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lunedì 24 giugno 2013

Pasolini, il cinema fino ai confini del Testo.Osservazioni sul metodo degli Appunti

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini, il cinema fino ai confini del Testo.
Osservazioni sul metodo degli Appunti


Il contesto incorniciante, come lo scalpello di uno scultore,
leviga i confini del discorso altrui e nella grezza empiria della vita discorsiva,
taglia un’immagine della lingua: esso fonde e unisce l’aspirazione interiore
della lingua raffigurata e le sue determinazioni oggettivate esterne.
La parola d’autore, che raffigura e incornicia il discorso altrui,
crea a tale discorso una prospettiva, distribuisce luci e ombre,
crea una situazione e tutte le condizioni per farlo risuonare e infine,
penetra in esso dall’interno, vi porta i propri accenti
e le proprie espressioni e gli crea lo sfondo dialogizzante.
(M. Batchin)
*****
...la mémoire cesse d’être une faculté intérieure à l’homme,
et c’est l’homme qui, au contraire, habite l’intérieur d’une vaste Mémoire,
(...) d’une multiplicité virtuelle dont nous ne sommes qu’un degré
determiné de distension et de contraction.
(P.P. Pelbart)
*****
Dal totale: le porte dell’India, la sede del parlamento, il convento di Rishikesh, le acque del Gange, al dettaglio: un corvo e un teschio di vacca, mani e piedi malati. Un montaggio serrato, dall’uno (il totale riportato dal campo lungo) al multiplo (il frammento mostrato in primo piano) per tornare ancora a quello ripartendo da questo, e avere così un insieme di totali punteggiato (per non dire forse dilaniato) da un complesso di multipli (e viceversa) in una dinamica di distensione-contrazione portata ogni volta a con- fondere i profili di quell’ unico moltiplicato con quelli del suo multiplo ri- unificato. Carattere diaframmatico di un dire poetico di lungo respiro intervallato da spasmi contrattili. Su questo sistema di spinte centripete e spinte centrifughe, attivato da un lato dall’estensione discorsiva della voce over dell’autore sui campi lunghi e dall’ altro dalle strategie di resistenza dei frammenti all’assemblamento indifferenziato nel logos, sembra fondarsi tutta la complessa archi- scrittura per immagini degli Appunti per i film “da farsi” di Pier Paolo Pasolini.

Sono immagini, queste del prologo di Appunti per un film sull’India, terzo capitolo(1) del più ampio progetto pasoliniano che avrebbe dovuto assumere il titolo complessivo di Appunti per un poema sul terzo mondo, separate da interstizi incolmabili: un “tra” inserito a margine fra un quadro e l’altro a interrompere il naturale concatenamento delle immagini starebbe a indicare la presenza di una spaziatura(2), la quale, stando a Deleuze, farebbe sì che ogni immagine strappandosi al vuoto, vi ricada. In altri termini, ci si sta riferendo qui ad una sostanziale autonomia di elementi non più suturabili, facenti parte di un’ ampia trama discorsiva destinata a sfilaccicarsi nel corso di un farsi (nel senso proprio di un autoprodursi) del film stesso.

La scelta di ricorrere a un tipo di montaggio inorganico(3) interverrebbe in questo senso a scardinare la logica consequenziale della classica presentazione di immagini, insinuando fra di esse un’atmosfera di mondo. Impedendo di fatto alle singole inquadrature di saldarsi in un unicum totalizzante, questo tipo di montaggio permetterebbe all’organo di riacquisire una sua indipendenza rispetto all’Organico complessivo. Qui Pasolini sembra praticare alla lettera, direttamente sul Corpo istituzionale dell’India, quella che Compagnon arriva a definire propriamente «un’ escissione, una mutilazione, un espianto»: il frammento isolato dal testo, non potrà allora che assumere davvero valore di «membro amputato; non ancora trapiantato, ma già organo espiantato e tenuto in serbo»(4) in attesa di altre configurazioni.

