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martedì 25 giugno 2013

«Quelle carte rubate dopo la morte»

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





«Quelle carte rubate dopo la morte»


Pasolini e «Petrolio»: Guido, cugino di Pier Paolo, conferma l’episodio

Dunque, ricapitoliamo. L’«Appunto 21» di Petrolio, che si intitola «Lampi sull’Eni», fu scritto certamente da Pasolini, ma nel manoscritto del romanzo non c’è: ne è rimasto solo il titolo. Fu scritto certamente, perché qualche pagina dopo l’autore vi fa cenno, rimandando il lettore a quel paragrafo come a un testo compiuto. Il secondo volume Mondadori (Meridiani) dei Romanzi e racconti, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, contiene Petrolio, il libro incompiuto a cui Pasolini stava lavorando da tre anni quando, il 2 novembre 1975, venne ucciso a Ostia nelle circostanze oscure di cui sappiamo. Nella Nota al testo riguardante il romanzo, Silvia De Laude chiarisce la genesi e lo stato dei lavori e nelle Postille che ne seguono commenta, da brava filologa, passo per passo, la situazione testuale, le varianti, le cassature e le inserzioni. Ma in coincidenza di quella pagina bianca e del successivo riferimento nell’«Appunto 22», non c’è nessuna annotazione che illustri le ragioni del vuoto e il cenno alla parte mancante.
Quella lacuna rimane oscura persino nell’edizione più affidabile di Petrolio. È come se si volesse sorvolare su quella incongruenza. In realtà, la cugina ed erede di Pasolini, Graziella Chiarcossi (filologa a sua volta), nega un’evidenza: e cioè che quelle pagine siano esistite. In un’intervista a Paolo Mauri («la Repubblica» 31 dicembre 2005), afferma: «Sarebbe meglio dire che di quel capitolo è rimasto solo il titolo, come per tanti altri rimasti in bianco», fingendo di ignorare che poche pagine dopo l’autore vi accenna come a un paragrafo compiuto. Nella stessa intervista la Chiarcossi nega anche che dopo la morte di Pier Paolo si sia mai verificato un furto di carte nella casa dell’Eur in cui viveva con suo cugino. E ricorda invece un’effrazione precedente. Ma qui entra in conflitto con il ricordo di Guido Mazzon, cugino anche lui di Pasolini, per via materna (sua nonna era sorella della mamma di Pier Paolo). Il quale Mazzon aveva già dichiarato a Gianni D’Elia, per il suo libro Il Petrolio delle stragi pubblicato nel 2006 da Effigie, di aver ricevuto, giorni dopo la morte del cugino, una telefonata in cui Graziella accennava al fatto che alcuni ladri erano entrati in casa portandosi via dei gioielli e delle carte del poeta. Ora viene annunciato che le carte scomparse saranno esposte alla Mostra del Libro Antico di Milano (dal 12 marzo) e Mazzon conferma tutto con un certo imbarazzo: «Nel ’75, dopo la tragedia di Pier Paolo, Graziella chiamò mia madre per dirle di quel furto. Quando mia madre me lo riferì, pensai: “Accidenti, con quel che è capitato ci mancava pure questa”. E pensai anche: “Strano però, che senso ha andare a trafugare le carte di un poeta?”. Il mio stato d’animo sul momento fu proprio quello. Avevo 29 anni e ricordo bene la sensazione che ebbi. Poi il particolare del furto mi tornò alla mente leggendo Petrolio e venendo a sapere della parti scomparse».
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Perché l’imbarazzo? «Perché non riesco a capire come mai mia cugina continui a negare quel fatto. Dopo l’annuncio del ritrovamento, l’ho cercata al telefono, ma senza successo: vorrei chiarire, cercare di ricomporre il ricordo. Mia madre è morta due anni fa e non posso più chiederle conferma, ma quella comunicazione telefonica ci fu e si verificò dopo la morte di Pier Paolo, non potrei dire esattamente quanti giorni dopo». Mazzon si dice idealmente pasoliniano a tutti gli effetti. Nell’Oltrepò, dove abita, conserva ancora un prezioso regalo che suo cugino gli fece tanto tempo fa: «Ero a Casarsa l’estate del 1957, avevo undici anni. Pier Paolo, arrivato da Roma in una delle sue fugaci comparse per salutare la madre, mi vede scendere le scale di casa con una vecchia tromba a cilindri in mano. “Come puoi suonare con uno strumento così antiquato?” (“orrendo”, stava pensando con un suo aggettivo), mi chiede. Poi con aria leggermente imbarazzata stacca un assegno e mi dice: “Tieni, comprati una tromba nuova, argentata!” (“stupenda”, pensava)». È un brano del suo libro, La tromba a cilindri, pubblicato nel 2008 da Ibis. «Pier Paolo mi ha insegnato l’amore per la letteratura e la poesia, che per me è diventata musica». Trombettista e compositore jazz, Guido Mazzon ha messo su qualche anno fa uno spettacolo intitolato «L’eredità ideale». Era un omaggio a Pasolini. Un omaggio, esattamente come il desiderio di ricostruire tutta la verità su Pier Paolo, ribadendo quel lucido ricordo che altri familiari hanno curiosamente rimosso. Perché quel particolare, come si sa, potrebbe aprire nuovi scenari.

