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giovedì 25 marzo 2021

Pasolini. Il cinema della poesia - Seconda parte

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini. Il cinema della poesia

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI
“FEDERICO II”
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso Di Laurea In Lettere Moderne – Storia Del Cinema



RELATORE
Prof. Pasquale Iaccio



CO-RELATORE
Prof. Aurelio Lepre

CANDIDATO
LUIGI PINGITORE
ANNO ACCADEMICO 1998/1999


 Capitolo III – La realtà



"Si è detto che ho tre idoli:Cristo, Marx, Freud. Sono solo formule. 
In realtà, il mio solo idolo è la Realtà." 
[Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi 1989] 

Dunque la poesia irrompe nel suo cinema ancora prima che egli si dedichi a codificarlo e a descriverne regole e meccanismi; quasi che la poesia, anche in ragione di quanto si è detto in precedenza, appartenga in profondità al suo tessuto genetico-espressivo. È dalla poesia, infatti, e dalle riflessioni che si innestano su questa, che Pasolini deriva tutto il successivo apparato logico. La poesia è una sorta di alveolo dal quale egli parte verso il mondo, e al quale ritorna

dopo tutte quelle peregrinazioni che costituiscono il fondo della sua recerche. 
Ma dove andava Pasolini quando si avventurava al di fuori di se stesso? 
E cos’era, in definitiva, questa ricerca?

"L’idea di Mamma Roma mi venne almeno un anno prima che scrivessi il copione di Accattone, quando tutti i giornali parlarono della drammatica morte di Marcello Elisei, un giovane detenuto morto a Regina Coeli legato al letto di contenzione." 
[P.P. Pasolini. Le regole di un’illusione. I film, il cinema. Fondo Pasolini] 
"Vidi Ettore Garofalo quando stava lavorando come cameriere in un ristorante dove andai a cena una sera, da Meo Petacca, esattamente come l’ho mostrato nel film, mentre porta un cesto di frutta, proprio come una figura di un quadro di Caravaggio." 
[O. Stack. Pasolini on Pasolini, Thames and Hudson, London] 
Mi sembra che in queste due brevi dichiarazione rilasciate da Pasolini ci siano elementi che riescano ad illuminare perfettamente il significato che riveste per lui fare un film. Per Pasolini operare dietro una macchina da presa significava imbastire innanzitutto un lungo processo di trasfigurazione. Probabile che questo sia l’elemento cardine dell’ispirazione tout court, ma nello studio dell’opera pasoliniana ci permette di capire quanto questo processo fosse centrale e determinante, e quali fossero i due poli tra i quali egli si muoveva costantemente. 
La trasfigurazione operata da Pasolini agisce per riportare in vita quella serie di elementi che appartengono al suo immaginario culturale, e per trasformarli e renderli visibili su un piano comunicativo più accessibile. Come si è visto per il film Accattone, e come si vedrà per tutti gli altri suoi film, attraverso un lungo processo di reminiscenze, egli porta alla luce le sue esperienze artistiche, le sue passioni figurative, musicali, cinematografiche, e le trasforma in immagini. Noi non ascoltiamo mai direttamente la sua fantasia che ci parla, ma sempre la sua dimensione intellettuale dell’esistenza, impregnata di certi odori e di certi valori.

Ho detto che faccio il cinema per vivere secondo la mia filosofia, cioè la voglia di vivere fisicamente al livello della realtà. 
[P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti 1972] 
Dopo aver coperto le sue immagini con questa ‘patina’, Pasolini si dedica a penetrare l’altra faccia della sua ricerca. Se la premessa di questa tesi, fondata sul rapporto osmotico fra poesia e cinema, è esatta, e si esaminano le pagine poetiche di quegli anni, all’ inizio dei ‘60, si nota come tutte le sue ossessioni conducano verso un unico sbocco: la realtà. È questo il suo secondo polo. Pasolini come prigioniero, si muove costantemente tra le sue illuminazioni classiche e la realtà, il presente storico. 
Ecco perché questi che sono i film del sacro sono anche denominati i film della realtà. Perché quell’alone mistico che investe le immagini di tali opere, non è altro che il vero sguardo di Pasolini, il suo effettivo sentire la propria persona nel corso della realtà.

... Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani, / sotto le ciocche disordinatamente assolute, / risuona nelle disperate panoramiche, / e nelle sue occhiaie vive e mute / si addensa il senso della tragedia... 
[P.P. Pasolini, La religione del mio tempo - Bestemmia, vol. I, Garzanti 1995].
 Pasolini trasfigura. Siamo nel 1959, alle soglie della suo debutto nel cinema.

Ma che cos’è per Pasolini la realtà? Al contrario del marxista J.P. Sartre (dal quale ricevette attestati di stima in occasione della proiezione parigina del film Teorema, e da cui fu difeso quando una parte della sinistra-marxista francese lo attaccò per Il Vangelo secondo Matteo, considerato un film troppo "religioso" [M.A. Maciocchi, Cristo e il Marxismo. Dialogo Pasolini-Sartre sul Vangelo, “L’Unità”, 22 dicembre 1964]), Pasolini non era un filosofo, né intese mai creare un sistema di pensiero che potesse sostituire la sua presenza immanente nel mondo. Il suo rapporto con l’esistenza, anziché allontanarlo in quella specie d’eremo che è sempre la filosofia-pura, lo costrinse ad uno scontro sempre più aspro e violento con la stessa, in una sorta di discesa quotidiana nella realtà. La realtà era il terreno su cui misurare se stesso e il rapporto con l’altro. Ecco perché diviene il termine chiave attorno al quale si intensificano tutti i suoi sforzi espressivi. Pasolini ci appare compresso fra i due poli: da una parte il suo immaginario culturale, pieno di sovrastrutture e di riferimenti interni, e dall’altro il reale, cioè che è intorno, semplice e sfuggente.

Dunque la realtà innanzitutto come corpo, come sistema materico vivo e pulsante.

