad allora era appartenuta. Invano cerca di sentire le parole del sole, della terra, della natura che intorno a lei appare povera e aspra. Gli Argonauti la deridono: quelle tradizioni appaiono loro come stupide superstizioni irrazionali prive di significato. La donna si allontana in disparte, ma Giasone la raggiunge e con noncuranza la porta verso una tenda: ancora una volta Medea ritrova nel sesso il sacro che aveva perduto. Quanto a Giasone, egli prende Medea come fosse cosa sua, come qualcosa che gli spetta di diritto dopo la straordinaria impresa che egli crede di avere compiuto.

Subito dopo Giasone si separa dai suoi compagni di spedizione e si reca a Jolco per riavere il trono che lo zio usurpatore gli aveva detto di poter riottenere solo in cambio del Vello. Quando il giovane gli si presenta di fronte, Pelia, candidamente, gli dice che non riavrà il suo regno: Giasone, per nulla preoccupato e con fare arrogante, gli lascia il Vello, per lui non vale nulla: la facilità con cui ha realizzato la sfida propostagli dallo
zio ha nutrito a dismisura la sua ambizione, tanto che ormai si ritiene in grado di ottenere senza sforzo il mondo intero. Interessante è anche la considerazione, che Pasolini fa esprimere al suo personaggio, sull’efficacia simbolica dell’oggetto al centro della contesa: esso è ormai un simbolo morto, spogliato definitivamente della sacralità che lo rivestiva, al di fuori dello spazio in cui era inserito organicamente, è totalmente privo di senso. Medea assiste in silenzio alla scena e, quando i due escono dalla reggia, viene spogliata dei suoi abiti di barbara da alcune donne che la rinvestono alla loro maniera, in modo che risulti chiara l’allusione al processo di omologazione che la sacerdotessa subisce passivamente, allo stesso modo di come si è consegnata all’«uomo nuovo giunto dal mare». La prima parte del film è terminata, il dramma conduce ora lo spettatore a Corinto.

È carica di significati la scelta di ambientare la Grecia classica, che si contrappone all’arcaicità della Colchide, nella suggestiva cornice del Campo dei Miracoli a Pisa. Uno spazio, questo, in cui si possono scorgere i prodromi del lento processo che dal Medioevo avrebbe portato al Rinascimento, interpretato
come il momento aurorale della cultura contemporanea; momento in cui l’uomo occidentale iniziò a dissacrare la natura ponendosi al centro del cosmo. Tale concezione si svilupperà, non senza tentennamenti o tortuosità, nell’Illuminismo che, con la sua totale fiducia nella ragione – indicata come unico strumento in grado di operare nel mondo – scaverà un fossato incolmabile tra essa e tutto quello che è al di fuori dei suoi confini. Alla razionalità verrà contrapposto il sentire religioso bollato come una stupida superstizione; tuttavia
l’istanza, di cui il sacro è in questa sede metafora, continua a porsi come un’esigenza insopprimibile (si pensi ad esempio alla divinizzazione della ragione operata durante la Rivoluzione francese, momento in cui per la prima volta si cercò di rispondere a questa esigenza facendo ricorso ad una simbologia integralmente umana). Dall’Illuminismo si passa alla completa enfatizzazione dello ‘scientismo’ perpetrata nel secolo scorso ed in quello attuale, durante il quale si assiste ad una deriva che ha portato l’Occidente verso la divinizzazione
della tecnica, divinizzazione che non lascia spazio nemmeno al porsi dei problemi metafisici.