Paolo Di Stefano
Il Corriere della Sera

Fonte:
http://sottoosservazione.wordpress.com/2010/03/04/%c2%abquelle-carte-rubate-dopo-la-morte%c2%bb/#more-10980

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Lettere luterane 1976 (pubblicazione postuma) - di Fulvio Panzieri

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Lettere luterane 1976 (pubblicazione postuma)
da Fulvio Panzeri, Guida alla lettura di Pasolini,
Mondadori, Milano 1988


Il volume postumo Lettere luterane si presenta come la parte finale e conclusiva degli Scritti corsari: raccoglie infatti gli articoli che vanno dal marzo 1975 all'ottobre dello stesso anno. Il titolo della raccolta è stato scelto dall'editore. 
La prima parte del volume è composta da un "trattatello pedagogico" destinato a Gennariello, un immaginario ragazzo napoletano, scelto "perché in questo decennio i napoletani non sono molto cambiati: sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia". Nel "trattatello" Pasolini analizza le "fonti educative" del ragazzo e ne mette in rilievo gli errori e gli orrori, le armonie e le disarmonie, passando in rassegna il linguaggio pedagogico delle cose, i compagni ("che sono i veri educatori"), i genitori ("gli educatori ufficiali"), la scuola ("insieme organizzativo e culturale della diseducazione"), la stampa e la televisione ("spaventosi organi pedagogici privi di qualsiasi alternativa"). Il "trattatello" è incompleto: gli argomenti di cui Pasolini si sarebbe occupato nel seguito sono il sesso, la religione e la politica. 
La seconda parte del volume, invece, è la vera e propria continuazione della raccolta degli Scritti corsari. Il più celebre di questi scritti è indubbiamente quello incentrato sulla metafora del Palazzo, con la distinzione tra "dentro" e "fuori" e quindi tra "potere (dentro)" e "Paese (fuori)". Scrive in proposito Pasolini: "Fuori dal Palazzo, un Paese di cinquanta milioni di abitanti sta subendo la più profonda mutazione culturale della sua storia (coincidendo con la sua prima vera unificazione: mutazione che per ora lo degrada e lo deturpa". Tra le due realtà, la separazione è netta, e al suo interno agisce il "Nuovo Potere", che, con la sua "funzione edonistica" riesce "a compiere "anticipatamente" i suoi genocidi". Su questa linea, in un altro articolo lo scrittore ipotizza, con un'altra immagine metaforica, il Processo ai potenti democristiani. 
Le provocazioni pasoliniane continuano con due proposte che gli sono suggerite dalla contestazione "della perdita da parte dei giovani del popolo dei propri valori morali, cioè della propria cultura particolaristica, coi suoi schemi di comportamento". 
Pasolini chiede infatti l'abolizione della scuola media dell'obbligo e della televisione, e giustifica le sue richieste così: "La scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione (produzione di umanità). Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l'immediata cessazione delle lezioni alla scuola d'obbligo e delle trasmissioni televisive". Poi, in un successivo articolo lo scrittore chiarisce che la sua proposta prevede "un'abolizione provvisoria, in attesa di tempi migliori: e cioè di un altro sviluppo" e suggerisce quello che a suo giudizio si potrebbe fare per migliorare tali istituzioni. 
Il discorso svolto da Pasolini nei suoi ultimi articoli risulta ancor più coinvolgente del solito punto di vista della scommessa polemica. Il centro su cui esso si fonda è rappresentato dalla delineazione dei caratteri di quello che lo scrittore chiama "genocidio": un fenomeno che, all'interno della società italiana, ha prodotto solo coscienze caratterizzate da "un'atroce infelicità o da un'aggressività criminale".Del resto, quella che dapprima era solo una constatazione dello scrittore o una sua supposizione, ora, come dimostrano gli episodi di cronaca nera, è diventata una tragica e dolente conferma. Comunque, Pasolini, nelle Lettere luterane, non assume il tono di "colui che grida nel deserto", ma si presenta con l'ansia e l'ossessione di chi vuole persuadere di una amara "verita'", delineata in frammenti di realtà storiche concomitanti e causali della stessa "verità" messa a nudo. 
Gli assunti espressivi di questi ultimi scritti pasoliniani, tra l'altro, sembrano denotare lo sfinimento dell'intellettuale che deve continuamente, quasi nevroticamente, insistere sulle stesse argomentazioni per rendere più evidente il male oscuro che si espande dal consumismo ormai eletto a nuovo e unico valore. Le Lettere luterane sono così il gesto di rivolta di un uomo che si sente estraneo dal mondo in cui vive, ma per questo non smette di guardarlo e di osservarlo, al fine di carpirne i dolenti segreti. Di fatto, nei Giovani infelici, che introduce la raccolta, scrive: 