Nel 1960, una delle ultime poesie de La religione del mio tempo si intitola In morte del realismo. Nel 1964 la successiva raccolta poetica, Poesia in forma di rosa, si apre con la sezione: La realtà. 
Che cosa significa? Cos’è questo passaggio dal realismo alla realtà? È chiaro che nel momento in cui opera su questi due fronti continui e quasi divergenti, da una parte la realtà, il presente storico; e dall’altra la sua rappresentazione costruita, egli incappa in una vistosa contraddizione. I due termini giocano a fagocitarsi e Pasolini è costretto sul filo di un equilibrio precario. Dovrà quasi sempre scegliere, e la prima di questa scelte riguarda appunto la sua vocazione di narratore: Pasolini sembra voler dare il commiato alla letteratura che fin qui l’ha preceduto e supportato, quella intrappolata negli schemi critici fatti di raggruppamenti sommari e insufficienti, che tendono a suddividere le opere in periodi e a collegare questi periodi attraverso rimandi stilistici e psicologici, per entrare a più diretto contatto con quella vita a cui chiedeva intensamente di partecipare, senza l’apporto di quelle strutture mentali e culturali. Da un punto di vista meramente concettuale il suo sguardo non muta granché, né cambia il modo in cui questo sguardo mette a fuoco il circostante. Ma quello che davvero cambia è la sua pretesa di potersi muovere in maniera più agile e fluida, senza il peso di quella ‘tradizione’ che per molto tempo ha accettato, ma che adesso, alla luce delle nuove prospettive esistenziali ed espressive, gli appare ingombrante e stanca. Pasolini ha bisogno di dire tutto (siamo negli anni che lo conducono al cinema), ha bisogno di essere libero, e ha bisogno di creare partendo da un grado zero delle cose.

Dunque la realtà. Quella che si tocca con mano, che si sconta col proprio corpo e con la propria morte, come gli avevano insegnato i poeti francesi dell’Ottocento a cui lui si sentiva intimamente vicino per quell’anelito cosmico che li animava.

La realtà: il proprio corpo, la propria angoscia, i propri limiti. La periferia, la cultura mitica e neoclassica, il cinema imparato per gradi, il sesso mercenario, le accuse, i processi, i premi ricevuti, i premi rifiutati, le discussioni, i convegni, la stampa, i media, la società, l’apocalisse... ora Pasolini vi è dentro. E non è un caso che la realtà diventi centrale in questo momento della sua vita (all’inizio dei ‘60), quando avviene il suo debutto come regista. Quando cioè egli ha compreso che tutte le sovrastrutture intellettuali tipiche del lavoro letterario, risultano poi insufficienti di fronte alla complessa semplicità del reale. Ha bisogno di cercare altrove, e nel cinema trova una risposta per penetrare quel reale.

Empirismo eretico, il libro che Pasolini pubblicò da Garzanti nel 1972 è il testo chiave per comprendere questa serie di passaggi che lo iniziano alla Realtà/Cinema. Il libro è diviso in tre sezioni: Lingua, Letteratura e Cinema. Che sono anche i tre momenti chiave attraverso i quali egli passa per confrontarsi con le proprie esigenze. Questo libro è ricco di spunti e informazioni per comprendere il significato del fare cinema per Pasolini. Ogni affermazione è una presa di posizione teorica da cui Pasolini non si distaccherà mai, inseguendo un'utopica coerenza di stile.

Il linguaggio più puro che esista al mondo, anzi l’unico che potrebbe essere chiamato LINGUAGGIO e basta, è il linguaggio della realtà naturale. 
[P.P. Pasolini, I segni viventi e i poeti morti, Empirismo eretico, Garzanti 1972] 
Tra la mia rinuncia a fare il romanzo e la mia decisione di fare il cinema, non c’è stata soluzione di continuità. L’ho presa come un cambiamento di tecnica... Ma in fondo non si trattava neanche di questo... Facendo il cinema io vivevo finalmente secondo la mia filosofia. Ecco tutto. 
[P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti 1972] 
Le differenze fra Mamma Roma e Accattone, e fra gli altri film di questa prima fase della realtà (fino a Uccellacci e uccellini per l’esattezza), sono riscontrabili dunque soprattutto sulla riuscita estetica finale, perché poi, hanno tutti, come punto di partenza, la stessa esigenza di espressione della realtà e di confronto con essa.

Mamma Roma presenta una maggiore dispersività rispetto al film precedente. Pur presentando uno stile più sicuro, Pasolini ne frammenta i numerosi spunti che lo animano, e in qualche modo ‘tradisce’ alcuni punti del suo credo: per esempio quando affida alla Magnani il ruolo della madre/prostituta, uscendo dai canoni del suo tradizionale utilizzo di attori non professionisti. Ma, d’altra parte, è in questo film che si affinano le caratteristiche stilistiche che Pasolini aveva cominciato a delineare ai tempi di Accattone: continua il suo progetto di trasfigurazione. Da Caravaggio, come citato all’inizio, al Mantegna che compare nella sequenza dell’agonia di Ettore in prigione, all’episodio iniziale del banchetto di nozze che ricorda le Ultime Cene quattrocentesche. 
Ettore è un fratello minore di Accattone; si muove negli stessi territori e ha le stesse esperienze iniziatiche di avvicinamento alla vita: amicizia, amore, sesso, morte. Ed è in quest’ultima che Pasolini adotta un registro ancora più forte, dove gli elementi della sua cultura figurativa emergono in modo decisamente più marcato. Ettore, figlio di Mamma Roma, è un novello Cristo, condannato al martirio dall’indifferenza della società (della realtà?). La sua fine avrebbe potuto essere tranquillamente la crocifissione. Quando Mamma Roma cammina per le strade della periferia, preceduta in lunghe carrellate dalla macchina da presa, noi vediamo la Madonna che canta la disperazione del destino, l’ineluttabilità della fine che non lascia scampo. 
Questo viaggio nei territori della realtà ha il suo apice nel film La ricotta. Si tratta di un cortometraggio del 1962, terzo episodio di un film collettivo, RoGoPaG, che vide alla regia anche Rossellini, Godard e Gregoretti. 
La ricotta è la storia di un povero proletario, Stracci, che partecipa come comparsa ad un grande ed enigmatico film sulla passione e sulla morte di Cristo, messo in scena da un regista alle prese con le sue difficoltà espressive. Al contrario di questi, Stracci ha come unica necessità quella di reperire cibo per sé e per la sua famiglia. Così si dà da fare per accaparrare i cestini che la produzione offre nella pausa pranzo. Riesce a procurarsene due, il primo di questi lo regala alla sua famiglia. Il secondo lo nasconde in una grotta, con l’intenzione di mangiarselo successivamente. Ma quando ritorna a quel rifugio scopre che il suo cibo è stato divorato dal cagnolino dell’attrice. Stracci si dispera, ma un giornalista che aveva intervistato il regista gli regala mille lire con le quali Stracci corre a comprarsi della ricotta, che poi ingurgiterà nel suo nascondiglio privato. Quando sarà pronta la scena della crocifissione di Cristo e Stracci verrà legato alla croce, nel ruolo di ladrone, la troupe al completo, la stampa e il regista scopriranno che Stracci è morto; probabilmente per indigestione. Il commento del regista è laconico 

"Povero Stracci, crepare... non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo." 