Mi piacerebbe pensare a questo proposito proprio a una sorta di «potenza del gesto» ri-attivata dal dispositivo cinematografico stesso che, ricondotto da Pasolini a una sua primitività (che non è mai nel suo caso ingenuità) essenziale, sarebbe in grado di effettuare dei prelievi come degli innesti sulla base di un terreno caldo, ancora perfettamente malleabile e brulicante di vita, riabilitando in questo modo una pratica originaria del testo la quale acquisterebbe valore di per sé, prescindendo da determinati processi di significazione(5). E «la pratica originaria del testo», Barthes e Compagnon a questo proposito concordano, è nella citazione intesa proprio «come gesto o avvenimento»(6). Vedremo allora come la continua pratica distensiva, dal carattere fortemente gestuale, effettuata attraverso le maglie di un certo tipo di racconto per immagini, dilatate da una serie di intervalli dalla forte risonanza epica(7), potrà in questo senso testimoniare di una specifica prassi discorsiva fondata sui vuoti da intendersi proprio come spazi irrisolti, interstizi tra le immagini e talvolta imputabili alle immagini stesse, abbandonate a una sorta di divenire in potenza. Bisognerebbe pensare a questo proposito a una sorta di potenziale immaginifico(8) fondato sull’ assenza (spesso come in questo caso di raccordi), o meglio, da sprigionarsi in assenza.

Assenza di trasparenza in immagini ricondotte alla loro immanente polisemia, sporche di un’enigmatica complessità. Ma anche assenza di un percorso di senso predefinito, assenza di bordi, assenza di confini. A questo servono i frammenti, o i volti ostinatamente esibiti nella loro individuale storicità e singolare bellezza, a sporcare la Storia di storie e a far slittare continuamente tutti quei limiti (della e nella rappresentazione) che si pensano soliti. È un lavorìo incessante, quello governato da una particolare dialettica riflessiva istituita tra il materiale e l’idea, e portato avanti dalla m.d.p., fino ai confini dell’opera (attraverso quello spazio dal perimetro inassegnabile perché con-fuso nella reversibilità dei profili di una virtualità e di un’attualità costantemente interscambiabili(9)) a operare sui bordi, proprio al confine tra cinema e vita. È proprio in questa riflessività della materia, l’idea precisa di poiesis dell’immagine pasoliniana, in quest’istanza imprescindibile di reversibilità istituita tra realtà e cinema: e la fecondità di tale scambio avviene proprio sul limite, «quel limite» che si incontrerebbe solo «mostrando la relazione tra un’attualità e una virtualità che possono continuamente scambiarsi di posto»(10).

Sarebbero allora queste relazioni più o meno celate, tra un’attualità del dato fenomenico e la sua virtualità di una messa in scena “da compiersi”, a tenere in vita l’organismo del film (vivo di una sua vita propria) influenzandone costantemente lo sviluppo. Uno sviluppo da intendersi qui, come osserva acutamente Marco Dinoi, esattamente nel senso fotografico del termine, «un fare emergere il negativo dell’immagine impressionata attraverso un procedimento»(11). Un procedimento che nel caso specifico dei film in Appunti sembra scandire le tappe proprie di una “verifica” da effettuarsi sulla base di prelievi direttamente estratti dal reale e portati in relazione a una data immagine mitica funzionante in questo senso da pre-testo finzionale: da quest’irrisolvibile dialettica istituita tra i due volti coincidenti del mito e del reale conviventi in una stessa immagine scaturirebbe quel dialogismo “creativo”.

Attraverso queste impressioni di montaggio inizia a prendere corpo quella che fin dall’incipit del primo film Appunti per un film sull’India, non può che apparire allora come l’esplicita dichiarazione poetica di un antilogos (e in un certo senso vedremo quest’episodio d’introduzione al film non avrebbe potuto essere più “programmatico”). Quello che l’autore sembra letteralmente voler portare in scena (si pensi in questo senso all’uso quasi “da quinte” svolto dagli edifici presentati in campo lungo ai due lati della strada, le porte dell’India) è lo spettacolo di un’inedita geografia testuale, inedita perchè da farsi. Inedita perchè resistente a qualsiasi tentativo di demarcazione e quindi di com-prensione solita. Ecco allora che ai simboli superficiali di una mappa (le immagini istituzionali dell’India, quelle religiose e quelle politiche come la bandiera della Repubblica indiana) che pare aver cancellato e dimenticato la realtà fenomenica del suo territorio vivente (la struggente concretezza nel presente dei segni incancellabili di un passato di povertà e malattia), i frammenti sembrano opporsi in tutta la loro irriducibilità semantica, rifuggendo da ogni sorta di facile rappresentazione, ed esponendosi invece in tutta la loro complessità e indecidibilità.