Che Pasolini ritenesse il sacro come una dimensione eternamente operante nell’essere umano si ha conferma in quello che accade a Giasone di lì a poco: egli sente una voce che lo saluta, è il centauro che lo riconosce e lo abbraccia paternamente. Accanto al centauro umanizzato c’è però il vecchio centauro, che non parla. L’eroe si trova così di fronte ad una visione che palesa la coesistenza di ciò che era stato in passato: la parte di lui che nel film è rappresentata dal mondo di Medea, accanto a quello che è ora. Il centauro rivela a Giasone che egli in realtà ama Medea, che comprende la sua catastrofe spirituale, ma che sapere questo non gli servirà a nulla perché ciò è solo quello che egli sente dentro di lui, ma che non ha il coraggio di capire. Il sentimento del sacro non è del tutto assopito dentro l’eroe borghese, non sarebbe possibile d’altronde; esso si esprime ormai secondo una logica (il regista evita accuratamente termini irrazionalistici come ‘istinto’) che Giasone non può più comprendere perché oggetto di una rimozione totale ed irreversibile, rimozione che lo condurrà alla tragedia: siamo all’epilogo.

Sono passati dieci anni, Medea è stata abbandonata da Giasone che sta per sposare Glauce, figlia di Creonte re di Corinto, il quale raggiungerà Medea intimandogli di lasciare il paese a causa della sua diversità così inquietante. Ella vive già isolata in una casa fuori le mura della città, in basso rispetto ad essa come l’oscura forza che rappresenta; respinta dalla logica arrivista di Giasone, ella cova una vendetta disperata. La
separazione tra i due mondi è ormai totale: nell’universo borghese non c’è spazio per l’alterità di cui Medea è portatrice. Così, segretamente, si reca a Corinto, e spia Giasone intento a divertirsi con gli amici: tutto ciò la prostra oltre ogni limite. Tornata a casa è ridotta ad un essere privo di forze; la sua fedele ancella le domanda perché non reagisca alla situazione con le arti magiche che tutti in città sanno di sua conoscenza, ma Medea risponde che è ormai divenuta un’altra creatura rispetto a quella che viveva nella Colchide. Poi però si ravvede, confessando di essere in fondo rimasta quello che era: «un vaso pieno di un sapere non mio».

La conclusione della Medea riecheggia la celebre definizione di archetipo data da C.G. Jung – di cui non a caso il regista utilizza una epigrafe in apertura della sezione poetica compresa nella sceneggiatura – nei Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia.

La donna, durante un sogno, o forse una visione, riesce ad ascoltare nuovamente la voce del sole e a recuperare il rapporto sacrale con il mondo che credeva ormai definitivamente perduto. Grazie alla visione, Medea ha riottenuto anche le sue arti magiche che utilizza per fare un sortilegio alla sconosciuta rivale, investendo le sue antiche vesti di barbara, quelle che aveva smesso uscita dalla reggia di Pelia, di un potere arcano e terribile. La maga è ormai decisa a mettere in atto il suo folle piano, così manda a chiamare Giasone dall’ancella: le vesti stregate saranno portate in dono alla sposa dai due figli che Medea ha avuto dal suo uomo, con il quale, nel frattempo, finge di riappacificarsi per consentire ai loro bambini di rimanere accanto al padre quando lei sarà sulla via dell’esilio.

Non appena ricevute le vesti, Glauce le indossa cadendo vittima del sortilegio di Medea. L’episodio si ripete per due volte in maniera identica salvo per il fatto che, durante la visione in cui la maga precorre il suo folle progetto, la morte di Glauce e di Creonte avviene tra le fiamme che avvolgono le vesti stregate; mentre nella ‘realtà’ la principessa, affranta dal senso di colpa verso Medea a cui inconsapevolmente ha sottratto lo sposo – quando ne indossa gli abiti e specchiandosi ne vive l’angoscia – si suicida gettandosi dalle mura della città, seguita dal padre che invano aveva tentato di fermarla. I due tipi di morte sanciscono ancora una volta la netta differenza tra il piano del Mythos e quello del Logos, ed in effetti, nel primo caso, la morte di Glauce avviene così come è narrata da Euripide; nel secondo invece viene rappresentata come avverrebbe sul piano della logica moderna, frutto quindi di un dramma psicologico borghese.