È anche grazie alla forma breve del corto che Pasolini riesce a sintetizzare in questo film la gamma completa delle sue sensazioni, offrendo allo spettatore un film per molti versi geniale. Fu Moravia il primo ad annotare questa ‘intensità’ dell’episodio pasoliniano, la cui genialità sta nel complesso intreccio di motivi e temi che si rincorrono a più livelli. Sembra quasi che in questo film si realizzi quell’intenzione più volte espressa da Pasolini, nel corso del libro Empirismo eretico, di utilizzare il cinema per scrivere una semiotica della realtà. Intenzione che si realizza nella somma dei differenti livelli che ne costituiscono l’intelaiatura. 
Al primo di questi, troviamo il film che il regista Orson Welles sta preparando sulla morte di Cristo. Pasolini fa ricorso a tutta la sua cultura figurativa per rappresentare il gruppo di attori che impersonano i ruoli del Cristo e della Maddalena: l’inquadratura è sempre frontale, immobile. Lo sfondo monocromatico. Gli occhi dello spettatore vengono costretti in un affresco quattrocentesco. Il regista, con la propria voce fuori campo, dà delle brevi indicazioni che non servono a portare avanti la trama, ma solo a dare un rilievo più plastico agli attori disposti attorno alla croce. 
Poi, con uno scarto linguistico, Pasolini introduce il personaggio di Stracci: questo personaggio condivide lo stesso destino di morte dei suoi predecessori, Accattone ed Ettore, ma al contrario di questi avanza nella sua vita ‘comicamente’. Attraverso un cambio di registro, Pasolini abbandona l’atmosfera lirico-tragico dei due film precedenti, dimostrando ancora una volta quanto la sua cultura cinematografica sia estremamente versatile, e mutua lo stile da Chaplin e dalle gag del cinema muto, con ampio uso di acceleratori e di incidenti, per seguire i vari tentativi di Stracci di sfamare se stesso e la propria famiglia. 
Questo cambio di stile permette di intensificare soprattutto il mistero che avvolge la figura del regista, terzo polo del film. In questo personaggio Pasolini fa un decisivo passo in avanti verso la sacralizzazione della propria figura a tutto tondo, nel momento in cui decide di presentarsi in scena in prima persona; passo che lo accompagnerà nel resto della sua carriera in maniera sempre più progressiva e metaforica, come quando nel film I Racconti di Canterbury, interpreterà il ruolo di un allievo di Giotto chiudendo l’ideale cerchio che lega gli estremi di tutto il suo fare culturale: pittura, letteratura, cinema. Per ora siamo ancora ad una fase in cui predomina la maschera, l’attore: Orson Welles/Pasolini compare in alcune sequenze del film, nella parte del regista cinematografico impegnato sul suo capolavoro, così lontano dall’atmosfera chiassosa e goliardica che regna nelle pause di lavorazione sul set. 

L’attore americano è d’altronde una maschera perfetta per Pasolini: Quello figlio di una società e una cultura così diverse dalle sue, opulenta e consumistica, mentre lui resta legato alla sua radice mediterranea. 
Il viso grasso e paffuto di Welles, irrompe nell’inquadratura dominandola e incastrandosi nello spazio con aggressiva esuberanza. Tutto il contrario dell’esile Pasolini, magro come una radice che si sia scavata da sola.

(mostrare la mia faccia, la mia magrezza / alzare la mia sola, puerile voce / non ha più senso...
[P.P. Pasolini, La Guinea - Poesia in forma di rosa, Garzanti 1964]).
E sentire certe frasi pronunciate da Welles, l’attore americano, una delle icone della potenza industriale di Hollywood, rende l’operazione di mascheramento ancora più terribile. 
Poi si scopre che il legame fra le due espressioni è possibile perché Pasolini autoironizza su tutto: sia sulla sua ideologia marxista, sia su quella piccolo-borghese del suo interlocutore giornalista. Egli in realtà parla dell’Esistenza, e usa come metro di scansione della propria Vita, la sua Rabbia. Rabbia che però finisce col perdersi, poiché non riesce ad intaccare l’imperturbabile superficialità del giornalista. E allora si tramuta in fiero disprezzo, con quel gesto di voltare le spalle e lasciare unicamente in vista la scritta regista sul dorso della propria sedia, immagine tipicamente hollywoodiana. 
Quando questo giornalista gli si avvicina per fargli delle domande, Welles sta leggendo un libro su Mamma Roma; ne cita un breve passo poetico... 

Io sono una forza del passato / solo nella tradizione è il mio amore...

Sembra interessato a spiegare il valore di quelle parole al giornalista, ma in realtà approfitta di quella breve intervista per riversare tutto il proprio livore sull’uomo medio italiano e sulla sua borghesia, che definisce la più ignorante di Europa.

1. D: Che cosa vuole esprimere con questa opera? 
R: Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.

2. D: E che cosa ne pensa della società italiana? 
R: il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.

3. D: Che cosa ne pensa della morte? 
R: Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione.

In questa breve intervista, tre domande e tre risposte, c’è tutto il furore di Pasolini, che continua, dopo aver letto un breve stralcio della poesia, ad incalzare il giornalista: 

Ha capito qualcosa?... scriva, scriva questo sul suo giornale. Lei non ha capito niente, perché lei è un uomo medio. Ma lei non sa cos’è un uomo medio: ... è un conformista, colonialista, schiavista, qualunquista... È malato di cuore lei?... no, peccato. Perché se mi crepava qui sarebbe stato un buon lancio per il mio film. Tanto lei non esiste. Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve alla produzione. E il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale. Addio!

