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giovedì 25 marzo 2021

Pasolini. Il cinema della poesia - Prima parte

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini. Il cinema della poesia
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI
“FEDERICO II”
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso Di Laurea In Lettere Moderne – Storia Del Cinema

RELATORE
Prof. Pasquale Iaccio

CO-RELATORE
Prof. Aurelio Lepre

CANDIDATO
LUIGI PINGITORE

ANNO ACCADEMICO 1998/1999
 

SOMMARIO


Introduzione
Nei sette capitoli che compongono questa tesi ho cercato di mettere a fuoco, in maniera via via più progressiva, lo stretto rapporto che esiste in Pasolini tra il suo fare cinema e la sua natura poetica. Per realizzare questo è stato necessario addentrarsi sia all’interno della sterminata bibliografia critica esistente su Pasolini, tra la gran mole di articoli, saggi, monografie, e contributi critici stralciati da Internet; e sia all’interno della vita dello stesso, analizzandone i grandi slanci e le pause di riflessione o di abiura.

E sempre di più, nell’avanzare, ho avuto la sensazione di addentrarmi all’interno di un imbuto; partito da una dimensione ampia ed estremamente dispersiva e costretto poi a procedere verso una zona finale, molto più

stretta, nella quale tutte le ansie espressive di Pasolini sembrano aver trovato necessariamente una loro adeguata collocazione. E alla fine del quale si intravede un barlume di luce, quella luce finale che, secondo una definizione dello stesso Pasolini, è la morte essenziale, quella che permette di chiudere il cerchio ‘imperfetto’ di un’esistenza spesa a girare intorno agli stessi poli, attraverso un montaggio definitivo che pone fine al caos, assestandolo e tramandandolo ai posteri.

Ecco perché l’ultimo capitolo ha quel titolo (La luce, alla fine), e perché comincia dove era iniziato anche il primo, (La morte di Pasolini), nel tentativo di ricreare quella circolarità che solo la morte ha spezzato.

Ogni capitolo di questa tesi è una tappa all’interno dell’imbuto. Nel secondo (Tra cinema e poesia) si prendono in esame i rapporti esistenti fra i due linguaggi, quello del cinema e quello della poesia, utilizzati da Pasolini. Nel terzo (La realtà) viene esaminato quello che a detta di Pasolini fu il suo vero e unico idolo, dimostrando quanto il suo cinema e la sua poesia si influenzino a vicenda. Poi nel quarto e nel quinto (Cinema di poesia e Teorema) viene descritta la crisi di Pasolini e i suoi tentativi di risolverla creando un’osmosi fra i due linguaggi. Il sesto capitolo (La civiltà dell’eros) ci vede incastrati nel punto più stretto del collo dell’imbuto, laddove è impossibile tornare indietro o semplicemente voltarsi. È la stagione dei corpi, della Trilogia della Vita, dell’abiura, dei viaggi frenetici, del moltiplicarsi della propria voce e della grande negazione.

E poi l’ultimo capitolo, quello dove la morte trova la sua consacrazione e, come già accaduto a molti, anziché sconfiggerlo ne suggella il destino e la memoria.

Capitolo I – La morte di Pasolini




"Quando il suo corpo venne ritrovato, Pasolini giaceva disteso bocconi, un braccio sanguinante scostato e l'altro nascosto dal corpo. I capelli impastati di sangue gli ricadevano sulla fronte, escoriata e lacerata. La faccia deformata dal gonfiore era nera di lividi, di ferite. Nerolivide e rosse di sangue anche le braccia, le mani. Le dita della mano sinistra fratturate e tagliate. La mascella sinistra fratturata. Il naso appiattito deviato verso destra. Le orecchie tagliate a meta', e quella sinistra divelta, strappata via. Ferite sulle spalle, sul torace, sui lombi, con il segni degli pneumatici della sua macchina sotto cui era stato schiacciato. Un'orribile lacerazione tra il collo e la nuca. Dieci costole fratturate, fratturato lo sterno. Il fegato lacerato in due punti. Il cuore scoppiato"

[perizia del medico legale che accertò la morte di Pasolini, comparsa sul 'Corriere della sera' il 2 novembre 1977].

La morte di Pasolini rappresenta, paradossalmente, uno dei momenti più "vivi" di tutto il suo iter umano ed artistico. Per le caratteristiche di crudezza e di desolazione, di efferatezza ma anche di sinistra dolcezza, quella morte del 2 novembre 1975 diventa il più suggestivo e poetico suggello a cui la sua esistenza potesse aspirare. Non c’è nulla in quella morte, infatti, che non appartenga completamente a Pasolini e alla sua mitologia estetica: dal luogo in cui è avvenuta, l’idroscalo di Ostia, al protagonista del delitto (o presunto tale, visto che il processo ha emesso una condanna che a molti è sembrata poco definitiva): il ragazzino Piero Pelosi, diciassettenne della periferia romana, così fatalmente simile a quelle figure della borgata che Pasolini ha evocato e rappresentato plasticamente lungo l’arco di tutta la sua produzione. Fino, in conclusione, alla richiesta che c’era dietro quell’incontro tra Pasolini e il suo omicida.

Un Pasolini spinto dai propri desideri carnali e fisici, incrocia la vita di un diciassettenne abbastanza povero. Il tramite per quell’incontro è una cena che Pasolini offre al ragazzo. Dunque i soldi come mezzo per arrivare ad un fine. Senza ombra di moralità, e senza, soprattutto, ombra di pietismo. Pasolini aveva bisogno di quel corpo, l’avrebbe comprato. Forse solo spiccioli di contraddizione. Soprattutto agli occhi di quanti, in più occasioni, avevano rimproverato a Pasolini questo approccio mercenario col sesso e con quella gioventù proletaria di cui lui si era fatto cantore e di cui testimoniava un'innocenza ‘angelica’. Ecco perché quella morte è così viva. Perché parla ancora per lui, chiede rispetto di una contraddizione che è pura complessità elevata a sistema di vita. E lo fa nei luoghi poetici della sua letteratura e del suo cinema.

Difficile, in questo senso, non intendere la linea di drammatica e coerente fatalità che associa il vitalismo pasoliniano - e la sua massima realizzazione espressa dai modi dell’esperienza fisica e sessuale - all’impulso di morte cui carnalmente e simbolicamente si ricongiunge

[Andrea Miconi, Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il linguaggio, Costa & Nolan 1998].

Dunque la morte diventa soltanto un punto di partenza da cui cominciare un’analisi a ritroso, che ogni volta si scontrerà sempre con gli stessi termini, con quelle stesse auto-attribuzioni pasoliniane: concetti come coerenza e contraddizione che sembrano essere gli ideali confini che recintano la sua esistenza.

La morte nasce perché chi l’ha trovata era alla ricerca soprattutto di vita. Perché il poeta si è recato fisicamente sui luoghi del proprio desiderio, guardandosi attorno, sgranando gli occhi nel buio pesto della solitudine artistica, per evitare magari quei rimpianti che hanno tormentato altre vite e altri poeti che non si sono bruciati al contatto. Per scavalcare Montale, che proprio in quegli anni, gli anni della consacrazione mondiale col Nobel, dichiarava una sua amarezza personale per aver vissuto soltanto al cinque per cento. Invece Pasolini volle uscire allo scoperto e viversi.

Nel tempo ha costruito tutto se stesso; ora un’analisi critica dovrebbe imporsi dall’esterno e scandagliare quel corpo alla ricerca di qualcosa, una sorta di punto critico che possa servire da motore di ricerca. E questo punto c’è, presente nella sua produzione come in quella di ogni artista. Probabilmente mentre Pasolini giaceva moribondo sotto il peso della sua Alfa GT, che il ragazzo si ostinava con ferocia ossessiva a passargli addosso, gli deve essere passata davanti agli occhi tutta la propria esistenza. E lui vi ha cercato un appiglio. Ed è esattamente lì che, come in un buco nero piccolo e inodore, l’intero monumento che egli ha costruito a se stesso, attraverso la mise en poème della propria esistenza, ha trovato un baricentro perfetto che contemporaneamente lo manteneva in piedi e lo avviava, anche, ad una lenta ed inesorabile implosione.