La morte della rivale è solo la prima parte della vendetta: la sera stessa Medea, dopo averli lavati e cullati teneramente ed avergli fatto indossare delle vesti bianche, con una gestualità che rimanda nuovamente al piano rituale, uccide i propri figli per punire Giasone. Anche in questo caso la morte non viene rappresentata direttamente, ma fatta intendere allo spettatore attraverso il primo piano fatto sul pugnale insanguinato. La
sacerdotessa è ormai riconsegnata alla radicale alterità da cui Giasone l’aveva sottratta con un processo che sembrava irreversibile, ma che si svela ora in tutta la sua complessità: l’irruzione dell’irrazionalità irrelata è travolgente ed inarrestabile; il radicalmente altro affiora ancora una volta nel suo lato tremendum, l’unico possibile in un mondo che crede di aver risolto una volta per sempre il proprio rapporto con l’irrazionale, con il sacro, con l’alterità.

Le fiamme catartiche avvolgono le mura di Corinto; proprio quelle mura che ponevano un confine fittizio tra il mondo di Medea e quello di Giasone: tutto ancora una volta ricade nell’indistinto, nell’assenza di forma, nella preistoria. Giasone sconvolto dal dolore raggiunge Medea, che per la prima volta appare su un piano più alto rispetto al suo interlocutore, come a sottolineare l’inversione che l’esplosione del furore incontrollato ha prodotto. L’uomo è separato dalla sua parte irrazionale da un fuoco che non può più attraversare; domanda disperato di riavere almeno i corpi dei figli per poterli piangere, ma Medea, preannunciandogli un futuro ancora più denso di sofferenza, urla tutta l’irrimediabilità del suo comportamento con un apocalittico: «Niente è più possibile ormai!». La pellicola si chiude, dopo che le fiamme hanno avvolto ogni cosa, su un’alba identica a quella con cui essa era iniziata.


Fonte: Biblink Editori

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"Porcile": l’omologazione divorante di Alessandro Barbato, 2005 (3/5)

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 "Porcile": l’omologazione divorante
di Alessandro Barbato, 2005 (3/5)
Il tema principale della pellicola è quello dell’omologazione, affrontata attraverso la metafora del cannibalismo e del divoramento. Il film è composto da due episodi che attraverso il montaggio alternato riproducono in sostanza la stessa vicenda. Il regista, con due lapidi che vengono inquadrate prima dei titoli di testa, indirizza lo spettatore sul significato dell’opera che è il seguente: la società contemporanea divora i suoi figli (il rimando è a Kronos che divorando i suoi figli impediva di fatto la nascita del cosmo), non solo quelli disobbedienti, ma anche quelli che non sono né obbedienti né disobbedienti.
I due episodi nella sceneggiatura, pubblicata postuma, sono nettamente separati (essi furono concepiti dall’autore in momenti diversi): il primo, pensato per un film ad episodi da girare con Luis Buñuel, è totalmente privo di parole se non per una frase che il protagonista ripete per quattro volte prima del supplizio a cui è destinato. La vicenda è ambientata nel deserto lavico dell’Etna ed in un non meglio precisato Cinquecento. Qui, quello che Pasolini definì «un intellettuale nietzscheano che aspira alla santità»10, vive in completa solitudine, rifiutando la società del suo tempo e nutrendosi di tutto ciò che incontra sulla sua strada.

Quando il nostro protagonista, stremato dalla fame, si imbatte in un soldato che si era attardato marciando con la sua truppa, dopo un attimo di esitazione lo affronta in duello e lo uccide. Subito dopo gli taglia la testa (con una meticolosa gestualità che rimanda a quel piano rituale che sarà poi rappresentato, con maggior dovizia di particolari, in Medea) e la getta nel cratere del vulcano prima di cuocere e mangiare le carni della preda. In breve tempo esso viene raggiunto da una vera e propria comunità di ribelli che si aggira per il deserto uccidendo e divorando gli appartenenti a quel mondo da cui essi hanno preso le distanze. 