Come si vede, mai come in questo film, Pasolini utilizza tutti i mezzi a propria disposizione: linguistici, fotografici, concettuali, per tracciare il solco che lo divide dal mondo del cinema a lui contemporaneo, e dal mondo degli uomini in generale. 
È ne La ricotta che Pasolini arriva al livello autobiografico più alto. Il film è un esempio di quell’autocoscienza linguistica e formale che pervade tutte le opere pasoliniane. Stracci e il regista/Welles sono le sue due facce complementari, la sintesi della sua contraddizione: da una parte l’uomo elitario, culturalmente distaccato e sprezzante, carico di citazioni pittoriche e poetiche; e dall’altra il povero proletario, abitante della periferia, ancorato al problema millenario della fame. E come in un gioco di specchi il film, oltre a contenere i vari Pasolini, contiene almeno altri due film: quello del regista Welles sulla morte di Cristo, e quello sulla lavorazione di quest’ultimo. 
All’esterno, il guscio definitivo, è il film che Pasolini gira sulla morte: quella del proletariato e dei luoghi del suo vagabondare. 

Comincia il distacco dalla realtà? 

La crisi di Pasolini, che è crisi umana ma soprattutto formale - investe cioè la capacità espressivo-linguistica dell’uomo, trova la sua perfetta icona nei due film del biennio ‘63 -’64: La rabbia e Comizi d’amore.

Ci troviamo di fronte a due prodotti nei quali Pasolini emerge in prima persona per distrugge la tradizione del lungometraggio fatta di storie e di recitazione. Sta per dare un addio alla stagione della realtà, ed è chiaro che dovrà essere un addio traumatico, lacerato, concluso da un’esplosione che rimesti sul tavolo i frammenti del suo discorso poetico. Sia La rabbia che Comizi, infatti, non sono dei veri e propri film. Il primo è un montaggio frenetico di immagini, legati dall’unico filo rosso della coscienza poetica dell’autore: La crisi di Suez, la morte di Pio XII, le guerre di liberazione degli stati del terzo modo, il primo viaggio nello spazio, l’Africa, l’incoronazione di Elisabetta II sul trono d’Inghilterra... sono 53 minuti d’immagini in cui Pasolini sembra attuare i programmi della vituperata avanguardia. Trasforma il ready-made di Duchamp in un mediometraggio, dove le immagini si presentano per quello che sono, senza sovrastrutture recitative o fotografiche, con l’unico supporto di una colonna sonora. Violentano l’immaginario dello spettatore perché non sono ‘ necessarie’ e non ‘esprimono’. Sono lì, stabili, e chiedono allo spettatore uno sforzo concettuale per appropiarsene e trasformarle nella propria mente in un prodotto giustificato; mentre Pasolini sembra quasi voler dire: io ho una coscienza del mondo, so cosa avviene nel passaggio da un’immagine dell’Africa ad un’immagine di Kennedy. Ora tocca a voi costruirvene una, avvicinarvi a me.

Il primigenio sogno di innocenza e della possibilità di comunicare questa innocenza si è insabbiato negli anni romani del suo debutto cinematografico. Il mondo è andato in frantumi, la poesia non è più quella degli esordi in dialetto friulano, distesa e bucolica... un’elegia dialettale intrisa dalle fragranze dei luoghi e delle sensazioni, disgiunta dal corso della storia e delle ideologie... [Andrea Miconi, Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il linguaggio, ed. Costa & Nolan 1998]; ora Pasolini è entrato nella realtà e ha scoperto che difficilmente potrà vincere. Si moltiplicano gli incontri sessuali e i processi che il mondo gli intenta. E si moltiplica la sua energia da martire, l’ansia religiosa di sentirsi scandalosamente diverso e perseguitato. 
Quello che in poesia è stato il passaggio dalle liriche friulane alla raccolta de Le ceneri di Gramsci, ultimo esempio di poesia distesa e comunicativa, preludio a La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa e Trasumanar e organizzar, ossia la poesia del frammento, del diario violento e acre, della non-speranza, dell’impossibilità apocalittica di abbandonare il gioco nonostante la coscienza che quel gioco è impossibile (Io non posso credere alla rivoluzione, ma non posso non essere a fianco dei giovani che si battono per essa [da un’intervista del 26 gennaio 1971, raccolta da Jean Michel Garnie per “Le Monde”.])nel cinema è l’uscita dalla Realtà. 

Pasolini, ora, avverte l’esigenza di assumersi la responsabilità fisica del suo bisogno espressivo. La carne diventa il luogo della sua vera vita, senza altri possibili altrove. La sue presenza sullo schermo cinematografico è il controcanto filmico della corporeità della sua poesia. Dove là predominava un istinto verbale fatto di sangue e materia, qui, questo istinto si concretizza nella sue duplice veste filmante-filmato. Ciò che in qualche modo non gli era completamente possibile sulla carta, cioé mostrarsi fisicamente, nel cinema diventa una realtà compiuta. 
E quando compare nelle prime inquadrature di Comizi d’amore a domandare ai giovani borgatari di Roma e Palermo le loro esperienze in tema d’amore e sesso, sappiamo che si sta portando a compimento la parabola iniziata ne La ricotta: Orson Welles/il regista spegne le luci del set e abbandona la storia di Cristo, per dedicarsi alla propria storia. Getta la maschera di lattice per mostrarci il volto di Pier Paolo che vi era sotto.