L’indecidibilità nel contesto assai particolare dei film in Appunti, appare a tutti gli effetti come una «pragmatica interna al testo»(12) e questo nella misura in cui si farebbe rivelatrice di tutte quelle istanze di produzione inerenti il testo stesso, illuminandoci delle interazioni che ne sono alla base. Per questo il suo è un carico di potenziale eminentemente creativo, nel senso proprio di una ri-scrittura ( alla luce di un montaggio e di un commento a posteriori) di determinate sequenze sulla base di un’esasperazione di quelle innate possibilità di rischio, come le definiva lo stesso Barthes, connaturate alla loro stessa natura di immagini in successione e quindi di immagini soggette a delle logiche prettamente relazionali. Cos’è del resto una sequenza, si chiede lo studioso francese, se non appunto «una serie logica di nuclei uniti tra di loro da una relazione di solidarietà»? Ma è proprio questa natura relazionale, questa sicurezza della presupposizione reciproca degli elementi relazionati ad esporre la sequenza alla possibilità del rischio e a farne quindi sostanzialmente «una unità logica minacciata»(13).

Dal momento in cui infatti, come abbiamo visto, gli elementi di una data successione di immagini cesserebbero di essere raccordabili fra di loro innescando una sorta di dinamica di disaggregazione delle singole parti costituenti il Tutto, questo stesso processo di sconcatenamento finirebbe con l’assumere in qualche modo di per sé una propria valenza produttiva, nel senso di una ri–enunciazione o di nuova riformulazione di un discorso che è necessariamente altro da quello ufficiale. È un altro logos appunto, quello propagato dal carattere ostensivo delle immagini componenti il discorso non ancora formato degli Appunti; un dire e ri-dire fatto di pause, di sospensioni (“di potenziale”, quindi di senso) indicativo di sempre nuove alternative possibili (nell’alterità continuamente ribadita nei frammenti) e quindi esprimibile solo in termini di rinnovate libertà di senso. La dimensione sempre probabile dell’alternatività delle situazioni, delle ambientazioni ecc., è una conseguenza di quella sostanziale indipendenza della parte rispetto al Tutto di cui abbiamo detto, e che al fine della nostra analisi non può assolutamente essere sottovalutata, soprattutto in merito a quell’impulso dell’autore di operare, come abbiamo visto, direttamente in seno al testo “vivo” praticandovi dei tagli, incidendovi delle “aperture”(14).

Un’idea quella di produrre film per film “da farsi”, aperta perché, come abbiamo detto, indecisa fra un dentro e un fuori del film, e per questo in grado di autorigenerarsi sempre, a partire proprio da quei limiti (resistenze di vario genere incontrate sui luoghi o nei volti, nelle reazioni delle persone allo sguardo indiscreto della m.d.p.) cui questa pratica sembra inevitabilmente incorrere e che puntualmente riuscire ad eludere, riattivandosi di volta in volta alla luce di sempre nuovi stimoli creativi. Creatività propria di quello che abbiamo definito come uno sviluppo in potenza, fondato sui vuoti cognitivi e percettivi prodotti da determinate strategie di montaggio, il quale arriverebbe a tracciare in qualche modo alla lettera, di frammento in frammento, un metodo di regia di tipo trans-testuale come improntato al progressivo smantellamento di ogni riconfortante ri-costruzione del Senso unico e della Storia unica. Nell’ambito di una complessiva, sistematica pratica di decostruzione testuale, che non può trovare altra dimensione di esistenza se non in quella assai poco rassicurante e provvisoria degli “appunti” sempre disposti ad essere resi produttivi nella sperimentazione concreta delle loro infinite «possibilità di senso»(15).