La loro esperienza ha però vita breve: un viandante, riuscito a fuggire alla morte, denuncia i ‘criminali’ alle autorità religiose del paese vicino; queste ultime, catturati i componenti della banda, dopo un processo su cui le campane della chiesa oppongono una censura sonora, li condannano ad essere legati nel deserto da cui erano stati sottratti, lasciandoli così alle fauci dei cani selvatici. Ad uno ad uno i compagni del protagonista si pentono dei loro gesti abbracciando il crocefisso: azione che il protagonista si rifiuta di compiere, ripetendo anzi l’unica frase che risuona in tutto il brano, una frase di netto rifiuto dell’autorità: «Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana e tremo di gioia». Egli è così condannato ad essere divorato da quella società che aveva cercato di divorare, unico testimone della sua atroce fine è il contadino Marchionne che osserva silenzioso la scena mentre tutti gli abitanti del villaggio si allontanano. 

L’altro episodio, quello da cui è tratto il titolo del film, era stato inizialmente ideato e scritto come una tragedia in versi. Le vicende di questa parte si alternano a quelle del deserto dell’Etna con una tecnica che il regista utilizzerà anche in seguito. Siamo nella Germania post-nazista del 1967, dove in una villa «italianizzante e neoclassica» Julian, il giovane figlio dell’industriale di cultura umanista Klotz, antico esponente della ricca borghesia di Godesberg, nei pressi di Colonia, si trastulla nella nullafacenza portando avanti, senza alcun reale interesse, una relazione con Ida, ragazza di estrazione simile alla sua ma schierata su posizioni ingenuamente rivoluzionarie. Al silenzio dell’altro brano si oppongono i dialoghi, densi di allitterazioni ed espressioni onomatopeiche, che riproducono il vuoto ciarlare della borghesia. Un’opposizione che pero è solo formale, in quanto tra i due episodi esiste una continuità di significato che consiste nella aberrante devianza che Julian segretamente coltiva.