Eppure ciò che colpisce (in Comizi d’amore) è la presenza sullo schermo di Pasolini medesimo: è il suo più spassionato autoritratto... il film aderiva perfettamente, e fuori di ogni previsione, alla sua persona fisica, al modo in cui sono inforcati gli occhiali o la giacca gli ricadeva sulle spalle. 
[Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, ed. Giunti 1995] 

 Capitolo IV – Cinema di poesia

È quasi sempre attraverso una crisi che si determina il passaggio da una fase all’altra nel cursus espressivo di un autore; crisi tanto più lacerante e profonda, quanto maggiori sono state le energie investite e adoperate nella fase precedente che ora si abbandona. In Pasolini questa crisi è resa ancora più drammatica dalla molteplicità di interessi e di intenzioni che dominavano il suo ‘fare’, tanto da riversarsi, poi, su tutti i fronti della sua produzione di quegli anni.
In poesia Le Ceneri di Gramsci hanno cremato la voglia di credere alla rivoluzione possibile, ad una visione ideologica del mondo in cui l’antico nodo binario bene-male è risolto in funzione di una sintesi superiore a cui, tra l’altro, l’intellettuale partecipa con tutte le proprie energie. Forse sono proprio questi gli anni in cui egli sentì che l’antico sogno, coltivato da sempre, di essere un perno violento e forte del mondo, non era più possibile. A Pasolini è mancata non solo la voglia di continuare a lottare, ma anche quella fiducia che la borghesia ha da sempre accordato al poeta, eleggendolo a titolare unico dei propri bisogni espressivi. La sua visione medioeval-rinascimentale, in cui dominava la coppia mecenate-artista, non era più proponibile in quell’Italia che godeva il boom economico degli anni ‘60. Il poeta era una creatura marginale, tanto più relegata alle periferie della società quanto maggiore era il valore di trasgressione che egli adoperava nei confronti del codice della realtà.

Pasolini riempì di dichiarazioni i fogli dei quotidiani e dei settimanali. La sua poetica, la sua visione del Novecento letterario, divenne oggetto di cronaca giornalistica. Già D’Annunzio seppe utilizzare i mezzi di comunicazione di massa allo scopo di divulgare la propria immagine di scrittore... ma una differenza è fra i due: Pasolini fu un poeta a cui mancò la commissione da parte della società. Si batté con forza per riceverla. 
[Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, ed. Giunti 1995]
Ed ecco La religione del mio tempo (1961) e Poesia in forma di rosa (1964), le raccolte in cui l’incubazione della Crisi e la sua esplosione trovano la loro perfetta incarnazione.
Già a livello onomastico questi due libri ribadiscono la distanza che Pasolini ha assunto nei confronti del suo passato, e la sua voglia di esplorare i territori del proprio intimismo lirico. Si è già visto che il trasferimento dal primitivo Friuli alla mondana Roma ha innervato in Pasolini la sensazione fisica del cambiamento, e che la sua vita e la sua ricerca formale si sono adeguate a questo cambiamento spostando il bersaglio della propria attenzione dal mondo elegiaco e contadino, a quello ideologicamente più prossimo delle borgate e dei ragazzi di vita.
Ora, in un quest’ulteriore fase di passaggio, Pasolini non ha altri ‘oggetti’ su cui riversare la propria attenzione, sentendo la realtà esterna investita da quella stessa crisi che egli si rappresenta a livello linguistico. Anche perché la Realtà in cui egli ha viaggiato si è eccessivamente storicizzata, e Pasolini avverte il bisogno di mantenere un tono metastorico nella sua produzione. Così decide di virare il viaggio dentro se stesso, frantumando la sua poesia come ha già fatto con la propria esistenza.

Il disfacimento dei luoghi, delle culture e dei corpi del sapere tradizionale... conduce Pasolini a rifugiarsi nella eroicizzazione della vicenda individuale e della diversità intellettuale, nella progressiva rarefazione dell’esperienza civile, nelle rotture stilistiche e ideologiche di un fare creativo travolto dal decadimento degli scenari naturali a cui era appartenuto, nella ricerca traumatica di una poesia che osserva il proprio straniamento e la propria dissipazione sociale. 
[Andrea Miconi, Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il linguaggio, ed. Costa & Nolan 1998]
È in questo clima di totale crisi che il cinema di Pasolini prosegue e sviluppa quei germi che hanno già infestato la sua poesia. Conclude la sua tetralogia sulla figura del Cristo (gli altri sono stati Accattone, Ettore di Mamma Roma e Stracci) con Il Vangelo secondo Matteo, il film del 1964, estremo punto di rottura con il mondo a lui familiare dell’ideologia marxista e con quell’atmosfera neorealista che ancora impregnava i suoi precedenti lavori.

Il film è "una specie di ricostruzioni per analogie. Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia operazione questo tema dell'analogia che sostituisce la ricostruzione". 
[P.P. Pasolini, Quaderni di Filmcritica - con Pier Paolo Pasolini, Bulzoni 1977]
Non è, quindi, un film storico come le colossali produzioni americane erano solite fare. Il film non vuole essere una ricerca illustrativa ma vuole dare il senso della poesia che c'è nel Vangelo:

"La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un'aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all'altezza poetica del testo. È quest'altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un'opera di poesia che io voglio fare. Non un'opera religiosa nel senso corrente del termine, né un'opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l'umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell'umanità. Per questo dico "poesia": strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo". 
[P.P. Pasolini, Sette poesie e due lettere, a cura di Renzo Colla, La Locusta 1985]
Il Vangelo, a livello stilistico, mantiene ancora una fluidità di narrazione in cui predomina ancora una figura chiave vecchio stile, quella del Cristo appunto: immagine non troppo velata dell’ autore-poeta-intellettuale rifiutato dai suoi simili e dalla società, incapace di avere discepoli perché in contrasto egli stesso con quel Verbo infuso per cui ha vissuto la sua esistenza fino a quel punto. Pasolini non accettò mai l’insincerità delle critiche che gli piovvero addosso dopo la realizzazione di questo film, soprattutto quando venne puntato il dito sul suo presunto tradimento all’ideologia ateo-marxista. In realtà Pasolini accomunava marxismo e religione perché vedeva entrambe opposti al conformismo della borghesia. E poi, egli analizzava la religione non come momento storico, ma come momento metastorico, al di là dei tempi e dei costumi, cristallizzato nella vita dell’uomo sin dal suo apparire, e pertanto legato anche alle proprie iniziali forme espressive. 