Si tratta di pochi versi, una breve periodo, immagini strappate al corso di un film. In queste si esprime in una sublime perfezione l’intera vicenda artistica e umana di quell’esistenza. Quasi che uno scrittore non fosse altro che un meccanismo instabile, sempre sul punto di crollare sotto la pressione del proprio io ma che trova in quel punto il proprio perno d’equilibrio.

Cercare questo punto è quasi inutile. L’autore andrà avanti nella convinzione che qualsiasi cosa scriva sia quel punto. E la critica ne individuerà sempre più di uno, o forse nessuno.

Rimane comunque un'impresa inutile: è come cercare la verità, si sa che esiste ma dov’è?


Una coltre di primule. Pecore

controluce (metta, metta, Tonino,
il cinquanta, non abbia paura
che la luce sfondi - facciamo
questo carrello contro natura!)
L’erba fredda tiepida, gialla tenera,
vecchia nuova - sull’acqua Santa.
Pecore e pastore, un pezzo
di Masaccio (provi col settantacinque,
e carrello fino al primo piano).
Primavera medioevale. Un santo eretico
(chiamato bestemmia, dai compari.
Sarà un magnaccia, al solito. Chiedere
al dolente Leonetti consulenza
su prostituzione Medioevo).
Poi visione. La passione popolare
(una infinita carrellata con Maria
che avanza, chiedendo in umbro
del figlio, cantando in umbro l’agonia).
La primavera porta una coltre
di erba dura tenerella, di primule...
e l’atonia dei sensi mira alla libidine.
Dopo la visione (gozzoviglie
mortuarie, empie - di puttane),
una "preghiera" negli ardenti prati.
Puttane, magnaccia, ladri, contadini
con le mani congiunte sotto la faccia
(tutto con il cinquanta controluce)
Girerò i più assolati Appennini.
Quando gli Anni Sessanta
saranno perduti come il Mille,
e, il mio, sarà uno scheletro
senza più neanche nostalgia per il mondo,
cosa conterà la mia "vita privata",
miseri scheletri senza vita
né privata né pubblica, ricattatori,
cosa conterà! Conteranno le mie tenerezze,
sarò io, dopo la morte, in primavera
a vincere la scommessa, nella furia
del mio amore per l’Acqua Santa del sole.
(23 aprile 1962)
[P.P. Pasolini, Poesie mondane, Poesia in forma di rosa, Garzanti 1964]

Accettata l’idea che sia comunque mistificatorio credere di aver individuato quel punto, in Pasolini come in qualsiasi altro artista, ritengo che non sia difficile scorgere all’interno di questa poesia, alcuni elementi che hanno caratterizzato il passato letterario e che continueranno ad essere presenti in tutta la futura opera pasoliniana; elementi che, banalmente, si possono definire la spina dorsale di quel monumento che è il proprio ego messo in versi e descritto per immagini.

Era il 1962, l’anno di Mamma Roma, suo secondo film, e Pasolini scrisse questa poesia, dimostrando quanto il cinema si fosse cristallizzato nella sua vita come forma stabile d’espressione.

Questi versi descrivono un viaggio (e il cinema, come disse Godard, è un viaggio fatto ad occhi chiusi). Lo descrivono attraverso lo sguardo di un obiettivo per macchina da presa, un cinquanta mm manovrato dal suo direttore della fotografia, Tonino Delli Colli - nome storico del cinema italiano - e proseguito poi a spasso per una campagna di pecore e primule. Così il mondo del cinema si bagna del contatto agreste e va in direzioni ambigue, contro la propria natura di macchina industriale, e seguita ancora più sconvolto e delirante verso gli scorci della pittura masaccesca: quegli scorci di luce e chiaroscuri, il Medioevo inteso come dimensione storica e dell’anima, dove tutte le passioni sono portate al loro massimo espandersi in un'altalena di Martirio e Scandalo.

E alla fine compare la Madonna, che parla in dialetto, e avanza inquadrata come la prostituta Mamma Roma che canta l’agonia del figlio. La Visione di questa scena risveglia i sensi e scopre l’intera gamma di sensazioni del poeta, spaziando fra momenti di pura religiosità cristiana e quegli inferni quotidiani che imbevono le radici delle sue esperienze.

In un unico quadro Maria dialoga con la luce e i pastori, le puttane, i ladri, il mondo della periferia romana e gli anni Sessanta, che ad un tratto vengono percepiti e catapultati verso il primo Millennio.

E su tutto, sulla nostalgia verso il mondo che può provare solo chi sa di esserne lontano - osservatore e narratore -, domina l’io che si autoelegge Santo, confrontandosi con i pubblici ricattatori, gli aspersori di moralità e banalità addosso ai quali Pasolini getta la loro maschera per incamminarsi sulla strada del Martirio.

Ecco cos’è quel punto: la possibilità sintetica di dire.

Mentre alla critica toccherà subito aggiungere che per comprendere Pasolini una poesia non può essere sufficiente, anche se necessaria. Così come vedere tutti i suoi film, leggere le altre raccolte poetiche, sfogliare le sue pagine di saggistica, di semiotica e filologia, e approdare alle rive della sua letteratura esistenzial-marxista.

È soprattutto necessario ricominciare da quella fine e da quella sua morte. Quando il 2 novembre del ‘75 viene trovato il suo cadavere sulla spiaggia di Ostia, gran parte della società borghese italiana tira un sospiro di sollievo. Quella società è un corpo che si è sbarazzato del virus, dell’uomo che per tanti anni ha affondato i propri sensi nelle coscienze irrigidite dell’uomo medio, fino a diventare un Cristo al contrario, qualcuno che si erge al di sopra della massa ma non per portare il solito bene, ma per spargere il male.

Pasolini disse: "...io per borghesi non intendo tanto una classe sociale quanto una vera e propria malattia..."
[P.P. Pasolini, rubrica "Il Caos" n. 32, 6 agosto 1968 - ora in I dialoghi, Editori Riuniti 1992].

Utilizzò tutti i mezzi a sua disposizione, dalla semplice rubrica giornalistica alle raccolte di versi, fino ai lungometraggi, arroccandosi su posizioni sempre più personali e guardando con profondo e solitario disprezzo la vita media degli uomini, percepiti come ‘altro da sé’. E continuando a percorrere imperterrito un'unica strada che lo ha portato ad essere ciò che la società arginava in definizioni comunque semplicistiche: originale, provocatorio. Ma che restavano definizioni affibbiate unicamente a corpi che si guardavano da lontano, una volta che sono stati espulsi dal proprio tessuto e isolati in un eterno sottovetro.

A ventitré anni da quella morte, Pasolini continua ad essere un artista e un intellettuale ancora attuale. Sia sul fronte letterario: sono del 1998, infatti, due polemiche che lo hanno visto involontariamente chiamato in causa. La prima lo ha visto contrapposto ad Italo Calvino, secondo un schematismo che li ha voluti divisi in due categorie divergenti: da una parte lo scrittore viscerale e dall’altra lo scrittore geometrico. La seconda polemica, come un’ondata che torna regolarmente a disturbare la tranquilla palude intellettuale, ha riproposto i suoi giudizi sul ‘68 e sui moti antiborghesi, su quella gioventù rivoluzionaria che lui condannò implacabilmente. Quella condanna nata nei fermenti di una solitudine intellettuale morale, fu ascritta da molti al suo continuo furore e alla sua instancabile voglia di essere sempre e comunque contro. In realtà non bisognerebbe dimenticare che Pasolini non fu mai un vero comunista, (i suoi rapporti col PCI furono sempre conflittuali, e si incrinarono definitivamente nel 1949 quando fu espulso dal partito per indegnità morale), così come la sua ideologia non fu di stampo anarchico, e del marxismo intese soprattutto la visuale filosofica. [Si veda la documentazione della sezione Ideologia di "Pagine corsare", n.d.r.]

Per intendere Pasolini non si può tralasciare il contrasto comunque insanabile che albergò in tutta la sua vita, e che egli, forse, non volle mai accettare fino in fondo: Pasolini era da un lato un intellettuale, che può esprimersi, in ogni sua presa di posizione, anche attraverso un uso negativo e distruttore della realtà. Ma dall’altro è un artista, e cioè una persona ha comunque bisogno di punti di riferimento formali per potersi esprimere, e quindi di affermazioni, costruzioni.