Per me la vita si può manifestare egregiamente nel coraggio di svelare ai nuovi figli ciò che io veramente sento verso di loro. La vita consiste prima di tutto nell'imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà.

Fonte:
http://www.iltuoforum.net/forum/il-libro-ritrovato-f44/pier-paolo-pasolini-1922-1975-t2801.html


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IL CANTO CIVILE DI PASOLINI

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IL CANTO CIVILE DI PASOLINI

di Carlo Felice Casula



Nei primi giorni di novembre del 1975. fresco di laurea e di movimento studentesco, ma già assistente all'Università di Roma, ero a Bari, invitato a un convegno su TogIiatti e il Mezzogiorno che si ,teneva alla Fiera del levante con la presenza di molti noti storici e leader politici, tutti, però quasi oscurati dalla presenza, anche fisica di Giorgio Amendola, con la sua mole, la sua verve ,la sua Storia. Non ero, anche per stile generazionale, assiduo spettatore di telegiornali, o forse nella splendida casa di campagna dell'entroterra barese di Enzo Modugno, che proprio allora stava dando vita a Marxiana. la rivista più raffinata e prestigiosa dell'ultra Sinistra. dove ero ospite con altri amici più semplicemente la televisione non c'era. Fatto Sta che, quando la mattina del 2 novembre comprammo i quotidiani (di questi eravamo invece voraci consumatori e per di più, dovevamo premunirci contro la possibile noia di una lunga mattinata di relazioni e interventi), fummo presi e sconvolti dai titoloni in prima pagina sulla tragica morte di Pier Paolo Pasolini. Non ricordo se e come nel convegno si reagì a questa notizia-evento; ricordo invece, come se fosse oggi, che per me l'impatto fu molto forte e coinvolgente, anche perché il modo in cui l'intensa vita di Pasolini si era conclusa (una morte atroce, dopo un incontro di sesso mercenario, per mano di un "ragazzo di vita", un "marchettaro", nel crudo gergo romanesco, scoperto, amato e rilanciato da Pasolini in alcuni dei suoi più noti romanzi, Ragazzi di vita, appunto, e Una vita violenta) non ci sembrò, pur essendo in generale così sensibili alle tesi complottiste, né strana né sospetta, ma emblematica e quasi preannunciata dal cupio dissolvi che traspariva dall' ultimo e certo non più bello dei suoi film, Salò o le 120 giornate di Sodoma.Lo scandalo della sua vita di uomo e di intellettuale-poeta attento e quasi preveggente, sensibile e impegnato fino a un sofferto coinvolgimento personale (la sua produzione vasta e variegata di scrittore, regista, sceneggiatore, saggista-opinionista è tutta riconducibile a questa sua dimensione, trovava nella sua morte orribile una emblematica conclusione-conferma. Scandalo nel significato che San Paolo attribuisce alla vita e alla morte in croce di Gesù (non sembri il paragone blasfemo o irriverente.), come eccezione clamorosa rispetto alla normalità, ma anche come realtà e testimonianza con cui tutti si debbono misurare e confrontare.
Nel mio sgomento e sconforto era presente anche il ricordo di un personale incontro. Nella primavera del 1968. In tutta Italia era esplosa la protesta studentesca che, a partire dall'università aveva coinvolto e travolto il mondo giovanile. Sono fatti fin troppo noti, anche perché, nel tempo, il Sessantotto è diventato quasi una epopea ripetutamente rievocata nei media da protagonisti e dai testimoni e osservatori. Pasolini, dopo la manifestazione di Valle Giulia che si ebbe a Roma nel mese di marzo, con centinaia di feriti tra giovani, ma anche per la prima volta tra gli ancora sprovveduti poliziotti, decine di arresti e moltissimi fermati, (compreso chi scrive), scrisse