Non mi sembra ci si debba meravigliare davanti al Vangelo quando leggendo tutto quello che ho prodotto una tendenza al Vangelo era sempre implicata, fin dalla mia prima poesia del '42. (...) Quindi un tema lontanissimo nella mia vita che ho ripreso, e l'ho ripreso in un momento di regressione irrazionalistica in cui quello che avevo fatto fino a quel punto non m'accontentava, mi sembrava in crisi e mi sono attaccato a questo fatto concreto di fare il Vangelo. 
[P.P. Pasolini, Quaderni di filmcritica - con Pier Paolo Pasolini, Bulzoni 1977]
Dopo questo film, Pasolini decide di affrontare direttamente la sua crisi linguistica e lo fa con un film: Uccellacci e uccellini, del 1966.

Uccellacci e uccellini è il frutto emblematico di questa crisi che ha portato Pasolini ad abbandonare i territori fino ad allora utilizzati del suo fare poetico. È il film di una cesura, della messa in scena di un addio, esplicitata in particolar modo nella scena del funerale a Togliatti.
I due protagonisti, Ninetto e Totò, nel loro viaggio on the road, vengono accompagnati da un corvo che tenta di dialogare con loro e di imporre la propria visuale marxista del mondo. E si imbattono cammin facendo nel corteo funebre che accompagna la bara dell ex leader del PCI. Pasolini utilizza materiale d’archivio, riprese documentaristiche dei volti del popolo comunista piangente e addolorato, e le utilizza per segnare il suo saluto a quell’ideologia che quest’uomo rappresentava, e di conseguenza per chiudere i conti, per quanto sia possibile ad un uomo provvisto di memoria, con quella dimensione della propria esistenza che abbiamo già visto in poesia ormai abbandonata.

Tutto il film in realtà è pervaso da questo senso di addio e di morte: addio ai canoni del vecchio film paraneorealista, addio al sogno della rivoluzione, addio persino ai luoghi fisici della sua poesia. Là dove (Accattone, Mamma Roma) c’erano i pratoni della periferia romana e il popolo minuto che l’abitava, qui ci sono gli stessi luoghi, ma divenuti metafisici, quasi beckettiani. E che ribadiscono (ideologicamente) la distanza con tutto. Col terzo mondo, attraverso i cartelli stradali su cui è indicata la distanza in chilometri da paesi come Cuba o la Turchia. Col proprio passato di narratore, nel momento in cui la storia non procede più linearmente ma per accumulo. I due protagonisti vedono, ascoltano, camminano. Hanno un rapporto fisico col mondo, ma non coscienziale, tant’è che a loro tocca ripetere con terzi il loro stesso destino di sfruttati. E ancora, con le forme del cinema della Realtà, poiché Pasolini decide di immergersi nel territorio della fabula, dove gli uomini non sono uomini ma simboli, rappresentano qualcosa. Dove bene e male hanno divisioni nette e precise, e alla fine della strada c’è una morale da rendere visibile.
Persino la morte non è più la morte lirico-tragica di Accattone che si accascia per strada e si abbandona. La morte è semplicemente un luogo del presente che Pasolini intende esplorare, e che sottende tutti i suoi futuri sviluppi. Quando qualche mese, dopo Uccellacci e uccellini, Pasolini realizzò un cortometraggio intitolato La terra vista dalla luna - un’altra favola, assolutamente surreale e priva di ideologia rivoluzionaria - egli chiuse questo film con una didascalia, che ne era anche la morale "Essere vivi o essere morti è la stessa cosa."
Il cinema di poesia si configura pertanto come una risposta che Pasolini elabora per contrastare la dimensione di Crisi nella quale si trova catapultato; poiché, per quella sua natura che abbiamo definito polifonica, egli era incapace di giungere ad un ruolo di rifiuto delle cose, ma preferiva piuttosto continuare, fino al paradosso, a scontrarvisi e a lottare con esse. E il film è il luogo d’elezione che viene adottato a contenitore della sua sola e unica possibilità di difesa.
Sono questi gli anni in cui il suo cinema acquista quell’attributo di sinteticità che gli è stato precedentemente riconosciuto. Cioè, in una sintesi vertiginosa e frenetica, il cinema diviene la forma in cui Pasolini reimposta la propria poesia-letteratura, costringendola ad un mutamento linguistico e dunque totale.
Pasolini guarda in faccia la sua Crisi, non si ritira dinanzi ad essa, ma la contestualizza fino a diventare egli stesso crisi; il suo corpo si è trasformato nella mappa geografica di questa vertigine, e il cinema è lo sguardo costretto ad affondare in quel corpo che, rifiutando una posizione della Realtà abbraccia la Realtà in toto; fino alle estreme conseguenze.
Le estreme conseguenze, in questo caso, hanno una data: 2 novembre 1975. La morte sigilla una vita che si è trasformata lentamente in un grande buco nero di antimateria, dove tutto collassava verso un unico punto. Il suo ultimo film Salò, il suo ultimo romanzo Petrolio, due opere uscite postume, non hanno più confini linguistici che possano definirli e dunque limitarli. Sono due voci di uno stesso urlo, rivolto da un corpo che cerca la sua definizione, la sua consacrazione quasi (per continuare con questo parallelismo Pasolini/Gesù Cristo) nella morte.

In Edipo re, film del 1967, ritroviamo assommati ed espressi tutti questi elementi, assieme alla compiuta definizione di quelle teorie sul cinema di poesia che Pasolini da tempo era in fase di progettazione.

Dopo la stagione degli Addii, assistiamo all’alba di una nuova stagione che ha come caratteristica distintiva l’accumulo di un energia decadente e nichilista, carica della possibilità che da un momento all’altro tutto possa finire. Conseguenza naturale per chi lavora, non più con la speranza di cambiare, ma solo per rappresentare ciò che è. Ma non per questo è una stagione arida, anzi. Pasolini trova nel proprio rifiuto un universo ricchissimo di possibilità.
L’autobiografismo che è diventato spina fondamentale del suo fare, si manifesta, già a livello tematico, dalla volontà che ebbe Pasolini nell’accentuare il carattere di Edipo: un giovane con un bruciante desiderio di conoscere La Realtà, e che dalla realtà profetizzata dall’oracolo sarà messo in scacco.
Il personaggio principale della tragedia sofoclea è di nuovo interpretato da Franco Citti, lo stesso attore che aveva già impersonato Accattone. E non è un caso. Pasolini di nuovo ci avverte: per quanti mutamenti e nuove esigenze espressive egli possa maturare, il cordone ombelicale che lega ogni istante della sua produzione non può essere spezzato. Quella premessa iniziale, per cui parlare di Pasolini significa innanzitutto parlare di un poeta, viene ribadita da questi piccoli segnali di continuità che egli continua a mantenere nel vortice di cambiamenti che comunque sente l’esigenza di sperimentare.