E sembrerebbe essere proprio di un certo cinema del possibile, pre-occuparsi del materiale e delle infinite possibilità espressive da questo offerte, piuttosto che di un fare ragionato e soprattutto di un certo “fare logos” precostituito. Come afferma in un suo saggio Monica Dall’Asta a proposito delle sperimentazioni della pratica seriale riferendosi al caso particolare di Vertov: «questo cinema del possibile non fa scomparire il principio di necessità, piuttosto per così dire, lo posticipa. Il dover essere non è più il presupposto del fare: diventa una sua conseguenza. Non si dice più “lo faccio perchè è necessario” ma “è necessario perchè lo faccio”»(16). Il metodo pasoliniano degli Appunti può trovare dei margini di contatto con questa pratica sperimentale del seriale nella misura in cui, aprendosi ad una prospettiva dialogica nei confronti del materiale raccolto e selezionato sarebbe in grado di inaugurare una specifica operatività mitopoietica rimanendo sempre, in qualche modo, ai bordi di nessun confine. Una prospettiva questa, abbiamo visto, inaugurata dalle infinite possibilità espressive lasciate supporre da un particolare metodo di ricerca ancora da approntarsi e che per il momento sembra non riuscire a trovare altre possibilità di esistenza all’infuori di un certo svolgimento estensivo sul (filo) campo del testo vissuto dall’autore in prima persona in termini di spazio di ricerca da tradurre direttamente in pratica operativa.

In equilibrio (precario) sul filo del testo (non solo cinematografico). Quella di Pasolini è davvero una danza, e non solo sul limite del concreto sensibile(17). Vedremo in che modo con e su tali limiti tale gioco sarà operativo in funzione di una specifica prassi mitopoietica «sia quando si parla di finzione che quando si fa un’inchiesta con i mezzi del cinema»(18).

E in questo senso davvero i due incipit dei film Appunti per un film sull’India e Appunti per un’Orestiade africana, non avrebbero potuto essere più programmatici oltre che indicativi di una specifica pratica di transizione o se vogliamo anche di transazione(19) messa in moto dall’autore nei confronti (non solo) dello spettatore, chiamato direttamente in causa dalla voce dell’autore nella «rilettura» di certe sequenze a intervenire in qualche modo direttamente nel testo (inteso sempre come prassi di ricerca) come co-operatore di senso. In entrambi i casi infatti, si direbbe che l’autore, puntando sull’ambiguità insinuata nell’idea stessa di un cinema in Appunti, giochi letteralmente con i limiti e sui limiti di questa pratica, per mettersi in scena alla lettera come autore, in maniera più “discreta” nel caso del primo film sull’India dove sembra unicamente apparire con il proposito di spiegare l’idea del suo esperimento cinematografico al termine della sequenza iniziale di cui abbiamo detto, per ricomparire ancora e forse in maniera anche più «suggestiva» nel caso dell’Orestiade, attraverso il riflesso di una vetrina mentre si filma con una cinepresa).

È il disvelamento di un dispositivo di creazione e di autogenerazione del film stesso che qui fa problema. E la definizione già di per sé insidiosa di quello spazio individuato solitamente con l’espressione «ai margini del film», sembra qui suscitare delle questioni insolubili nel dar luogo (letteralmente) all’autorappresentazione dell’autore in quanto autore, (o forse a questo proposito si dovrebbe ricorrere al termine di fautore) il quale verrebbe ad appropriarsi di un inedito spazio enunciativo, ulteriore oltre che complessivo di una doppia marginalità. Su un margine, quello del film, spazio già di per sé liminare, la sua figura sta a introdurre «un film su un film da farsi» che è quindi a sua volta d’introduzione a un altro film ancora. Altro a tutti gli effetti.

Tutto questo ovviamente non può che innescare una vertiginosa dilatazione dei margini della visione e della com-prensione soliti (o che si vogliono soliti di un’opera in sé formalmente conchiusa), rimarcata fra l’altro proprio dallo stesso punto di vista formalmente esibito, di un autore che nel suo intervento esplicitamente dichiarato di autopresentazione ci segnala dell’aspetto di una conduzione anomala del film che non potrà allora mai essere percepito come il «solito» film(20). Questa insistenza del film e dell’autore quindi a premere sul film, sui bordi, è prova inconfutabile della malleabilità e della disponibilità del testo nella sua materia costitutiva. In questo senso davvero «focalizzarsi sul limite» come suggerisce Valentina Re, significa sì aprire degli inediti spazi di riflessione «tra testo e contesto» ma anche soprattutto cercare degli altri modelli di organizzazione e comprensione in grado di orientare tali scambi, pur «facendo salva la necessità (non solo metodologica) di potersi rapportare ad un testo che, in quanto tale, abbia un inizio e una fine (mobili, dialogici rivolti sempre verso l’interno e contemporaneamente verso l’esterno»(21)).