E non andrebbe neanche tralasciato, soprattutto in uno scrittore che ha un rapporto così fisico col mondo e i suoi abitanti, il clima di violenza morale a cui fu sottoposto. I processi, ma soprattutto le critiche generaliste rivolte alle sue opere, (quelle di Asor Rosa ad esempio, che tacciò Pasolini di populismo, riscontrando nei suoi romanzi e nei suoi film l’incapacità di mantenersi ad un livello mentale realmente progressista e illuminato) gli sembrarono sempre una terribile ingiustizia.

Pasolini d’altronde non era assolutamente perfetto. Viveva i suoi rancori, i suoi sensi di colpi, la propria omosessualità esibita come marchio e illuminazione, le sue contraddizioni... Ma poi rinnegava tutto questo in nome della possibilità di esprimere.

Tale lacerazione, mai accettata, è alla base di quella che possiamo definire la natura utopistica di Pasolini. In fondo egli era soprattutto uno che sognava un tempo ‘bucolico’ impossibile da recuperare. E questo sogno, nato come sussurro nei primi versi dialettali della sua Casarsa, si amplificò da solo, nel tempo, cercò ovunque, divenne la sua forza e la sua debolezza. Durante la sua vita, durante l’escalation di gesti e pensieri che egli intese come semplice dimostrazione di sé e della propria ‘disperata vitalità’, Pasolini amplificò quell’urgenza di contatto con la propria natura primitiva arricchendola di strati - la visione ideologica e politica delle cose, le forme cercate e provate, il suo moralismo gridato dalle colonne dei giornali. E lo fece in un eterno gioco di contraddizioni, cercando di non soffocarla mai.

Ma il risultato fu quello di essere un uomo perseguitato, a cui fu negato ciò che soprattutto egli chiedeva, di poter essere semplicemente se stesso, anche se diverso.

Scrisse: "...la mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza..."
[P.P. Pasolini, rubrica "Il Caos" n. 2, 11 gennaio 1969 - ora in I dialoghi, Editori Riuniti, 1992].

Così la morte divenne un suggello suggestivo per entrambi: per la borghesia che avrebbe continuato la propria rituale moltiplicazione di generazione in generazione, e per il figlio cattivo che si consegnava a quella forma di approdo - che è la morte -, che egli da sempre e in tutti i modi ha desiderato, anche quando ad essa dava il nome di madre, di rosa o della vita.

Oggi il mondo lo ricorda da più parti allo stesso modo, i suoi antichi nemici e detrattori, e i pochi amici ed estimatori, tutti uniti dallo stesso coro di sospiri che ne lamentano l’assenza, e intanto ammiccano, stringono i pugni perché nessuno più chiede dalle colonne del più grande quotidiano nazionale un pubblico processo a tutta la classe politica e dirigente. Oggi il mondo è quell’omologazione che Pasolini denunciava.

Non è un caso che proprio le immagini di quella morte, le foto scattate al corpo massacrato e riportate dalla maggioranza dei quotidiani e delle riviste italiane, furono, secondo molti, lo spartiacque che segnò l’ingresso della civiltà in una nuova era, quella dell’immediatezza e della spettacolarizzazione delle immagini. Un altro modo per evadere dal passato, dunque, e per confluire in un’era di apocalittica fusione.

E a Pasolini toccò anche questo compito. [Su questo argomento sono stati molti gli interventi: dai saggi del prof. Abruzzese che si è occupato del valore traumatizzante delle immagini ne L’immaginario collettivo, Einaudi 1989, all’articolo di Golini apparso su "L’Espresso"" n. 42 del 1995, intitolato: Pasolini. Che cosa vive ancora?].

È in questo contesto fortemente comunicativo e contemporaneamente predestinato che nasce il Pasolini regista. Il cinema diviene la forma espressiva che meglio riesce a cogliere quelli che sono i suoi spunti formali e concettuali, e creare quella simbiosi tra le due anime che lo agitano nel profondo.

È il periodo in cui la contaminazione fra le forme dell’impegno civile e la simbiosi istintiva con gli scenari naturali dell’esperienza quotidiana condurrà a risultati ambigui ma spesso straordinariamente suggestivi
[Andrea Miconi, Pier Paolo Pasolini - La poesia, Il corpo, Il linguaggio, ed. Costa & Nolan 1998].

Ma perché questo accada, il suo cinema ha bisogno, ad esempio, di un violento mutamento rispetto a quello precedente, e a certo cinema dei "padri". Questo mutamento avviene nel momento in cui Pasolini non crea barriere fra i vari sé di cui è composto, fra il Pasolini narratore, il Pasolini poeta e il Pasolini regista; ma, al contrario, cerca una sintesi fra poesia e cinema, fra linguaggio poetico e cinematografico.

Dal 1961, anno del suo primo film, al 1975 anno della sua morte, le pagine migliori della sua produzione restano quelli scritte con inchiostro su tessuto di celluloide, e quelle scritte con dissolvenze e montaggi in asse, sulla carta del libro.

Pasolini conierà il termine cinema di poesia [in P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti 1972, n.d.r.]. È una definizione molto complessa. Ha cercato un’osmosi fra cinema e poesia, scavalcando il livello elementare delle complementarità più evidenti per tentare la ri-fondazione di un nuovo linguaggio. È riuscito a trovare nel cinema, nel suo cinema, quella quasi perfetta sintesi di sperimentazioni linguistiche, adesioni alla tradizione, travasi dalla vere radici della sua cultura - che era di impianto principalmente figurativo e religioso - rimestandole nel grande pentolone delle immagini e della recitazione.

Ciò che altrove (nei romanzi, nella saggistica, nei versi giovanili) appare quasi parziale nella realizzazione espressiva trova, da quel momento in poi, una sua più stabile forza di comunicazione.

La stessa energia investe il suo mondo poetico, che deviando dal percorso iniziale, quello diaristico dei primi anni (1942-1960), approda a una scrittura di sperimentazione e di maggiore compattezza. Dove la compattezza non è una qualità letteraria ma è alla base della scrittura; è la premessa della qualità.

È chiaramente impossibile riuscire a delineare, in un'opera come questa, un a tutto tondo che permetta una comprensione reale di Pasolini e della sua ‘infinitudine’. La sua fluvialità e il suo essere ancor oggi un unicuum nel panorama intellettuale italiano del secondo Novecento rendono impossibile questo tipo di approccio totale - tale da riuscire a proiettare una luce completa e minuziosa su ogni aspetto della sua personalità artistica e umana.

La critica si è sempre mossa su orizzonti precisi nell’indagare la figura di Pasolini, preferendo privilegiare zone ristrette di azione, per poi cercare, magari, gli agganci che queste zone mantengono con il resto della struttura poetica dell’uomo. Ma consapevoli di questo limite. Opere complete non ve ne sono, e laddove tradiscono nel titolo questa intenzione, risultano essere alla fine abbastanza frammentarie.

D’altronde è sterminata la bibliografia su Pasolini. E sono divergenti anche gli spunti critici che su una stessa prospettiva hanno proposto quanti si sono avvicinati al mondo pasoliniano. Così, capita che nell’esame del suo cinema, ci si imbatta sovente in divergenze critiche, dovute alla natura fluviale del tessuto poetico che le caratterizza. Come si vedrà in seguito, il cinema di Pasolini è un cinema costruito a strati sovrapposti. Può capitare ad un certo punto di imbattersi nel termine borghesia, e allora si avrebbe la tentazione di deviare dal percorso iniziale, abbandonare la ricerca che si sta conducendo sul corpus filmico dell’autore, per rintracciare tutti quei fili sottilissimi e violenti che legavano i suoi pensieri a questo universo decadente e contemporaneo che fu la sua vera spina nel cranio; scoprendo poi l’intero universo che si nascondeva sotto gli strati superficiali del film in esame.

Egli sapeva di essere scandaloso; ma ignorava il pericolo mortale che correva scandalizzando una classe come la borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo
[AA. VV., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti 1971, pagina introduttiva redatta da A. Moravia].