C’è un perno, attorno a questo perno ruota la filosofia pasoliniana. Come un movimento della cinepresa, denominato panoramica, che ruotando sul proprio asse descrive l’ambiente circostante.

Edipo re si apre con una panoramica circolare e si chiude allo stesso modo. La storia comincia e finisce portandosi fuori dalla storia, in quel territorio del mito che permette all’autore di scandagliare più definitamente la propria individualità (ed è proprio il rimprovero che la critica vetero marxista mosse a Pasolini: l’allontanamento dalla storia). L’autobiografismo dell’opera prosegue: attraverso la storia dell’incesto e dell’uccisione paterna, Pasolini traccia la storia della propria vita, il proprio rapporto conflittuale col padre e il rapporto di sregolato amore con la madre. (Quest’ultimo, ribadito in più occasioni fu, tra l’altro, oggetto di una celebre poesia di quegli anni. [P.P. Pasolini, Supplica a mia madre - Poesia in forma di rosa, ed. Garzanti 1964])
Abbiamo già detto, a proposito de La ricotta, che Pasolini acquisisce in maniera stabile la coscienza del proprio operare nel cinema. Da Edipo re in poi tutti i suoi film agiscono su un doppio binario trasformandosi in dei meta-film. Oltre a mettere in scena il contenuto dell’opera, essi diventano delle riflessioni sulla propria condizione di autore. Edipo re è infatti un lungo film sullo sguardo, operazione primaria sia per chi fa il film, sia per chi in sala ne fruisce. Le scene, come quella dell’uccisione del padre da parte del giovane Edipo, Pasolini volle realizzarle personalmente con la camera a spalla; volle ribadire in questo modo la sua presenza fisica nel film, l’impossibilità di slegare la sua individualità dal contesto millenario e pubblico dell’opera.
La storia che comincia negli anni '60, con la nascita di un bambino, si conclude negli stessi anni, quando il vecchio Edipo accecato attraversa la città di Bologna suonando il flauto. La sua ultima ‘visione’ è una panoramica della mente, il ricordo eterno di elementi quali alberi e luce. "Sono giunto" egli mormora "la vita finisce dove comincia" Pasolini ci ribadisce la sua volontà di conservare una radice violenta che attraversi a ritroso tutta la sua esistenza.
Il manifestarsi di tutti questa serie di elementi ci permette di notare quanto l’universo filmico pasoliniano muti radicalmente nel breve arco di due, tre anni. Egli è passato, infatti, da una rappresentazione oggettiva della realtà, tecnica tipica, ad esempio, del cinema neorealista; che anche quando si sforzava di aderire il più possibile al punto di vista della storia narrata (vedi La terra trema di Visconti e l’uso strettissimo del dialetto siciliano presente in esso), in realtà continuava ad utilizzare un punto di vista esterno e oggettivo: lo sguardo dell’autore, anche quando entra sui luoghi della storia si trova ad operare distanziato di alcuni cm, pertanto ne risulta una prospettiva doppia, col suo punto di osservazione che finisce inevitabilmente a sovrapporsi a quello dei protagonisti.

La rivoluzione pasoliniana fu proprio questa: abolire il distacco oggettivo tra autore e materia, cercando un punto di fusione che fosse ribadito lungo tutto l’arco del film dallo sguardo adoperato dal regista. Incarnarsi nell’opera diventando egli stesso l’opera, materia espressiva ed espressa, facendo del cinema poesia, attraverso quella struttura mimetica che ha contaminato tutti i poeti dal tardo-romanticismo in poi.
Questa tecnica, che Pasolini definì soggettiva libera indiretta, è il cardine di Edipo re e di tutti i successivi film. L’ambiente che circonda l’eroe tragico, le scenografie naturali, le luci, i colori del cielo, sono tutti elementi che appartengono alla sua geografia interiore, anche quando egli non è direttamente in campo. Come se il mondo si fosse plasmato attraverso gli occhi di Edipo, e noi fossimo prigionieri di questo filtro perenne. Tutto è rappresentato in funzione di Edipo, e quando la macchina da presa panoramica nel deserto per descrivere l’avanzata di un truppa di soldati, lo fa tremando, sconnessa, perché in realtà riproduce lo stato d’animo di Edipo. Edipo è poesia nella successione dei movimenti a-razionali e nella volontà di adesione del protagonista-autore al proprio istinto.
In questo modo Pasolini crea un'opera assolutamente libera, svincolata dalla necessità di rappresentare attraverso i cardini classici della grammatica cinematografica: attori, scenografie, montaggio. Tutto è abolito e reso in funzione della forza esplosiva-espressiva del film; tutto è asservito, pertanto, al continuum mente-corpo dell’autore, proiettato all’interno della sua opera senza soluzione di continuità.
Fu su questa nuova terra esplorata da Pasolini che cominciarono ad addensarsi le nubi critiche dei contemporanei. Anche perché Pasolini osò sconfinare in territori che molti non videro di sua pertinenza (la semiotica in particolare), per riuscire ad elaborare e presentare all’esterno gli sviluppi del suo stile cinematografico.