di getto per l' eIitaria rivista Nuovi Argomenti una lunga poesia, Il PCI ai giovani, che suscita clamore, stupore e scandalo, anche perché fu pubblicata in contemporanea, "proditoriamente"(secondo l'esplicita affermazione di Pasolini) dal Settimanale L'Espresso, all'interno di un ampio reportage, con il provocatorio titolo Vi odio cari studenti! L'intellettuale impegnato, di sinistra, comunista, nello scontro che aveva visto contrapposti in un campo di battaglia, non più solo metaforico, giovani studenti e giovani poliziotti, scriveva di preferire decisamente questi ultimi, sia per la loro estrazione sociale, popolare e meridionale, sia, ancor più, per la loro "innocenza". Il Movimento studentesco reagì sdegnato e offeso e così pure non pochi uomini di cultura, come Fortini, e politici in carriera come Achille Ochetto, che intervenne con un articolo sprezzante su Rinascita. Sotto accusa per lutti era la presunta incapacità di Pasolini di cogliere le ragioni dello scontro in atto e di comprendere il ruolo di repressione svolto dalle forze di polizia in difesa del vecchio ordine. Facevo allora parte del "collettivo fuorisede", composto da giovani studenti universitari, anch'essi per lo più' poveri e meridionali. Nei confronti di Pasolini e, in particolare, del suo cinema, avevamo una vera e propria passione e, anche per questo, si sviluppò al nostro interno una discussione accesa e prolungata su queste sue affermazioni. A differenza, tutta via, dei nostri compagni del Movimento studentesco e, in particolare, di quella componente che chiamavamo i "pariolini", quasi istintivamente, riuscimmo a cogliere la "verità interna" contenuta nella poesia incriminata. Ci ragionammo molto insieme, in seguito. quando Pasolini ritornò sull’'argomento sul settimanale Tempo, a distanza di un anno, il 17 maggio del 1969. Pur senza nulla, ritrattare Pasolini. esprimendo anzi rammarico e sconcerto per la sostanziale incomprensione della verità, precisava a scanso di ulteriori equivoci:
."... Nella mia poesia dicevo. in due versi. di simpatizzare per i poliziotti fìgli di poveri, piuttosto che per i signorini della facoltà di Architettura di Roma [...] non era che una boutade una piccola furberia oratoria paradossale per richiamare l'attenzione del lettore e dirigerla su ciò che veniva dopo in una dozzina di versi. dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescia. in quanto il potere oltre che additare all'odio razziale i poveri - gli spossessati del mondo -ha la possibilità anche di fare di questi poveri deglì strumenti (...): le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ghetti particolari. in cui Ia qualità' della vita è in giusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università". La nostra cultura non era così raffinata da saper cogliere nella poesia di Pasolini (e Pasolini è, al di là forse dei suoi stessi intenti, poeta che si esprime con la scrittura e con le immagini-suono-ritmo del cinema, e non sociologo, antropologo, né tanto meno commentatore politico) la funzione centrale, oltre che della metafora, anche della "sineddoché", dell"'ossimoro", del "paradosso", ossia del suo frequente ricorrere, per esprimere un concetto, a enfatizzare un aspetto, quasi sottacendo il resto e tralasciando il contesto. Proprio in quei mesi avevamo, invece, fatto una singolare convergente esperienza sul campo. In centinaia, per protestare contro le disfunzioni della mensa universitaria, per diversi giorni portavamo i tavolini per strada e mangiavamo all'aperto, bloccando così il traffico. La polizia non tardò ad arrivare, ma non fu da noi accolta con gli usuali fischi e improperi. Con