È nel contesto di questo complesso sistema di ingranaggi (complessivo di spinte e controspinte come abbiamo visto), che si troverebbe allora ad operare fattitivamente (nel senso proprio di uno specifico programma d’uso) in un apparente contesto di programmatica incompiutezza quella che con Bachtin arriverei propriamente a definire una coscienza dialogica, posta alla confluenza di due lingue, due mondi, due diverse coscienze. Se la prospettiva dialogica in Bachtin ha valore innanzitutto metodologico, essa può venire ad assumere tuttavia dei risvolti “temporali” non meno importanti e densi di significato ai fini della nostra analisi. Una sua affermazione a proposito ci introduce nel vivo di questa problematicità dialettica istituita da Pasolini nei confronti della grezza empiria e della complessa eterogeneità della sua raccolta di materiali(22):

C’è un’idea molto tenace, ma unilaterale e quindi errata, secondo cui per avere la miglior comprensione di una cultura altrui ci si deve come trasferire in essa e, dimenticata la propria, guardare il mondo con gli occhi di questa cultura altrui. Naturalmente, una certa immedesimazione in una cultura altrui, la possibilità di guardare il mondo con i suoi occhi è un momento necessario nel processo della sua comprensione; ma se la comprensione si esaurisse in questo momento, essa sarebbe una mera duplicazione e non arrecherebbe alcuna novità e arricchimento. La comprensione creativa non rinuncia a sé stessa, al proprio posto nel tempo, alla propria cultura e non dimentica nulla. E’ una grande cosa per la comprensione questo «trovarsi fuori» del ricercatore (nel tempo, nello spazio, nella cultura) rispetto a ciò che egli vuole creativamente comprendere(23).

L’impostazione plurilaterale suggerita da Bachtin per una migliore comprensione della cultura altrui ci riporta inevitabilmente all’approccio di tipo transtestuale iscritto in qualche modo nella stessa natura spuria dell’idea originaria di assemblare degli Appunti per produrre film (si pensi al ricorso a un tipo di montaggio alternato di immagini tanto lontane fisicamente oltre che temporalmente e riunite solo da un punto di vista per così dire diegetico, fra quelle girate personalmente da Pasolini, i prelievi di realtà, il materiale delle interviste, i disegni, le immagini d’archivio ecc…)(24).

Per non parlare dei casi di trans-letteralità, nei giochi di semi-apparenza individuabili nella composizione plastica di certe immagini dove i confini del mito vanno a con-fondersi e a perdersi in quelli del reale, in virtù di quei riflessi cangianti di attualità/virtualità di cui abbiamo detto. In questo senso la presenza in entrambi i casi degli Appunti indiani e africani, di una sorta di avan-testo letteralmente pretestuoso (come nel caso del primo l’inchiesta svolta attorno ai nuclei tematici fondamentali del sacrifico, della fame, della sete, sulla scorta della domanda apparentemente ingenua dei tigrotti(25), e nel caso del secondo, la tragedia eschilea) l’approccio transtestuale sembra trovare una sua legittimazione per così dire ideale.

La pretestuosità di tali pre-testi interverrebbe in questo senso a dissimulare il discorso d’autore in una reiterata serie di seduzioni (intese proprio come strategie di conduzione a sé attivate da entrambe le parti e quindi riconducibili solo ai termini di quella dialettica istituita tra idea e rappresentazione) Per questo i pretesti non cesseranno mai di influenzare il testo (e di esserne a loro volta influenzati) continuando incessantemente a ri-produrlo instancabilmente in tutte le sue metastasi.

In conclusione vorrei finalmente rifarmi ad un esempio concreto estrapolato dal complesso di appunti per un’Orestiade africana, che possa essere “visivamente” illuminante in merito a quelle particolari dinamiche che abbiamo visto caratterizzare un’ operare essenzialmente dialogico proprio di una coscienza poetica.