Egli in perfetta solitudine, sottraendosi costantemente sia alle lusinghe del padre, che a quelle della fidanzata Ida, si reca quotidianamente nel vicino porcile, dove mette in pratica il suo folle sentimento verso quegli animali che rappresentano il mondo fagocitante da cui lui – come il protagonista dell’episodio raccontato in precedenza – si autoesclude a causa della sua radicale diversità. La metafora dei maiali è mutuata dalle vignette satiriche che riproducevano spesso i borghesi come immensi maiali capaci di divorare ogni cosa, oltre che dalle pièces di Brecht, ed è singolare che il regista riconosca come gli animali siano in fondo la parte più ‘innocente’ del film: essi sono una forza della natura, così come una forza della natura è il vorace concorrente di Mister Klotz, il signor Herdhitze. 
Parallelamente alla storia di Julian, si svolge la vicenda di suo padre, ossessionato dalla rivalità di un concorrente venuto su dal nulla: Herdhitze appunto. Il suo desiderio di annientare il nemico lo porta ad ingaggiare un investigatore privato che scopre che il suo temuto avversario è in realtà un vecchio criminale nazista che, sottopostosi ad una costosissima plastica facciale in Italia (il regista allude alla continuità tra istituzioni  repubblicane e fascismo), è riuscito a sfruttare la sua cultura ‘tecnica’, oltre che l’oro sottratto agli ebrei, per costruire un impero che minaccia seriamente quello di Klotz. Il disegno del padre di Julian di portare alla luce il tetro passato del rivale è però impedito dall’iniziativa di Herdhitze che, a sua volta, ha ingaggiato un investigatore che lo ha informato dell’abitudine di Julian di accoppiarsi con i maiali. In breve i due decidono di passare dallo scontro alla fusione, cementando la vecchia cultura umanista, di cui Klozt è depositario, con quella tutta tecnologica di Herdhitze: iniziativa che unisce definitivamente il passato nazista con il nuovo potere che avanza. 
Nel frattempo Julian, per nulla rattristato da quello che gli capita attorno, viene abbandonato da Ida, così come i compagni avevano abbandonato, abiurando di fronte alla croce, il ‘santo del deserto’. Con un lungo monologo, in cui il regista mette molto di sé, Julian confessa la sua diversità ad Ida, tacendo in realtà sui contenuti della stessa e lasciandola andare per la sua strada. Durante i festeggiamenti per la fusione egli si avvia come al solito verso il porcile dove questa volta però è sbranato e divorato dai maiali. Ad assistere alla scena ancora una volta il contadino Marchionne, vero trait d’union fra i due episodi: egli, accompagnato da un corteo di contadini, si reca a riferire l’accaduto all’uomo forte della neonata società, il signor Herdhitze, il quale, sinceratosi che non sia rimasto nulla del povero Julian, conclude la vicenda ed il film con un «Ssst! Non dite niente a nessuno!». 
È proprio il silenzio a cui sono condannati a determinare la sconfitta dei due personaggi del film: la loro totale disarmonia con ciò che li circonda si traduce in un gesto di rifiuto totale e di dissolvimento nell’alterità che preclude loro ogni possibilità di azione sociale e di costruzione di un mondo alternativo. La via mistica che Pasolini oppone al materialismo moderno è una provocazione indubbiamente forte, tanto da aver spesso indotto i numerosi critici del regista a tacciare la sua opera di  irrazionalismo e di misticismo reazionario: ma, tutto sommato, si può affermare che essa è artisticamente funzionale alla dimostrazione della sopravvivenza di un elemento irriducibile alla limitata ragione borghese. 
L’apocalisse descritta da Pasolini (che a proposito di Porcile parlò di «anarchismo apocalittico») coinvolge non solo la civiltà agraria, che è stata soppiantata da quella industriale sopravvivendo solo in «sacche storiche» ridotte al silenzio come il contadino Marchionne, ma anche la civiltà borghese-industriale. In proposito, è interessante ricordare come il regista avesse girato una scena, poi tagliata, in cui a Julian, poco prima di essere divorato, appariva Spinoza: questi avrebbe spiegato al ragazzo che gli era di fronte colui che con la sua opera aveva iniziato quel processo che, nel corso dei secoli, avrebbe portato alla progressiva sostituzione dell’idea di Dio con quella di Ragione, legittimando così il mondo borghese di Klotz. L’uomo aveva tutto il diritto di dimostrare la non esistenza della Divinità, ma non per questo doveva poi sostituirla con un’altra ancora più totalitaria: ancora una volta dunque sotto accusa è l’eccessivo razionalismo della cultura moderna. 
Per Pasolini il ruolo della ragione è quello di istituire e guidare un percorso in cui le diverse componenti che costituiscono l’individuo arrivino ad armonizzarsi tra loro; e, analogamente, nella modernità è possibile percepire la possibilità di far finalmente coesistere le differenze che arricchiscono il genere umano, neutralizzando il rullo compressore che le riduce al silenzio. Appare dunque chiaro come il suo messaggio si articoli su diverse scale interpretative: antropologia religiosa, psicoanalisi ed impegno politico si intersecano fino a formare un discorso complesso ed unitario che richiederà all’autore un miglior approfondimento di temi e problemi al centro delle discipline a cui non a caso inizia ora ad accostarsi con maggior frequenza. Su questi argomenti egli continuerà ad insistere a  lungo, tanto che essi diverranno il nucleo concettuale dominante della sua attività giornalistica, quella che sfocerà, negli anni Settanta, nella celebre «stagione corsara» con scritti appassionati ed infuocati che possono essere considerati come una sorta di contrappunto in prosa al suo «cinema di poesia». Cinema a cui ora però, rapidamente, bisogna tornare con l’analisi di due opere che, come si noterà, risultano talmente legate tra loro da renderne quasi impossibile uno studio disgiunto. 

Fonte: Biblink Editori

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"Teorema": l’irrimediabilità della Borghesia di Alessandro Barbato, 2005 (2/5)

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"Teorema": l’irrimediabilità della Borghesia
Il mio itinerario prende le mosse da Teorema: pellicola che alla sua uscita nelle sale, nel 1968, sollevò il solito pretestuoso codazzo di rabbiose polemiche che accompagnava ogni iniziativa pasoliniana, e che subì addirittura il veto censorio della magistratura che la pose sotto sequestro per oscenità. Quello che più disturbava l’opinione pubblica era, probabilmente, la connessione espressa dal regista tra la dimensione del sacro e la sfera della sessualità, con un modo di procedere per analogia che oggi è di gran lunga accettato e condiviso. Il film voleva essere una dimostrazione matematica per absurdum che partiva dalla seguente domanda: «Se una famiglia borghese venisse visitata da un giovane dio, fosse Dioniso o Jehova, che cosa succederebbe?».