il megafono, a più voci, parlammo-dialogammo con passione con i poliziotti in tutti i dialetti del Meridione; l'ufficiale che li comandava già pronto a ordinare la carica, con tanto di fascia e di trombettiere a fianco, percepì, anch'egli, come noi, tra i suoi ragazzi in divisa, una stupefacente onda di vera e propria commozione-simpatia nei confronti di quegli studenti che provenivano dagli stessi paesi e forse anche dalle stesse famiglie. L'episodio fu riportato nella cronaca cittadina dei giornali della Capitale; Pasolini; sempre attento a questo tipo di avvenimenti, per vie traverse ci comunicò che era curioso e contento di incontrarci. Tra l'altro la via dove questa nostra originale manifestazione si era svolta era non distante dal Tiburtino, nella periferia est di Roma, dove Pasolini aveva conosciuto alcuni dei suoi amici-interlocutori più cari, come Franco e Sergio Citti, ispiratori, personaggi e attori di suoi importanti libri e film (Una vita violenta, Ragazzi di vita, Accattone, Mamma Roma). Ci andammo in tre, i "leader", con grande riservatezza, perché avevamo il timore di comprometterci con gli altri collettivi del Movimento studentesco. Aggressivi e indifesi, come tanti suoi giovani personaggi, parlammo e ascoltammo a lungo con grande emozione, anche quando il discorso dalla politica passò ad altro e anche a quello, per noi ragazzi meridionali, più difficile e imbarazzante-pruriginoso, della sessualità. Su cui, pur tuttavia, ci eravamo, preventivamente; documentati, per non presentarci sprovveduti, con la proiezione del suo bellissimo film documentario Comizi d'amore del 1964, di cui egli stesso ci aveva prestato una copia. Per quanto concerne questo specifico tema, così presente e centrale negli Scritti, nei film e nella vita stessa di Pasolini, non può non essere giudicata' strumentale e irriguardosa l'operazione che in taluni ambienti cattolici è stata compiuta tentando di arruolarlo, postmortem, nello schieramento antidivorzista e antiabortista. La questione vera che egli sollevava e "scandalosamente" viveva era quella dell'autonomo, positivo, valore della sessualità, anche di fuori della specifica finalità creativa. Non si può negare-disprezzare-perseguitare la sessualità non procreativa e al contempo essere favorevoli all'aborto: è questo un tipico ossimoro-paradosso pasoliniano.Ma ritorno al ricordo dell'incontro del Collettivo fuorisede con, Pasolini: ci diede una 'grossa somma di denaro per le nostre iniziative e al meno "politicizzato" di noi tre promise di farlo lavorare in uno dei suoi film. Cosa che poi puntualmente avvenne, con grande gioia dell'interessato e molto orgoglio da parte nostra. Nel Canto civile, del dicembre 1969. ci parve di cogliere, a posteriori. ma a ridosso, quasi un'eco di questo nostro incontro, nel verso "Chi farebbe la rivoluzione - se mai la si dovesse fare - se noni loro? Diteglielo: sono pronti. tutti allo stesso modo, così come abbracciano e baciano e con lo stesso odore nelle' guance ". I due versi finali, solo apparentemente, mostravano un esito pessimistico: "Ma non sarà la loro fiducia nel mondo a trionfare./ Essa deve essere trascurata dal mondo". Era sufficiente, per capovolgerne il senso, far ricorso alle più semplici categorie sapienziali del Vangelo. Forse Pier Paolo Pasolini in questo unico intenso (per noi sicuramente, probabilmente anche per lui) incontro, aveva visto dei giovani capaci di rendersi conto, individuando cause e responsabilità, che nell'Italia industrializzata e secolarizzata, ma non per questo più ricca per usare una sua notissima metafora , ai bordi delle strade "erano improvvisamente scomparse le lucciole".