A questo proposito scelgo fra tanti un appunto che Pasolini stesso presenta come «diverso dagli altri»: l’arrivo di Oreste a pregare sulla tomba del padre, l’unico girato stando alle sue parole «come se fosse la scena reale del mio film». Necessaria premessa, poco prima lo stesso Pasolini nello scoprire una tomba nei pressi di un villaggio africano, aveva pregato un padre e una figlia abitanti della capanna vicina di ripetere esattamente i gesti solitamente compiuti per rendere omaggio al loro defunto e li aveva filmati. Questo rituale «realmente» commosso, scandito nei gesti dalla rilettura dei versi di Eschilo e ri-formulato «letteralmente» dalla scansione delle diverse inq. che ci mostrano la scena come la preghiera di Elettra nell’atto di versare l’acqua sulla tomba del padre(26), va letteralmente a confluire nella configurazione realistico- mitica dell’altro «rituale», questa volta del «vero film» che non a caso risulta essere anche una delle scene più montate del film. Anche questo appunto è accompagnato dai versi di Eschilo riprodotti dalla voce ostensiva dell’autore su una messa in scena evidentemente più poetica (si pensi al campo- controcampo del primo piano dell’“Oreste africano” che si rivolge con uno sguardo implorante al “Cielo-Apollo”) ma nutrita anch’essa di una stessa «reale» sacralità.

«Il dolore, la morte, il lutto, la tragedia», aveva già spiegato in precedenza Pasolini per giustificare la convivenza nei suoi appunti di immagini «finzionali» (situazioni e personaggi da adattare al suo film) e di immagini di repertorio girate durante la guerra del Biafra, «sono elementi eterni» e nella loro assolutezza possono fare astrazione del particolare legando indissolubilmente «attualità e fantasia». Così vediamo allontanarsi l’attore africano «perso» nella stessa angoscia straziante di “Oreste”, costretto a vagare per le strade del mondo in attesa del giudizio finale. Allo stesso modo vediamo la rappresentazione ideale del Tempio di Apollo «perdersi» nelle forme neocapitalistiche della moderna università africana. E le fattezze inquietanti delle Furie «perdersi» anch’esse al ritmo di una danza di Eumenidi. La definizione dei confini del reale e quelli del mito risulta a questo punto irrimediabilmente compromessa. Nella trasformazione che si dà ai limiti, non può esserci immediata risoluzione, la conclusione ultima (la forma definitiva), lo dice Pasolini stesso «non c’è», non si dà, «è sospesa». Un’apertura nel finale che non potrà essere contemplabile unicamente come sguardo nostalgico rivolto al futuro, seguendo una mera successione cronologica degli avvenimenti esposti, ma in merito a quanto detto finora a proposito di quell’operare dialogico oltre che diacronico compiuto dall’autore attraverso il testo(27), allora questa è sicuramente da intendersi piuttosto come un invito a ri-guardare, riconsiderare retrospettivamente le tante «aperture» disseminate a più livelli nel testo, tra i testi nella riconfortante certezza di avere davvero ancora tutto un «infinito in cantiere»(28).


Patrizia Fantozzi


1 Il progetto complessivo ideato da Pasolini avrebbe dovuto comporsi di cinque capitoli dedicati all’America del Sud, ai ghetti neri statunitensi, all’India, all’africa nera e ai paesi arabi. Di questi sarebbe stato realizzato solo il capitolo africano e in parte quello indiano.

2 Dice Deleuze: “Data un’immagine, si tratta di scegliere un’altra immagine che introdurrà tra le due un interstizio. Non è un’operazione di associazione, ma di differenziazione (…) dato un potenziale, bisogna sceglierne un altro, non uno qualunque, ma in modo che tra i due si stabilisca una differenza di potenziale, un potenziale che sia produttore di un terzo o di qualcosa di nuovo.” G. Deleuze, Cinéma 2. L’ image- temps, Les Editions de Minuit, Paris 1985, tr. it. L’immagine- tempo, Cinema 2, Milano, Ubulibri, 1989, p.200-201

3 Ivi, p.194-209

4 A. Compagnon, Il lavoro della citazione, in Guagnelini G. e Re V., Visioni di altre visioni, Bologna, Archetipolibri, 2007,p. 93-94

5 E questo avverrebbe proprio nel momento in cui l’atto stesso, introducendo nel testo uno scarto, un’apertura, sarebbe in grado da solo di innescare processi di produzione di senso, in grado di prescindere “dai ‘contenuti’ letterali di una determinata citazione.”