Basterebbe questo semplice spunto per allungarsi in centinaia di pagine alla ricerca, innanzitutto filologica, del termine borghesia (e la filologia era una grande passione pasoliniana), e da lì descriverne l’evoluzione nel corso dei secoli, le differenze concettuali che l’hanno marchiata, l’evoluzione dei suoi rapporti col mondo intellettuale e artistico, con il passaggio da una forma di sodalizio mecenatico a una visione contemporanea soffocante, dove il culto del prodotto ha declassato il ruolo dell’Arte nel mondo. E da qui giustificare in Pasolini il suo odio, totalmente ricambiato peraltro, come dimostrano gli innumerevoli processi e attacchi che egli subì. Poi si potrebbe cercare il filo rosso che unisce Pasolini a tutti quei suoi predecessori che hanno avuto rapporti conflittuali con la Storia e con le Istituzioni che la storia si ingegna a costruire; partendo proprio da quelli che lui ha spesso citato come esempi della sua vita: Rimbaud, Oscar Wilde, Dino Campana; i grandi furiosi del passato: Ariosto, Caravaggio, Villon... E nonostante questo non si riuscirebbe ad esaurire questo capitolo, peraltro marginale nell’intera vicenda pasoliniana.

Ancora più difficile risulta riuscire a districarsi tra le innumerevoli formule e teorie critiche che hanno scandagliato l’opera di Pasolini. Se si pensa che il suo primo film, Accattone, è stato giudicato contemporaneamente, in quegli anni, secondo due prospettive completamente differenti. Da una parte, una certa critica l’ha ritenuto un frutto della tarda stagione neorealista. Da un’altra parte, altra critica ha voluto soprattutto metterne in luce gli aspetti innovativi, ad esempio l’aver assegnato ad un proletario, figlio della borgata umile e degradata di Roma, barlumi della coscienza poetica del suo Autore. E dunque mettendo in evidenza quello che sarebbe stato il motore principale della sua scoperta stilistica: la fusione fra Sguardo dell’autore e Sguardo del personaggio.

In Pasolini c’è l’intrecciarsi di una molteplicità e di una vastità - sentita dallo stesso come necessità nel suo rapporto col mondo -, che è anche lo specchio dei mutamenti dell’Italia e del mondo occidentale in generale, nel corso dei decenni che si sono succeduti alla II guerra mondiale. Le ansie economiche, i nuovi scenari metropolitani, i topoi della cultura classica che si scontra con le panoramiche e le esigenze esplorative del nuovo, sono riflesse dal volto invecchiato di Pasolini che sembra portare sulla propria pelle i segni della crescita del mondo, e la sua contemporanea negazione.

Ecco perché la scelta di uno studio che perimetra solo una certa zona della vita pasoliniana: per evitare di cadere in quel groviglio che è stata l’esistenza di Pasolini.

Questa tesi è uno studio sul cinema e sulla poesia di Pasolini, nel momento in cui questo cinema e questa poesia non scorrono più solo su strade parallele ma anche convergenti. Vuole dimostrare in che modo i due orizzonti, poetico e cinematografico, risultino essere i suoi più congeniali, perché legati alla stessa radice

1) descrizione ‘fotografica’ della realtà, con ampio riferimento alla sua cultura pittorica (nuovo neorealismo)
2) descrizione filologica con ampio risalto al suo studio della ‘langue’
3) cultura e problema religioso - immagini blasfeme - sentimento di Sé
4) sentimento della vita e dell’uomo - la realtà.

E questi punti diventano anche, alla luce di quella che è stata la vita di Pasolini, vita estremamente contrabbandata in e dal pubblico, uno sguardo su tutta la sua figura. Uno sguardo sui due aspetti, intellettuale e umano, che hanno sempre camminato di pari passo.

La sua ansia religiosa - studio dei Testi; reinterpretazione dei Testi in chiave marxista - il popolo sentito, in quanto umile, puro e pertanto religiosamente vissuto. La sua omosessualità è condizione di scandalo per gli altri perché crea diversità - almeno quanto diverso era Gesù in mezzo ai suoi contemporanei. Dunque la sua vita ha lo stesso destino - scandalo e martirio - la sua arte è la sua forza creatrice.

Egli percepisce se stesso alla stregua di un santo, e allo stesso modo di questi diffonde una voce - non si arrende alla forza del proprio nichilismo e preferisce combatterlo con il Logos, con il senso di una voce densa e colta che deve affrontare tutto e tutti, la storia e l’umanità. Egli - che è di cultura decadente - non arriva al silenzio, o meglio ci arriva a suo modo, perché è il primo a rendersi conto della propria sconfitta - ma è un percorso fatto a denti stretti, quasi bestemmiando, è la sua voce fluviale e ininterrotta, trascinata sui quotidiani, nelle interviste televisive, nei processi subiti per tutta la vita, nelle opere che sembrano non bastargli mai e spaziano dal teatro alla letteratura in prosa e in versi, al cinema, alla saggistica e all’erudizione pura: questa voce è la sua forma di silenzio.

Cioè Pasolini non è differente da quegli altri decadenti che, compresa la vita, contro di essa hanno innalzato un muro. Dostoevskij cercando la fede, Sartre rinnegandola, il suo amico Moravia tuffandosi nell’eros borghese, qualcuno suicidandosi, altri impazzendo.

Pasolini nutriva l’ambizione di percorrere tutte queste strade. Non ci è riuscito, non fino in fondo. Questo tentato viaggio è testimoniato perfettamente dal suo cinema di poesia. La sua ansia di vita era la sua disperata vitalità.

È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo in vita, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita... è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi... e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro stabile e certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile... Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci
[P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti 1972].