Fonte: http://www.informagiovani.it/30anni68/30PasCasu.htm


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lunedì 24 giugno 2013

Intervista, BERTOLUCCI RACCONTA IL "SUO" '68

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BERTOLUCCI RACCONTA IL

BERTOLUCCI RACCONTA IL "SUO" '68


Conversazione con Bernardo Bertolucci su Pasolini, il ’68, Pierre Clementi, Elsa Morante, The Dreamers, Cocteau, Moravia e il Festival di Venezia

Daniele Basso e Emiliano Morreale


Lei ha passato il ‘68 tra l’Italia e Parigi. Che differenza c’era tra il movimento francese e quello italiano?

Il ‘68 parigino è iniziato a Roma. Mi trovavo per sbaglio a Valle Giulia, per sbaglio perché ero più vecchio. Vivevo in una specie di zona grigia tra due momenti storici molto importanti: ascoltavo gli ex partigiani ancora giovani che mi raccontavano quello che avevano vissuto e allo stesso tempo stavo con gli studenti. Ero a via del Babuino, sotto casa passava una manifestazione; sono sceso, studenti di Architettura e altri andavano alla facoltà a portare solidarietà agli occupanti. Guardandomi intorno mi sono sentito fuori posto perché avevo 27 anni e gli studenti 19 o 20. Mi sono unito a loro, abbiamo camminato fino a Valle Giulia e quando siamo arrivati davanti alla facoltà c’era la Celere che non permetteva di portare a quelli che erano dentro né cibo né coperte né acqua. Gli studenti hanno cercato di entrare e la Celere li ha caricati e così mi sono ritrovato in mezzo alla prima manifestazione violenta di quegli anni. Quando andavo a Parigi raccontavo cos’era accaduto a Valle Giulia. Durante il maggio dello stesso anno ho girato Partner: Pierre Clementi, il protagonista del film, il venerdì sera tornava a Parigi, la domenica sera rientrava in Italia e mi raccontava quello che aveva visto. Era quasi come avere il Maggio del ‘68 a Roma in presa diretta.

Per questo ha scelto di raccontare il ‘68 di Parigi?

Ho letto il romanzo di Gilbert Adair da cui è nato The Dreamers: parlava del come nessuno ne aveva ancora parlato né allora né negli anni successivi. L’autore è un inglese che a 20 anni è andato a vivere a Parigi trovandosi un po’ per caso e un po’ per scelta a vivere il ‘68 in una città non sua con delle problematiche e delle modalità che forse non lo riguardavano direttamente. Mi piaceva molto come era riuscito a innestare nel ‘68 una struttura non tanto diversa da quella di Les enfants terribles di Cocteau, mi affascinava la fusione tra Cocteau e il ‘68.

Quali sono state le reazioni all’uscita del film e quali sono secondo lei le reazioni che suscita parlare del ‘68?

Con The Dreamers ho visto che il ‘68 ancora infastidisce e irrita anche molti di quelli che vi hanno partecipato. C è una specie di revisionismo, il tentativo di archiviare quel periodo rivoluzionario come qualcosa di profondamente negativo come se il ‘68 ricordasse ai suoi protagonisti una sconfitta, quasi fosse un ricordo doloroso. Io penso che quello della rivoluzione sia stato un sogno, non ho mai creduto che si sarebbe realizzato. Quando sento dire che quel movimento è stato una sconfitta e che si è trascinato nel tempo, che il ‘68 ha portato alle Br mi sembra tutto molto confuso, inaccettabile, ingiusto. All’uscita di The Dreamers mi sono accorto che ci sono due parole che non si possono più usare in Italia una è “ideologia”, l’altra “nostalgia”. Il film è stato accusato di essere ideologicamente nostalgico del ‘68, cosa accaduta poi anche a Garrel. Il termine “nostalgia” viene usato perciò in senso dispregiativo, dovremmo gettare e dimenticare libri come l’Odissea e la Recherche, costruiti sulla nostalgia...

Lei ha avuto modo di frequentare in quegli anni Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini. Quali erano le loro posizioni rispetto al ‘68?