Pasolini ha introdotto la soggettiva libera indiretta nel tentativo di dimostrare l’esistenza concreta, empirica, di un indicatore semiotico in grado di rendere verificabile uno stile poetico nel cinema. 
[G. Nicolosi, Pasolini nell’era di Internet, tesi di laurea in Scienze politiche estrapolata da Internet, 14 settembre 1999, www.pasolini.net/cinema_poesia.htm]
Molti dei suoi detrattori riscontrarono nelle teorie pasoliniane una certa vaghezza e superficialità espositiva. Pasolini fa ricorso a termini caratteristici del linguaggio semiologico per spiegare il cinema, e per dimostrare che anche il cinema deve essere studiato dalla semiotica: 

Poiché infatti il cinema comunica, vuol dire che anch’esso si fonda su un patrimonio di segni comuni. 
[P.P. Pasolini, Empirismo eretico, ed. Garzanti 1972]
Così egli si inoltre in spiegazioni che hanno come riferimenti linguistici termini come im-segni (segni delle immagini), cinémi (contraltare di fonemi), per arrivare ad evidenziare la coesistenza di due mondi paralleli: cinema e film. Il cinema è inteso come territorio vasto, un infinito piano sequenza che scorre parallelo alla realtà, riproducendola. I film sono parti di quel piano sequenza, che delimitano la realtà estrapolandola dal suo fluire temporale per fissarla su celluloide. Attraverso il montaggio continuo e frammentato, e l’uso della soggettiva libera indiretta, Pasolini intese mantenere i film su un livello non naturalistico.
C’è chi, come Alberto Costa, ha saputo cogliere i fondamenti di questi ‘azzardi’ teorici, intendendo la soggettiva libera indiretta come materializzazione di un certo modo di intendere la realtà di un personaggio in tutte le inquadrature, anche quelle chiamate oggettive. Ma vi furono in molti, Eco fra i primi, a criticare quella che appunto abbiamo definito vaghezza contenutistica delle sue teorie. Ma qui ci tocca fare i conti con il poeta; il poeta Pasolini che incontra il regista e il teorico nel momento in cui queste premesse vengono sviluppate con ossessiva coerenza in tutti i suoi film. 

Pasolini ha spinto fino all’estremo, come sua abitudine, le conseguenze di una simile impostazione semiologica, che vede nel cinema una lingua che non fa altro che fissare in maniera riproduttiva il linguaggio della realtà. Spingere all’estremo ha significato costruire un parallelo tra una tecnica meramente cinematografica come il montaggio, e un elemento essenziale, fortemente legato al vivere della realtà, come la morte. 
[G. Nicolosi, Pasolini nell’era di Internet, tesi di laurea in Scienze politiche estrapolata da Internet, 14 settembre 1999, www.pasolini.net/cinema_poesia.htm]
Si può dire che Pasolini iniziò a elaborare un cinema di sensazioni, dove la tecnica cinematografica dovesse essere completamente assoggettata alla riproduzione di tali sensazioni; sempre.
Come già detto egli non fu l’ideatore unico e solitario di questo modo di fare cinema: in Italia e in Europa ci furono altri sperimentatori e altri adepti di un nuovo modo di creare immagini, anche quando non si sentì il bisogno di lasciarsi incastrare nelle strettoie ideologiche dell’ avanguardia. E fu lo stesso Pasolini a captare quest’atmosfera e a parlarne. Semmai, quello che rende il discorso su Pasolini unico, fu proprio la totale dedizione dell’autore alla nuova formula espressiva. Dedizione talmente profonda da essersi protratta lungo tutto il resto di quella carriera, cercando e perfezionando, ma mai rinunciando a quello che egli ormai considerava l’unico punto fermo della sua voglia di descrivere per immagini. E questa è una caratteristica dell’uomo-poeta: il sentire, profondamente, assolutamente, l’oggetto della propria rappresentazione.
Pasolini riconobbe la poeticità del cinema di Antonioni, ma ne denunciò, anche, l’uso forzatamente formalistico di quella tecnica. Quasi a dire: Antonioni ha utilizzato la tecnica della soggettiva libera indiretta, facendo scorrere il film su una donna alienata [Michelangelo Antonioni, Deserto rosso, Federiz Francoriz Film2000, 1964] come se fosse osservato interamente da quella donna; ma egli non è quella donna, gli manca quest’ultimo tratto per chiudere il cerchio e rendere l’opera in sintonia assoluta con la vita.

Ma, a dimostrazione che il fondo del film sia sostanzialmente questo formalismo, vorrei esaminare... la legge interna delle ‘inquadrature ossessive’, che dimostra dunque chiaramente la prevalenza di un formalismo come mito finalmente liberato. 
[P.P. Pasolini, Empirismo eretico - a proposito di Deserto rosso, ed Garzanti 1972]
Quello che soprattutto conta da questo momento in poi, è la volontà pasoliniana di attribuirsi una libertà autoriale che sia sempre la base di ogni sua nuova produzione. Dal cinema di poesia in poi, quelli che erano i legami che Pasolini aveva intessuto e mantenuto con la ‘tradizione’, pur nelle mille sfaccettature che sono state esaminate, vengono completamenti disciolti e gettati nel magma della sua espressività, asserviti all’idea del film e resi, quindi, ancora più plasticamente definiti.
Dal cinema di poesia in poi, ogni volta che Pasolini citerà il cinema del passato - i suoi registi preferiti per esempio (Ozu e Mizoghuchi su tutti) [*] - sarà sempre nel rispetto totale della propria libertà citazionistica, libertà che avrà come unico scopo la definizione del film.

*****
[*] Yasujiro Ozu, regista giapponese (1903-1963). Pasolini derivò da questo regista la assoluta libertà nei confronti di codici e regole prestabilite. Dal 1935, anno del film Il figlio unico, Ozu si dedicò costantemente a creare una propria grammatica stilistica i cui elementi principali furono: fissità dell’inquadratura con abbondante uso di grandangolo per dare profondità di campo alla scena. Utilizzo del montaggio in chiave soprattutto espressivo, con continui controcampi e stacchi casuali, sovente in funzione simbolica.
Kenji Mizoguchi, regista giapponese ( 1898-1956). Mizoguchi è il vero padre spirituale dell’universo filmico di Pasolini. Dal regista nipponico derivò infatti l’uso esasperato del piano-sequenza e la convinzione che il cinema fosse il medium ideale per scandagliare la tragicità dell’esistenza umana, che il regista nipponico cercò nella donna e nella vita dei bassifondi. Mizoguchi fu il padre putativo di un’intera generazione di registi, per l’eleganza formale del suo stile, che formò i grandi nomi della Nouvelle vague francese.

TESI
“Pasolini: il cinema della poesia”
Dott. Luigi Pingitore
a cura dell’Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”

Fonte in formato PDF



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Curatore, Bruno Esposito

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