Capitolo II – Tra cinema e poesia

A) Poesia


Bisogna partire sempre e comunque dal poeta. Non è un caso che alla sua morte, lo scrittore Alberto Moravia, uno dei suoi migliori amici, in un breve messaggio improvvisato sul luogo della tragedia disse: 
"Abbiamo perso soprattutto un poeta e di poeti non ce ne sono molti nel mondo, ne nascono tre o quattro in un secolo". 
La poesia era per Pasolini un tramite col mondo. Era una risposta da coltivare, nel corso del suo tempo, a quanto gli si opponeva e gli sbarrava lo sguardo. E così anche rispondendo dalle pagine dei vari quotidiani ai quali spesso collaborava, gli capitò di farlo attraverso un uso lucido della poesia, con quella sola lucidità permessa della poesia: la disperazione. Comporre versi per comunicare una propria idea o un proprio pensiero utilizzando il metro di una scansione emotivo-razionale accumulata in strati di grande ferocia e odio. E l’esempio famoso, in tal senso, è la poesia da lui composta in occasione degli scontri fra polizia e studenti nel ‘68 a Valle Giulia. Ecco! in un momento storico estremamente vivo e polemico, Pasolini alza la propria voce e si fa interprete unicamente del proprio pensiero, senza cercare il facile appiglio di uno schematismo ideologico che in quegli anni vedeva gli studenti nel ruolo principale di vittime e dall’altra parte la polizia - e lo stato come simbolo del potere tout court - in quello contrario di oppressore. Anche in quell’occasione, il Pasolini cantore del proletariato, stupendo forse quanti da lui si aspettavano un atteggiamento diverso, esprime il proprio giudizio di condanna nei confronti degli studenti e lo fa con una celebre poesia, Il PCI ai giovani!! 
E risulta comunque singolare questa sua scelta di comunicare in versi. La poesia è da sempre un’arte elitaria, strumento per pochi, forma d’espressione più che di comunicazione. Invece Pasolini la vive esistenzialmente, la vive come suono del proprio io e quindi sostituisce quel suono alla propria voce. Lascia che sia la poesia a parlare per lui. 
Su Teorema, presentato in quel tumultuoso '68 alla mostra del cinema di Venezia, lo stesso Pasolini disse: 
Teorema è una poesia in forma di grido di disperazione... [Ivo Barnabò Micheli, Pier Paolo Pasolini - A futura memoria, film 1987] 
Ancora questa parola, con tutto quello che una semplice parola applicata al proprio sistema può esprimere. Ancora il credere che scrivere poesia significa sperare, sperare di poter dire tutto, molto di più di quanto si possa fare attraverso il cinema o la prosa. E questa era forse, inconsciamente, una vera e propria sfida: Perché se cinema e prosa hanno da sempre una specificità comunicativa, parte essenziale del loro patrimonio genetico, che li porta verso l’esterno con un immediatezza estremamente più diretta, e con una capacità penetrativa nell’immaginario collettivo che li assesta ad un livello più superficiale, la poesia, al contrario, emerge sempre da un rigurgito interiore estremamente irrazionale, da un momento di crisi, e si sviluppa proprio come tramite fra l’Io e questa crisi; è la sublimazione di questa crisi in immagini che riescono ad essere universali e comunicative solo se accettate in uno strato del proprio io più profondo.
Il poeta, e per estensione l’uomo-costruttore, è un essere in perpetua crisi espressiva. La poesia sorgendo quindi da uno stato di tensione esistenziale e ideale, assorbe i contenuti, e finisce sempre per identificarsi con la crisi del linguaggio. Si giunge così a quell’affanno vitale, ove l’imprevisto della ricerca sconvolge ogni ragionamento 
[Arthur Rimbaud, Opere, Gian Piero Bona a cura di, Einaudi 1990: Era il 1939. Pasolini frequentava il secondo anno al liceo Galvani di Bologna, e un suo professore, Antonio Rinaldi, lesse in classe alcuni versi da Le Bateau Ivre di Rimbaud. Per Pasolini fu una folgorazione. Cominciò ad introdursi nel mondo della poesia e di lì a poco avrebbe scritto le sue prime liriche in dialetto friulano. E spesso, durante il corso della sua vita, Pasolini paragonò la propria vicenda esistenziale con quella del poeta francese. Soprattutto per quello che riguarda il proprio desiderio di libertà nel contesto della società borghese].
Questo è stato detto a proposito di Rimbaud - un poeta che ha iniziato al mondo dell’arte (e all’arte del mondo) Pasolini. Questo vale per Rimbaud, vale per Pasolini, e per qualunque poeta. 
Pasolini negli anni del suo debutto cinematografico è all’interno di una rivoluzione violenta. Fuori, il mondo contadino e proletario si arrende di fronte all’avanzata del nuovo, dell’economicamente utile. Gli studenti scendono in piazza e gridano, inscenando la nuova rivoluzione. Per Pasolini fare un film significherà quasi sempre andare incontro ad un processo (e questo è un altro capitolo a sé dell’universo pasoliniano: la quantità di processi da lui subiti è esemplificativa del suo rapporto di scontro con la realtà, ma anche della sua ossessione di essere icasticamente accettato come un martire della nuova civiltà occidentale, al pari di San Paolo per esempio). Gli attacchi gli giungono da ogni parte. È qualcosa che tenta di castrare la sua voce, allora la sua voce si moltiplica. I versi proliferano, succedono le immagini, la prosa, il teatro... eppure è lo stesso Pasolini ad avvertire in tutto questo un senso di stanchezza: 
Vorrei esprimermi con gli esempi, gettare il mio corpo nella lotta. 
Forse l’arte davvero non basta più. Bisogna ogni volta inventare di più, scrivere un altro verso in risposta ad un'altra calunnia, o ad un semplice equivoco su qualche sua espressione. L’edificio da lui messo in piedi è troppo complesso perché possa essere interamente compreso. Chi comunica cerca soprattutto orecchie a cui far giungere la propria voce. E la sua verve polemica non gli consentiva di sorvolare sulle sviste e sulle incomprensione. Pasolini si era chiuso in un angolo. Probabilmente da sempre, da quando ragazzino scrisse i primi versi in friulano. Ma il tempo gli ha portato lentamente più occhi da guardare, più nemici da controllare, e meno speranza da opporre a chi lo stringeva in quell’angolo. E fu lui stesso ad avvertire questa sua visione apocalittica della realtà. 
Siamo alla fine degli anni '50: 
La morte non è nel non poter comunicare - disse - ma nel non poter più essere compresi... 
Pasolini ha bisogno di qualcos’altro. Quello che gli serve non è cambiare la tecnica letteraria ma la lingua. Un'altra lingua, in fondo, è solo un’altra forma di protesta. Nasce il poeta-regista. 
Se fosse possibile definire la natura di Pasolini, probabilmente bisognerebbe ricorrere ad un termine come sinfonica. Era cioè, la sua, una natura in cui si incontravano una molteplicità di voci e di interessi, che nell’ansia di verità da lui sempre cercata, finivano per creare più contraddizione che risoluzione. Avevano come esito una mancata unità, un proliferare della scissione. E questo senso di dispersione era avvertito dallo stesso Pasolini, che finì per indentificarvi la propria radice esistenziale. 
E quindi ne scrisse. In versi per esempio:
... lo scandalo del contraddirmi, dell’essere/ con te e contro te; con te nel cuore,/ in luce, con te nelle buie viscere... 
[P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in Bestemmia, Garzanti 1995] 
Eppure tutto questo non basta: la contraddizione è un essere pericoloso che risale le sorgenti del proprio divenire per cercarne la fonte o il meccanismo primo. E invece vi trova l’impossibilità. Allora comincia a gridare e nell’ascolto del proprio grido percepisce il desiderio di un grido maggiore, più forte e rauco e traumatico del precedente; e anche più consolatorio, che dia pace. Ma non accade. 
Pasolini era sicuramente al corrente di questa impossibilità, ma come è stato notato da qualcuno, non spinse fino in fondo il pedale della propria follia per precipitarci dentro. Si accontentò di vivere la propria schizofrenia, diviso in due fra un'immagine di intellettuale scandaloso e pubblico, che è dentro le cose perché le guarda e le descrive. E l’uomo privato, sempre sul punto di venir fuori in maniera prepotente e invece, paradossalmente, ogni volta rimandato indietro da quell’opera in più che, l’intellettuale, nel frattempo imbastiva. È questo il vero nucleo della contraddizione pasoliniana. Che lui cercava nella quantità di opere una possibilità totale di espressione, e invece in quella quantità trovava il limite ultimo.
La cosa più importante che Pasolini avrebbe potuto dare ai suoi contemporanei sarebbe stata il suo diario. Esprimere la realtà dei suoi traumi psichici, esprimere il dramma del suo impatto con la vita, mostrare cosa vedeva questo agnello francescano nel popolo astorico, feroce e innocente. Esprimerlo dal di dentro, con i particolari: questa sarebbe stata tridimensionalità, che avrebbe fatto vivere quella materia piatta che sono i ragazzi di vita nei suoi romanzi. Ne sarebbero stati coinvolti tutti, perché è un dramma di tutti. Sarebbe stata una buona occasione per l’intellettuale italiano di recidere la barriera artificiosa tra esistenzialità e impegno, tra soggettività e oggettività. Per mescolarsi nella vita, ma direttamente, portandosi dietro tutto se stesso, non facendo finta di non esserci. 
[AA.VV., Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Kaos-Gammalibri, Milano 1976. Già apparso sul n. 7 della rivista letteraria "Salvo imprevisti".] 
Quando arriva al cinema, Pasolini scopre una nuova possibilità: la sintesi. L’immagine diviene il medium espressivo che meglio riesce ad arginare la sua forte dispersività, fino a raggiungere uno stadio di maggiore compattezza, dove si unificano e livellano i diversi piani su cui di solito lavora. Era ciò che cercava. La sua polemica con la realtà trovava un nuovo fronte d’attacco. Ed era probabilmente anche quello che davvero gli serviva. 
La dispersione che lo costringeva a scrivere versi su versi, ad iniziare romanzi che non portava a termine (le prime redazione di Atti impuri e Amado mio furono lasciati inediti e pubblicati solo dopo la sua morte, nel 1982), a cimentarsi nella tragedia in versi, si arresta di fronte alla nuova lingua. Le immagini diventano un contenitore dove le sue contraddizioni continue, le sue ansie ‘mistiche’ e popolari, i suoi bisogni ‘intellettuali’ e le sue urgenze sessuali, riescono ad amalgamarsi in una fusione quasi stabile. 
Tutto questo non cancella quanto detto prima, a proposito di quella fortissima contraddizione del proprio percepirsi, ma sicuramente nella nuovo langue che egli impara a coniare, una sintesi violenta di cinema e poesia, Pasolini fa grandi passi in avanti. 
Quello che era l’espandersi e il dilagare, caratteristico della sua poesia - non a caso la predilezione di Pasolini è per poesie lunghe, quasi dei poemetti - nel cinema scompare progressivamente. (E anche il suo ultimo romanzo - Petrolio, incompiuto, porta i segni di questa trasformazione. È un romanzo visivo, scritto per immagini, organizzato per microcapitoli. Come una sceneggiatura.) 
Nel 1957 Pasolini pubblica Le ceneri di Gramsci. Mancano pochi anni al suo primo film, nonostante già lavori da tempo come sceneggiatore. In questa raccolta poetica predomina la forma del diario in versi. Pasolini imbastisce dei poemetti fatti per metabolizzare la realtà e descrivere situazioni anomale nel panorama della poesia. La sua poesia diventa sempre più prosa in versi e si allunga in descrizioni di descrizioni. Se si pensa che l’Italia poetica d’inizio secolo era quella di Montale e di Ungaretti, scrittori che cercavano nella singola parola la possibilità di dire tutto e di esprimersi, si comprende quale sia l’ulteriore stacco fra Pasolini e il resto. 
E in effetti la contemporaneità gli andava stretta, perché le sue radici sono nel mito classico-pagano della natura greca. È lì che Pasolini si cerca. Mentre il Novecento è: da una parte Montale con le sue atmosfere ermetiche, dall’altra Ungaretti all’insegna dei due versi. Così pure Saba. E gli anni '60 che vedono il formarsi del gruppo ‘63, propugnatori dell’avanguardia stilistica.
Nel 1961 Pasolini scrive La Persecuzione [P.P. Pasolini, La persecuzione, Poesia in forma di rosa, ed. Garzanti 1964] prendendo spunto da un semplice avvenimento quotidiano, la descrizione di un pomeriggio passato in un bar di periferia, si dilunga per otto pagine e 64 terzine, nel tentativo di creare un affresco aperto che fagociti tutto il possibile reale. Si immerge nelle atmosfere della sera romana, densa di voci volti e persone, in una luce crepuscolare che lentamente scende sul mondo, e apre un discorso con la propria esistenza. Discorso aperto, tendenzialmente infinito. Quindi incompleto. E contraddittorio. In fondo è un leit motiv che si ripete. Le solite ansie di Pasolini: il mondo che si trasforma, la perdita dell’innocenza, il senso di esclusività - per cui egli è da solo a percepire questa catastrofe e da solo la porta con sé quando risale in macchina e si allontana per le strade della sua Roma, pomeriggio di ferragosto... 
Ecco che la poesia, in questo senso, non placa Pasolini. Gioca con lui in questo cerchio infinito, dove sembra possibile sempre aggiungere un’altra parola, e poi un’altra, e un’altra ancora, per ritrovarsi magari al punto di partenza. 
Invece è nel cinema che Pasolini perverrà ad una prima e importante novità. Il cinema di Pasolini riesce ad essere sintetico. Assieme a questa c’è una seconda novità, anch’essa importante se si considera l’iter da isolato che lo contraddistingue in qualsiasi campo in cui opera. Pasolini è un regista ‘contemporaneo’ nella misura in cui accetta e prosegue una certa tradizione cinematografica. 
Alla maggior parte della critica del tempo, il suo primo film, Accattone.(1961), è sembrato un tardo prodotto neorealista. Un frutto di quella che è considerata la più prolifica e importante stagione del cinema italiano. E in effetti la descrizione realistica degli ambienti e dei personaggi è figlia del neorealismo. Lo sguardo della macchina da presa aderisce al punto di vista della storia, vaga per le strade, si serve di attori presi da quelle strade, parla nel loro dialetto e conosce quel tipo di miseria. 
Ma già in questo suo primo film, come nella figura del protagonista, sono presenti quegli elementi che diventeranno sempre più evidenti nel corso del suo lavoro: la necessità di elaborare una propria idea di cinema, di utilizzare il patrimonio di regole e stili fin qui messi in atto, per arrivare ad una visione più personale ed espressivamente efficace. È questo il clima intellettuale in cui nasce la sua idea di cinema. Allora non è esagerato, da questo punto di vista, dire che Pasolini ha operato sul film, allo stesso modo dei grandi teorici del passato: Eisenstein, Pudovkin o Dovzenko. Si è servito di tutto il patrimonio che aveva a disposizione e su di esso ha costruito le proprie nuove regole. 
Se poi la fortuna di un autore si misura anche nella capacità che ha, volontariamente o involontariamente, di creare una sorta di scuola alla quale partecipano adepti al culto stilistico del "maestro", bisogna dire che proprio in questi anni il cinema di poesia pasoliniano è ritornato in auge. È accaduto esattamente in Danimarca, dove alcuni registi, su tutti Lars Von Trier e Thomas Vittenberg, nel 1995 si sono riuniti e hanno deciso di proclamare un manifesto estetico comune chiamato 'Dogme 95". Tale manifesto è composto da alcune semplici regole che ricalcano quasi alla lettera le impostazioni che Pasolini utilizzò nella stesura del suo manifesto cinematografico. È curioso che questo avvenga proprio con un autore come Pasolini: innanzitutto perché egli fu un regista spurio; proveniva dall’ambiente letterario e si avvicinò solo più tardi al cinema (aveva 39 anni all’uscita del suo primo film). Lavorò da letterato anche sul cinema, stilando teorie critiche e regole di inquadratura. Era, insomma, un autore estremamente particolare. 
Eppure basta accostare i due manifesti per scoprire quante similitudini ci siano.