Mio padre si lamentava perché non facevo l’università ma la mia università è stata il tempo passato con Elsa e Pier Paolo. “Vado all’università quando ceno con loro” rispondevo a mio padre. C’era anche Moravia. La Morante e Pasolini discutevano spesso, essendo entrambi ammirati l’una dal lavoro dell’altro, c’era tra i due un continuo scambio. Pasolini era molto conflittuale, su Valle Giulia aveva scritto quella poesia Il Pci ai giovani in cui dice: vi odio, cari studenti, siete paurosi e disperati ma anche prepotenti e ricattatori. Questa poesia lo aveva reso inviso agli studenti. Si trattava di un discorso molto sentimentale: io sto con i giovani del Sud, figli di contadini, costretti a fare i poliziotti; non sto con voi, con i capelli lunghi. Odiava i capelli lunghi, odiava tutto quello che avrebbe chiamato nel suo testamento, che sono gli editoriali scritti nel 1975 per il Corriere della Sera e Il Mondo, poi confluiti in Lettere luterane, la falsa permissività del consumismo. In Abiura per la trilogia della vita descrive i ragazzi di allora, la loro presunzione di essere i padroni della propria libertà dicendo loro: “Non è vero, non siete liberi, ripetete dei cliché che vi vengono imposti”, dichiarazione del tutto attuale. Qualche mese dopo i fatti di Valle Giulia, durante il contestato Festival del cinema di Venezia, Pasolini andò all’università e gli studenti gli sputarono addosso. Pier Paolo era alla ricerca di punizione e di redenzione, prese gli sputi e disse “Discutiamo”. Si sedette e alla fine tutti lo seguivano con ammirazione. Era riuscito a far ascoltare anche le sue idee. In alcuni momenti Pasolini aveva un atteggiamento quasi mistico, non religioso ma sicuramente dentro una sua sacralità.

E qual era l’atteggiamento della Morante verso i ragazzi del ‘68?

La Morante e Pasolini si erano molto avvicinati in occasione dell’uscita di Il mondo salvato dai ragazzini, libro che fu pubblicato nel ‘68 e che Pier Paolo considerava un vero e proprio manifesto politico che indicava la capacità rivoluzionaria e l’innocenza dei giovani. Entrambi avevano una visione creaturale della realtà, credevano in una rivoluzione che sarebbe poi stata agita per Pasolini nel Terzo mondo e dal sottoproletariato. Quando girai con lui Accattone ero l’aiutoregista, Pasolini mi diceva che i volti dei papponi erano come i volti dei santi delle pale d’altare, per questo c’erano loro continui primi piani. Negli anni Settanta Pasolini disse che la Trilogia della vita, Il Decameron, Il fiore delle Mille e una notte e I racconti di Canterbury era una finzione, una menzogna perché basata sulla forza di un innocenza in cui non credeva più e che non esisteva più. La sua visione della realtà divenne poi pessimista, senza scampo, atroce. Difficile dargli torto oggi.

Fonte: http://www.sagarana.net/anteprima.php?quale=341

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UN MONDO MIGLIORE E' POSSIBILE?

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UN MONDO MIGLIORE E' POSSIBILE?

di Silvia Quadraccia

Ridono perché siete deboli./Come potete difendervi?/Agite perché si uniscano/tutti i deboli, e avanzino insieme./Allora sarete una grande forza/di cui nessuno più riderà

(B.Brecht, La Madre)

Premessa:
<< È chiaro che un governo del terrore funziona nel complesso molto meno bene del governo che, con mezzi non-violenti, manipola l’ambiente e i pensieri e i sentimenti dei singoli.[…]In una democrazia capitalistica, come gli Stati Uniti, la Grande Impresa cade sotto il controllo di quella che il professor C. Wright Mills definisce “élite al potere”. Questa élite impiega direttamente la forza lavorativa di milioni di cittadini nelle sue fabbriche[…],altri milioni controlla, e anche meglio, prestando loro i soldi perché comprino i suoi prodotti; ed essendo proprietaria dei mezzi della comunicazione di massa, influenza pensieri, sentimenti e azioni di tutti>>
( A. Huxley da: “superorganizzazione” in Ritorno al nuovo mondo).