La tesi pasoliniana è che l’irruzione del sacro, inteso come potenza superindividuale – proprio per questo occultata dalla prassi borghese ontologicamente individualista – in un contesto rigido ed autoreferenziale come quello rappresentato da una famiglia borghese, metterebbe in crisi il corso irreale e pacato dell’esistenza che i suoi componenti conducevano adagiandosi su una falsa idea del mondo e di se stessi. L’incontro con il divino paleserebbe l’inautenticità di tali esistenze, consegnandole ad un vuoto perpetuo che nasce proprio dall’incapacità dell’uomo borghese di stabilire un rapporto dialogico con tutto quello che non può essere ricondotto alla sua ‘Ragione Dominante’; vale a dire quella ragione di matrice illuminista che guida l’ordine falsamente razionale del mondo moderno, e che viene appunto ‘smascherata’ una volta posta di fronte al mistero del sacro.
In effetti, il giovane ospite che arriva a disturbare la quiete della ricca famiglia appartenente alla borghesia industriale milanese, colui che rappresenta il divino e che viene non a caso annunciato da un etereo postino di nome Angelo, sovverte l’ordine immutabile del profano mondo borghese, fatto di divieti e tabù, con la trasgressione totalmente fisica dell’atto sessuale che consuma con tutti i componenti del nucleo familiare, in modo che i protagonisti prendano improvvisamente coscienza della scarsa consistenza delle loro esistenze.
Analizzando la mentalità borghese, il regista alludeva a quella che venne da lui definita ‘sostituzione’ dell’idea di anima con quella di coscienza: un avvicendamento che comporta la riduzione dell’ampiezza dell’anima ed un irrigidimento dell’io in una forma di coscienza dogmatica portata ad escludere tutto ciò da cui, in un certo senso, essa è emersa. Il riferimento, chiaro, è alla teoria dell’archetipo così come essa venne formulata in testi come Prolegomeni ad uno studio scientifico della mitologia, saggio che nacque dalla collaborazione tra C.G. Jung e lo storico delle religioni K. Kerényi, e che, con tutta probabilità, Pasolini conosceva, essendo stato pubblicato per la prima volta in Italia nel 1948 da Einaudi nell’ambito della Collana viola, diretta da Pavese e de Martino, di cui il Nostro era appunto un appassionato lettore. Non v’è dubbio inoltre che anche Pasolini credeva nell’esistenza di una zona oscura dell’essere umano, eterna e intemporale, a cui era possibile accedere soltanto grazie alla mediazione della mitopoiesi;  un’attività che però «non va confusa con la logica piatta o con la razionalità di tipo borghese».
Partendo da queste premesse Pasolini nel suo film, assumendo come modello di riferimento Horkheimer, contrappone la ‘Ragione Oggettiva’, una sorta di attività conoscitiva capace di sondare l’inconscio mediante l’esercizio della poesia, alla ‘Ragione Dominante’ di matrice borghese. Quest’ultima, per perpetuarsi, deve procedere all’omologazione di ogni diversità, trovando però, nella radicale alterità rappresentata dall’esperienza del sacro, la miccia che fa esplodere i muri delle sue convenzioni. Va comunque sottolineato come l’ospite che piomba nella villa di Pietro, il ricco industriale, e della sua famiglia, non abbia alcun carattere soprannaturale: egli si limita a rimanere in disparte leggendo continuamente l’opera omnia di Rimbaud, attirando con il suo atteggiamento la curiosa attenzione dei padroni di casa, desiderosi di inglobare ciò che gli si sottrae, e della serva Emilia che, proprio perché estranea alla classe borghese, sarà l’unica alla fine a proiettarsi miracolosamente nella sacralità e a sollevarsi al di sopra della coscienza individuale. 
Dopo aver incontrato l’Ospite, Emilia si ritira nel borgo rurale da cui proveniva, rimanendo immobile su una panchina e cibandosi solo di ortiche: l’ascesi la solleverà sui tetti delle case e la condurrà poi a farsi sotterrare viva nel grembo della terra, con un gesto che allude alla morte proprio laddove sorge la vita, concretizzando così la tanto agognata coincidenza degli opposti teorizzata da Jung e Kerényi. Le sue lacrime saranno una fonte dai poteri taumaturgici che guarirà la ferita di un operaio giunto nel frattempo nel cantiere in cui avviene la materializzazione del miracolo; evento così estraneo alla mentalità borghese da essere per questo rappresentato dal regista in maniera volutamente grottesca, ed in antitesi con la vicenda della ricca famiglia