Dogme 95 
- Le riprese dovranno aver luogo in esterni. Scenografie ed accessori non possono essere aggiunti. 
- Il sonoro non deve mai essere prodotto separatamente dalle immagini e viceversa. 
- La macchina da presa dev’essere tenuta a spalla. Ogni movimento o immobilità fattibile a spalla è concessa.

Queste sono le prime tre regole stilate dai cineasti danesi. A pag. 185 di Empirismo eretico, il testo in cui ha raccolto sistematicamente le sue idee sul cinema, Pasolini dice qualcosa di assai simile:
... i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di macchina a mano... le immobilità interminabili su una stessa immagine...

E poche righe più avanti Pasolini afferma che questo nuovo modo di fare cinema è già divenuto un patrimonio espressivo comune a parecchie cinematografie, sia europee che mondiali, con differenze che derivano dalle diverse condizioni socio-politico-culturali in cui viene elaborato. Pasolini conosceva il lavoro dei cineasti della Nouvelle Vague francese, il nuovo cinema cecoslovacco o brasiliano, sapeva che i registi di questi paesi lavoravano su un clima stilistico fatto di regole assai simili. E che la differenza stava nel contesto in cui i singoli registi operavano. 
Stesso discorso vale dunque anche per i contemporanei del 'Dogma'. Pasolini, non ha creato seguaci - come si vedrà in seguito -, ma ha contribuito al rinnovamento lessicale della settima arte. 



Capitolo II – Tra cinema e poesia

B) Cinema



I film di Pasolini sono stati sommariamente racchiusi in alcune brevi categorie che la critica ha utilizzato per studiare le analogie e i rapporti che si rincorrono in ogni opera. 
La maggioranza dei critici tende a dividere il mondo filmico pasoliniano in tre sezioni:

nella prima sezione confluiscono i film compresi fra Accattone e il Vangelo. E sono i cosiddetti film del sacro. Uccellacci e uccellini è il momento di passaggio e di cesura dal cinema del sacro al cinema di poesia, che va da Edipo re a Porcile. Il cinema dei popoli lontani, terza sezione, va da Medea a Il fiore delle Mille e una notte. E infine, un film e una categoria a sé stante, il presente - come orrore e morte - costituito da Salò. 
[Questa suddivisione è stata adottata ad esempio da Adelio Ferrero, Il cinema di Pasolini, Marsilio 1994.] 
In realtà, come vedremo, queste categorie sono abbastanza permeabili e consentono passaggi continui. In effetti già Accattone, il suo primo film, è un esempio compiuto di cinema di poesia. E la prima sezione, oltreché contenere i film del sacro, può ugualmente esser denominata: della realtà 
In questa sezione confluiscono i film che vanno dal 1961 al 1966: Accattone, Mamma Roma, La ricotta, La rabbia, Comizi d’amore, Il Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccellini. Inoltre, in questo periodo Pasolini girò anche un documentario in Palestina dove avrebbe dovuto ambientare il film sul Vangelo. Il lavoro fu poi misconosciuto dall’autore che non gli dedicò molte attenzioni; quel suo viaggio nei luoghi sacri della tradizione cristiana fu assai deludente. Pasolini era ansioso di ritrovare quei volti e quei passaggi che avevano da sempre fertilizzato la sua fantasia religiosa e la sua idea di Visione. Ma l’Israele e la Giordania moderni non contraccambiarono le sue attese, anzi. Pasolini si convinse sempre di più che solo il Meridione italiano poteva essere ancora quella terra arcaica che stava cercando. Per queste ragioni, forse, il suo glissare su questo lavoro:

... il materiale non era neanche montato... non ho avuto tempo di scrivere neanche il commento, siamo andati nella saletta di doppiaggio e man mano che quel materiale mi passava davanti agli occhi, mi improvvisavo speaker. Ecco tutto quello che posso dire a proposito di questi Sopralluoghi in Palestina. 
[Oliver Stack, Pasolini on Pasolini, Thames and Hudson, London.] 
La seconda sezione comprende i film del biennio 1968-1970: La terra vista dalla luna, Edipo re, Che cosa sono le nuvole?, Teorema, La sequenza del fiore di carta,.Porcile e Medea. Anche in questo periodo Pasolini gira alcuni documentari: il primo in India e il secondo in Africa. Il primo, commissionatogli dalla Rai, doveva servire per un lungo film inchiesta sulla cultura religiosa e materialistica indiana. Ma il progetto non andò mai oltre, dal punto di vista filmico, a questo reportage. Ma la suggestione di quei luoghi fu talmente forte da stratificarsi permanentemente sia in lui che in Moravia e confluì qualche anno dopo in un libro [P.P. Pasolini, L’odore dell’India, Guanda 1990]. E anche il suo cinema futuro fu assai influenzato da quel viaggio, Pasolini cominciava ad interessarsi alle scenografie naturali dell’Oriente. Il secondo documentario era un prologo al progetto di un Orestiade africana. 
Sono questi i film della nuova formulazione linguistica, in cui l’autore raggiunse un’armonia formale molto più solida rispetto ai precedenti lavori. Sono i film a cavallo del '68, anno cruciale per la società borghese del secolo. E sono i film a cavallo di Teorema che, a mio avviso, rappresenta il momento centrale di tutta la sua carriera registica. E non tanto per quanto riguarda gli esiti estetici che sono sempre opinabili, ma soprattutto perché Teorema è uno specchio fedele di tutto il suo cinema. 
A cominciare dal titolo, in cui è espressa la necessità di formulare una teoria estetica da anteporre al lavoro sul set e di ricorrere ai meccanismi magici e alchemici della geometria. 
Il cinema di Pasolini è sempre stato un cinema estremamente geometrico, che non rinuncia mai alle sovrapposizione, alle simmetrie, agli schemi. Le immagini si rifanno alla grande Figurativa medioevale e rinascimentale. Ne studiano la prospettiva e il contorno cercando di riprodurli e reinterpretarli. Ed è inoltre, il suo, il cinema teorico per eccellenza: si appoggia ad uno studio preparatorio che le immagini dovrebbero sviluppare e sciogliere nelle soluzioni formali. 
Inoltre Teorema è il film del '68; fu presentato a quella famosa e turbolenta edizione del Festival di Venezia, in cui un gruppo di autori, e fra questi il Nostro, occupò una parte del palazzo per protestare contro il vetusto regolamento della Biennale, di stampo fascista, che privilegiava l’idea di concorso e quindi di premiazione, a quello più moderno e culturalmente soddisfacente di rassegna. Teorema è anche il film dell’ennesimo processo; forse neanche troppo diverso dai tanti altri che l’hanno visto salire sul banco degli imputati, ma che arriva al culmine della crisi personale di Pasolini, crisi umana e anche intellettuale. E qualcosa dentro di lui comincia a franare. Germogliano le abiure, si cancella la speranza. La sua anarchia si fa apocalittica, il suo rifiuto avvolge ogni aspetto della contemporaneità. La disperata vitalità sembra essere ormai solo disperazione. I film successivi, quelli degli ultimi cinque anni di vita, nascono da questo terreno. 
Pasolini si sentiva marchiato a fuoco dall’infamia di tutto un regime. Si sentì solo, abbandonato dagli intellettuali che avrebbe voluto solidali, abbandonato dall’opinione pubblica che anzi, in più occasioni lo tacciò di incoerenza perché alla fine egli aveva accettato di proiettare Teorema a quel Festival che aveva contestato. E tra l’altro da quel Festival era stato anche insignito del premio OCIC (il gran prix dell'Office Catholique international du cinema) e col nuovo capitolo del suo iter giudiziario. [Il film fu prima sequestrato per oscenità il 13 settembre 1968 e poi assolto per l’insussitenza del fatto il 23 novembre dello stesso anno.] 
Teorema è il film-centro, il film-summa, quello che riesce a presentarsi meglio di altri come sistemazione esaustiva delle sue intenzioni espressive. È un film citazionistico, intenso e al limite. Esprime quella trasversalità che caratterizzava da sempre le sue rappresentazioni: non è un caso che l’idea base del film abbia attraversato la mente di Pasolini in ogni forma: nasce come tragedia in versi, si sviluppa come romanzo, diventa un film. 
Il terzo gruppo di opere comprende quelle della cosiddetta Trilogia della Vita: Il Decameron,.I racconti di Canterbury,.Il fiore delle Mille e una notte. Un breve documentario intitolato Le mura di Sana’a, e il suo ultimo lungometraggio, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Sono i film degli ultimi cinque anni di vita. 
Dunque Accattone-Teorema-Salò, ideale spina dorsale del cinema pasoliniano. 
La storia di Pasolini regista comincia nel pieno rispetto della grande tradizione cinematografica italiana. Nonostante la sua immagine pubblica di corsaro, difficilmente si troverà un artista capace di adeguarsi alla storia, miscelando con tanto equilibrio antico e moderno, innestando su un tessuto formativo essenzialmente classico le spinte eversive della sua personalità. 
Siamo nel 1961, la stagione neorealista è finita da tempo, sono anni densissimi di esordi: basti pensare a registi come Antonioni, Olmi, Bellocchio, i fratelli Taviani, Ferreri, Fellini (che aveva cominciato qualche anno prima ma che da La dolce vita in poi trova la sua consacrazione definitiva). Ognuno di questi autori portò nel lavoro un bagaglio espressivo assai personale che preferiva riallacciarsi trasversalmente a tutto il cinema mondiale, anziché privilegiare una specificità nazionale e culturale. In qualche modo gli esordi del '60 portarono alla luce una generazione di cineasti che guardava a tutto il cinema, e non soltanto alla tradizione più prossima del proprio paese. 
Solo quando fu proiettato Accattone, alla mostra del cinema di Venezia di quell’anno, la maggioranza dei critici notò quanto quel film fosse diretta conseguenza della stagione neorealista. Parente prossimo di film come Germania anno zero di Rossellini, o La terra trema di Visconti, con i quale mantiene un rapporto di contiguità: una serie di elementi comuni, che vanno dall’uso di attori non professionisti presi dalla strada, all’abitudine di girare soprattutto in esterni sui veri luoghi dell’azione, all’utilizzo di una fotografia sgranata ed efficacemente realista, fanno sì che Accattone possa essere definito un tardo prodotto di quel periodo. Ma è chiaro che si tratta di un analisi puramente esteriore. Già nell’uso comune degli attori non professionisti emerge quella specificità dello sguardo poetico che differenzia Pasolini da tutti gli esempi sopra citati.