6 Non è un caso che proprio negli stessi anni di sperimentazione del metodo degli appunti per film da farsi, Pasolini giunga alle sue teorizzazioni sul cinema come lingua scritta della realtà, rivendicando fra l’altro proprio l’importanza dell’azione come il primo e principale dei linguaggi umani “in quanto rapporto di reciproca rappresentazione con gli altri e con la realtà fisica.” PPP in Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1974, p. 199

7 L’epicità del racconto pasoliniano è data a mio avviso proprio dalla vertigine prodotta da queste spaziature; un vuoto che come dice Deleuze, non essendo già più “parte motrice dell’immagine e che l’immagine oltrepasserebbe per continuare” appare come la messa in questione radicale dell’immagine stessa “proprio come esiste un silenzio che non è più la parte motrice o la respirazione del discorso, ma la sua messa in questione radicale.” V. I. T., p.201. La potenzialità straordinariamente evocativa del metodo degli Appunti starebbe allora nella radicale messa in questione delle tradizionali modalità operative del mezzo di riproduzione cinematografica. E questo potenziale procederebbe nel senso dell’incompiutezza, della provvisorietà, del vuoto della rappresentazione, del silenzio quindi.

8 L’espressione di André Gaudreault ( v. “Dal semplice al Multiplo o il cinema come serie di serie…” in Antonini A., a cura di, Il film e i suoi multipli, Forum, Udine, 2003 p. 29 ) che sta a evidenziare un certo potenziale magico iscritto nella stessa fotogrammatica della cinematografia a partire proprio dall’ illusione di unità e continuità data dai fotogrammi multipli iscritti su un supporto unico e quindi caratterizzato da un costante passaggio dialettico dall’uno al multiplo e viceversa, vorrebbe qui riferirsi invece a una sorta di potenziale creativo, più che magico direi forse poetico, il quale verrebbe attivato attraverso il ricorso a un uso particolare del montaggio fondato su una trascorrenza di piani ( e quindi di riprese ) non immediatamente giustificabile da un punto di vista esclusivamente interno al testo.

9 Gilles Deleuze è chiaro a questo proposito “La confusione tra reale e immaginario è un semplice errore di fatto e non concerne la loro discernibilità (…) L’indiscernibilità invece costituisce un’illusione oggettiva; non sopprime la distinzione delle due facce, ma la rende in assegnabile, poiché ogni faccia assume il ruolo dell’altra, in una relazione che si può definire di presupposizione reciproca o di reversibilità.” In L’immagine- tempo, Milano, Ubulibri, 1989, p. 83

10 In Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Firenze, Le Lettere, 2008, p. 168

11 E’ questo procedimento che nel caso specifico degli Appunti sembra scandire le tappe proprie di una “verifica” effettuata sulla base di prelievi direttamente estratti dal reale in rapporto a una data immagine mitica e quindi meramente funzionale, a originare quell’irrisolvibile dialettica dialogica tra i due volti coincidenti del mito e del reale conviventi in una stessa immagine.Ivi, p.164

12 La presentazione della serie di “possibili” personaggi, situazioni, ambientazioni del film

13 V. analisi di Cosetta G. Saba sulle “disgiunzioni di probabilità” nei rapporti tra un testo matrice e un testo remade, in Antonini A., (a cura di) Il film e i suoi multipli, Forum, Udine, 2003, p.48-49