Pietro, il padre, rimane alla fine solo e nudo come un  animale, così come bestiale è l’urlo disperato che lancia nel suo triste peregrinare, urlo che «è destinato a durare oltre ogni possibile fine»; per gli altri membri della famiglia si realizza invece un vero e proprio ‘tradimento’ dell’esperienza avuta: essi sono del tutto incapaci di cercare una via che non sia quella della realizzazione individuale: così la moglie di Pietro si perde in un atteggiamento erotomane, che riproduce nella forma ma non nella sostanza l’incontro avuto con l’Ospite, prima di ritornare al suo vuoto ritualismo cattolico; la figlia Odetta, perduto il culto della famiglia per il quale aveva sempre vissuto, cade in uno stato catatonico ed è rinchiusa in una clinica; Paolo invece, l’altro figlio, cerca di sublimare l’esperienza avuta, esperienza che gli ha rivelato la sua diversità, nell’arte: ma dopo un delirio in cui emerge tutta l’inefficacia del discorso artistico contemporaneo, perdutosi nello sterile tecnicismo delle neoavanguardie, scoppia in un lamento infantile ed autodistruttivo. 


Nonostante la propensione di Pasolini per il misticismo, la sua opera è tutt’altro che un elogio dell’irrazionalità: essa si propone piuttosto di dimostrare la pochezza della ragione individuale borghese di fronte alla forza universale del sacro: forza che diviene lo strumento per unire in un’unica condanna tanto il dominio della classe egemone, quanto le forze ad esso antagoniste, le quali riproducono essenzialmente, in campo artistico così come in quello politico, le stesse strutture mentali che si illudono invece di combattere. Il sacro è quindi proposto come metafora di qualcosa che sia realmente avulso dalla logica di dominio e di possesso tipica del pensiero borghese, come una potenza capace di scuotere quei rigidi pregiudizi ‘illuministi’ che conducono alla rimozione totale dell’alterità, e dunque a quell’omologazione tanto temuta. 


Il teorema poetico e politico di Pasolini è pertanto la dimostrazione dell’impossibilità del borghese ad essere in un altro modo che non sia il suo, ma allo stesso tempo segnala anche quello che è l’ormai irreversibile tramonto di ogni possibilità di rinnovamento sociale ed artistico, rinnovamento che per l’autore doveva saper far coesistere modernità e tradizione, e che non aveva più nelle classi subalterne – destinate tutt’al più ad autoseppellirsi come la serva Emilia – il fulcro sul quale poggiarsi per ripartire. L’utopia negativa che indubbiamente traspare nell’opera esaminata non impedirà al regista di proseguire la sua attività di denuncia dell’«universo orrendo», simile ad una «nuova preistoria», in cui egli vede piombata l’umanità occidentale; dopo Teorema egli proseguirà il suo cammino artistico con un film che ripropone, ampliandole, le stesse tematiche: si tratta di Porcile, film che il regista considerava uno dei suoi prodotti migliori, e su cui ora conviene concentrare l’attenzione.
Fonte: Biblink Editori

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