La ricerca dell'attore è la cosa che più mi prende perché in quel momento io verifico se le mie ipotesi sono state arbitrarie: cioè se ad una fisionomia che ho immaginato, corrisponde effettivamente il carattere che immagino debba avere. Quando ho bisogno di giovani attori, che siano scanzonati, furbi, smaliziati, ma ancora un po' incerti e un po' buffi, non cerco i giovani attori appena usciti dall'Accademia che rifacciano magari a stento il verso a quelli che invece vivono in una borgata di periferia e sono realmente cosi'! Più semplicemente vado appunto in una borgata romana e cerco dei ragazzi che interpreteranno, in un certo senso, se stessi. Quando invece ho bisogno di qualcuno che reciti una parte più complessa allora faccio ricorso all'attore professionista, ma riduco questa scelta sempre al minimo indispensabile. 
[G. Bachman e D. Gallo, Pasolini: ultima conversazione, intervista pubblicata su “Filmcritica” n. 256, Roma, agosto 1975.] 
E da qui comincia la vera rivoluzione stilistica di Pasolini; e cioè, innestando su un tessuto così bene ancorato al passato della nostra cinematografia un discorso pienamente personale, autoriale ed estremamente complesso. Il neorealismo è solo lo spunto di base per trascendere al di là di esso. Come in altre occasioni, la tradizione per Pasolini è più un punto di partenza che d’approdo. È un modello formativo piuttosto che uno sbocco. 
Accattone in realtà è un film tragedia, nel senso in cui veniva concepita la tragedia classica; nel modo in cui viene recuperato il teatro classico greco e da lì utilizzato per descrivere un viaggio di iniziazione verso la morte. 
Gli ambienti neorealisti ci raccontano non più il presente, la cronaca spietata della guerra e della ricostruzione, ma il passato. Quel passato eterno che è l’esistenza nuda e cruda, al di là delle categorie sociologiche o antropologiche che nei secoli l’hanno accerchiata.. L’esistenza come rapporto diretto col proprio destino, e dunque con la fine. E lo fanno sfruttando tutti gli stilemi della classicità greca. Il personaggio di Accattone diviene emblematicamente l’icona del destino, quell’idea di vita che attraversa gli avvenimenti quasi trainata a forza da un’invisibile e oscura malia. L’approdo di questo viaggio è la conclusione della vita. Tutto ciò che lo circonda è utilizzato da Pasolini come tentativo di dare dei segnali d’avvertimento al suo eroe, ma ad Accattone manca l’elemento sintetico dell’esperienza: la coscienza (ecco che su un intreccio greco-moderno si innesta una nuova traccia, il problema della coscienza della realtà. Un problema ideologico, dal momento che Pasolini ha sempre rivendicato la necessità marxista di ‘presa di coscienza’) 
Il destino di Accattone è segnato, ma poiché egli non ne può avere una coscienza lucida e perfetta – tale da permettergli un minimo scarto e una possibilità di correzione -, ecco che su di lui agiscono i segnali dell’inconscio. Accattone sogna il proprio funerale. Accattone sfida la morte gettandosi nel Tevere. E lo fa dando spettacolo a quanti accorrono sul luogo per osservarlo, poiché la vita è uno spettacolo che gli altri osservano. Poiché ci si rappresenta, costantemente. Una sorta di teatro nel teatro. Pasolini gioca con se stesso e con le proprie contraddizioni: cultura moderna, decadente ed ottocentesca, descrittiva ed egotica, all’interno della rappresentazione distesa e classica di stampo greco. 
Il tuffo per lui non è altro che un rito primitivo e propiziatorio, attraverso il quale avvicinarsi alla vita, poiché non sa che il suo destino ha intrecciato una corsa irresistibile verso la morte. Attorno a lui il gruppo di amici perennemente seduti al bar commenta le sue avventure, assolvendo alla funzione del coro nel teatro classico. 
E questo è un nuovo elemento di contiguità col presente che viene ribaltato nel momento stesso in cui viene presentato. Questi amici della borgata, seduti al caffè a perdere tempo e a spettegolare su tutto, sono figli del coro greco, ma potrebbero benissimo essere un’altra razza di vitelloni felliniani. Gente seduta, che parla, fantastica, sogna, organizza. E fa pochissimo. 
E d’altronde la storia registica di Pasolini si intreccia spesso in questi primi tempi con quella di Fellini. Fellini avrebbe dovuto essere il suo primo produttore, conosceva personalmente Pasolini che lo aveva aiutato nella stesura dei dialoghi in romanesco del suo film Le notti di Cabiria. Gli diede i mezzi per cominciare il suo primo lavoro, ma dopo appena una settima di girato e dopo aver visionato i giornalieri, decise che Pasolini non era in grado di fare un film e stracciò il contratto di produzione. Pasolini disperato si rivolse altrove e trovò il produttore Bini e il direttore della fotografia Tonino delli Colli che lo aiutarono nella realizzazione di Accattone. In seguito Pasolini si trovò spesso a competere in rassegne cinematografiche dove erano presenti anche opere felliniane. E lui soffrì sempre del fatto che la critica dedicasse molta più attenzione al collega. 
Per Pasolini quei film erano troppo leggeri. E ne La ricotta trova una definizione perfetta per decifrare il suo rapporto col collega. Un giornalista si avvicina ad Orson Welles per fargli delle domande. Welles nella pausa di lavorazione del suo film sta leggendo alcuni versi tratti Poesia in forma di Rosa. E quando il giornalista gli chiede cosa ne pensa di Fellini risponde, fingendo di pensarci: 

"Egli danza, sì egli danza..." 

Questo episodio aiuta a comprendere in qualche modo la marginalità in cui si trovò sempre ad operare Pasolini. Dal momento che egli, al contrario di tanti suoi colleghi, non agì mai sul presente. Ma solo sul passato (la sua cultura) e sul futuro (le sue intuizioni-visioni, le sue necessità). La stessa emarginazione divenne, però, anche la sua arma. Pasolini capì la necessità di trovare uno stile-guida attraverso il quale ‘giustificare’ il proprio lavoro. 
E non è un caso se molti dei registi di quegli anni siano riusciti a costruire, volenti o nolenti, una scuola, tanto che oggi si parla di film felliniani, godardiani, all’Antonioni, alla Ferreri, alla Truffaut ecc... mentre difficilmente si è utilizzato l’attributo di film pasoliniano, alla Pasolini. Proprio perché ci fu in quest’ultimo un utilizzo dello specifico filmico totalmente e completamente personale. E la formulazione che fece di questa sua teoria cinematografica ne è l’ulteriore conferma. 
Il cinema-poesia pasoliniano, come abbiamo già rilevato, presenta alcune analogie con certe teorie stilistiche che si andavano manifestando in quegli anni. Ma ha anche una sua specificità che lo rende difficilmente assimilabile all’esterno. Pasolini si servì del cinema utilizzandolo come fosse una punta d’iceberg, la parte visibile di un mondo invisibile, che era sotto e si agitava. Un mondo fatto di letteratura, teatro, filologia, studi critici, semiologia, storia dell’arte (indispensabili le lezioni di Roberto Longhi seguite a Bologna). Ecco perché la sua formulazione teorica finisce di essere per tutti nel momento stesso in cui viene applicata dal suo ideatore. Al massimo potrà creare dei parallelismi, ma mai una scuola. 
Ed è proprio tornando ad Accattone che si precisa meglio in che modo tutti questi elementi abbiano concorso a costruire il film neorealista e a-neorealista. Il discorso di Pasolini, che era partito dalla tradizione della cinematografia nostrana, è lentamente approdato alle rive della propria tradizione. L’inquadratura, che esteriormente poteva sembrare figlia di Rossellini e De Sica, ci si mostra ad uno studio più approfondito come figlia della pittura rinascimentale di Masaccio: gli elementi transitano davanti all’inquadratura come in una rappresentazione pittorica. 

Con Accattane e nei suoi film successivi egli scopre in maniera autonoma il potere iconico del cinema. E sembra quasi bloccarsi attonito su ogni volto, su ogni corpo, disgiungendoli dallo sviluppo del racconto 
[G.Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, Editori Riuniti 1982]. 
La macchina da presa assume il punto di vista del pittore quattrocentesco e ne riproduce la dinamica espressiva, il rapporto fra i personaggi e lo spazio. L’inquadratura è quasi sempre frontale, non racconta gli avvenimenti ma li rappresenta. L’occhio del pittore, influenzando il montaggio, non viene utilizzato per giustapporre le inquadrature secondo uno schema logico ma secondo uno schema espressivo. Alternanza di primi piani e campi lunghi, come se di volta in volta ci si allontanasse o avvicinasse dal ‘quadro’. La musica sacra contrappunta la miseria delle borgate. Con un ulteriore scarto il Pasolini trasversale retrocede oltre il neorealismo e approda alla lezione di Dreyer [Dreyer Carl Theodor, regista danese (1889-1968)]. Sequenze mute, dove il silenzio visualizza l’angoscia notturna di Accattone preda di un incubo. Come in un film del muto, un film delle vere origini. 
Già con Accattone nasce il cinema di poesia. 



TESI
“Pasolini: il cinema della poesia” Dott. Luigi Pingitore
a cura dell'Associazione Culturale “RHYMERS’ CLUB”

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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