14 Ivi, p.87

15 In “Film che producono film..”, cit.p. 372

16 Ivi, p. 371

17 Il titolo del saggio di Marco Dinoi “Secondo interludio, sul limite del concreto sensibile”, in Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Firenze, Le Lettere, 2008, p.155 è un chiaro riferimento all’intervista rilasciata da Pier Paolo Pasolini Le cinéma selon Pasolini ai Cahiers du cinéma. In quest’occasione il regista si trova a riflettere con Comolli e Bertolucci sulla questione dell’utilizzo o dell’applicazione di una lingua della poesia al cinema, evidenziando soprattutto l’aspetto contraddittorio che una simile operazione potrebbe suscitare rispetto a quelli che sono da sempre i naturali obbiettivi e mezzi dello strumento cinematografico “che sono innanzitutto in situazione e in funzione realistica”, Pasolini parla di un “naturalismo fatale” connaturato allo stesso meccanismo del cinema. E in questo contesto torna ad avvicinare la parola all’ immagine, sostenendo per entrambe la presenza di uno stesso “limite del contrario”: il “limite del concreto sensibile” appunto. Ma se nel caso della parola sarà ancora possibile affermare oltre questo concreto sensibile un significato simbolico astratto assoluto, ciò non sarà possibile nel caso dell’immagine cinematografica per la quale questa operazione non potrà che realizzarsi in maniera incompleta, poiché afferma il regista: “non credo che nessun film abbia mai passato questo limite- nemmeno il più poetico dei film”.

18 Ibidem.

19 È da qui che lo stesso autore cerca di organizzare il passaggio dello spettatore dal mondo extratestuale a quello testuale: di gestire dunque un transito, ma anche una transazione (confermando ad esempio aspettative già formate nello spettatore, ed attivandone delle nuove) V. Ai margini del film. Incipit e titoli di testa, di V. Re, Pasian di Prato, Campanotto Editore, 2006, p.11

20 Un’anomalia che si verificherà soprattutto in condizioni di inassegnabilità di “punti di vista” almeno secondo le modalità di percezione classiche. In questo senso il discorso relativo all’uso della soggettiva libera indiretta meriterebbe un’analisi a sé, per quanto ci riguarda è utile sottolineare la sua importanza in merito a certe modalità operative di messa in scena dello sguardo d’autore attraverso quello dei suoi personaggi o presunti tali.

21 Ivi, p. 14

22 “L’immensa quantità di materiale pratico, ideologico, sociologico, politico che viene a costruire un film del genere impedisce obiettivamente la manipolazione di un film normale. Esso seguirà dunque la formula “un film su un film da farsi”. In M. Mancini e G. Perrella (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Corpi e luoghi, Theorema, Roma 1981, p. 37

23 M. Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, p.XV E’ il “trovarsi fuori” dello sdoppiamento effettuato dall’autore attraverso la soggettiva libera indiretta: p. 167 I.T.

24 “Stilisticamente il film sarà dunque molto composto, complesso e spurio: ma a semplificarlo provvederanno la nudità dei problemi trattati e la sua funzione di intervento diretto rivoluzionario.” In M. Mancini e G. Perrella (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Corpi e luoghi, cit.p. 37

25 I nuclei tematici della fame, della fede ecc..non sarebbero che un pre-testo per una loro messa alla prova, operativa nel senso di quella mitopoiesis che caratterizzerebbe il metodo sperimentale degli appunti. “ Non si può immaginare un Pasolini tanto ingenuo, come quello che scaturirebbe da una comprensione letterale della domanda, posta nel film indiano, sulla possibilità che un maragià doni la propria vita per sfamare dei tigrotti” come suggerisce Marco Dinoi “se non in termini di operatività mitopoietica di tali figure” In Lo sguardo e l’evento, cit.p. 159

26 In questo senso si potrebbe parlare di una citazione nella citazione: la citazione come prelievo del reale che si dà come cinema in natura potenzialmente iscrivibile in un discorso mitico e citazione letterale del pre-testo della tragedia Eschilea in seno al testo degli Appunti inteso come “modus operandi”. In questo senso il testo di Eschilo è perfettamente leggibile nel montaggio pasoliniano: «Dio dell’Inferno, re dei vivi e dei morti, fa che ascoltino questa mia preghiera gli spiriti che stanno sotto terra testimoni terribili dell’assassinio di mio padre e la terra stessa madre di tutti noi che ci ha nutriti e in sé ci raccoglie a germinare nuova vita mentre versando quest’acqua ai morti io prego mio padre».

27 Le “smagliature” del Tempo cronologico in funzione dell’instaurazione di un regime di Tempo “mitico”.

28 G. Genette, in Guagnelini G. e Re V., Visioni di altre visioni, op. cit.p. 129

Fonte: http://www.lafuriaumana.it/index.php?option=com_content&view=article&id=317:pasolini#_ftn18


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