Introduzione:
In un momento in cui tanti nuovi strumenti sono messi a disposizione di pochi uomini e le vecchie categorie con le quali, ancora, i nostri padri, analizzavano il mondo sono decadute ingloriosamente. Nuove figure umane emergono dalle macerie post-industriali. Da S. Agostino in poi, tanti, forse troppi, filosofi si sono occupati del libero arbitrio.
Partendo da un punto di vista religioso è probabilmente un discorso molto interessante, perché il rapporto analizzato è quello fra Dio e uomo, inteso strettamente come sua creazione. Ma chi voglia affrontarlo in un ottica laica si trova davanti a un abisso di frasi già dette e già pensate, insomma non credo che sia più molto facile/utile dibattere su ‘caso’, ‘fatalità’, ‘libertà’ e ‘predestinazione’ se non, forse, da un punto di vista politico.
‘Rivoluzione’ è un termine che assume troppo spesso un sapore romantico e - sentimentale, il Positivismo è una corrente di pensiero superata, e persino il ‘buon vecchio’ Marx appare fin troppo ingenuo anche al più ottimista degli ultimi comunisti!
Una persona che nasce l’anno in cui le B.R. portano a segno il loro colpo ‘migliore’, cresce all’ombra delle rovine del muro di Berlino, e diventa adulta nell’era della globalizzazione economica, come legge un film come Accattone? E perché parlare di questo film a quarant’anni esatti dalla sua uscita? Pasolini era marxista, sebbene avesse un rapporto conflittuale con il P.C.I. ancora in Uccellacci e uccellini (1966), faceva dire al corvo-Pasolini-Marx: “non piango sulla fine delle mie idee, che certamente verrà qualcun altro a prendere la mia bandiera e a portarla avanti! Piango su di me…”, ma il suo primo film mi sembra essere impregnato di quel pessimismo che oggi è purtroppo molto attuale. Molte opere di Pasolini sono storie di una coscienza in formazione. L’acquisto della consapevolezza è una delle tematiche più ricorrenti. Il destino è considerato da un duplice punto di vista, sociale e individuale. Prendiamo Accattone ed Edipo re. Nel primo, è vietato qualsiasi tentativo di miglioramento, perché la realtà storica, sociale, culturale, economica, in cui vive Vittorio –il protagonista- non ammette alcuna evoluzione. Nel secondo il destino sembrerebbe aver deciso tutto già prima della nascita di Edipo eppure nella interpretazione pasoliniana del mito, decisamente memore dell’insegnamento freudiano, le cose non sembrano poi tanto lineari.


Al di la del bene e del male

In Accattone il destino di ciascuno è quello di morire di fame, in un ciclo sopravvivenza/morte, che sta al di sopra delle esistenze individuali coinvolgendo una intera classe sociale. I volti tutti uguali, il tentativo esasperato di Accattone di affermare la propria specificità di uomo, sono indice della omologazione che a partire dal secondo dopoguerra cominciò a cambiare i connotati della società italiana e che troverà la sua critica più feroce, benché diversamente contestualizzata, nel testamento cinematografico di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).
Vittorio trascorre le sue giornate nell’ozio della periferia romana negli anni del boom economico, all’orizzonte dietro le baracche di lamiera dove ogni giorno si consuma il dramma della fame e dell’isolamento, si possono scorgere i simboli della modernità, alti palazzi di cemento che, come alveari, racchiudono un’umanità laboriosa e nevrotica. Accattone e i suoi amici sono figure liminari, quasi dei mostri, dei vampiri, sono morti traboccanti di vita e si nutrono del sangue altrui.
Accattone è una figura mitica, extra individuale, al di la del tempo e dello spazio, simbolo vivente di un’umanità dimenticata, perché non produttiva,(“noi valemo solo se c’avemo mille lire in tasca”) per la quale non valgono le leggi etiche, morali e giuridiche della società borghese o, addirittura, proletaria. Simbolo di chi, di quella società, non può farne parte, nemmeno al gradino inferiore, come gli operai appunto, pena la perdita di ‘purezza’ e quindi della vita stessa.
Accattone è un ingenuo, convito che se potesse tornare indietro saprebbe costruirsi un destino diverso, sicuro di poter compiere quel salto che lo farà diventare ‘migliore’, ignorando “quanto sia repellente un piccolo-borghese”, è l’angelo ‘caduto’, indimenticabile la sequenza del tuffo nel Tevere, che ritrova la ‘santità’ grazie all’amore per Stella, un angelo vero, puro e candido.
Il primo lungometraggio di Pasolini è abbagliante, al livello visivo prima ancora che contenutistico. La scarsa conoscenza del mezzo tecnico spinge il regista a creare immagini di una indecente, semplicissima purezza, che si sposano meglio di qualunque trovata artificiosa con il carattere di Vittorio, vittima sacrificale del sistema capitalistico. Il sole che impietoso cuoce i volti e solleva la polvere per le strade di quest’altrove mitico che è la periferia romana, sottolinea l’ineluttabilità del destino di chi vive “al di la del bene e del male” e la necessità della morte, che Pasolini in Empirismo eretico paragona al montaggio, ovvero a ciò che dà significato alla vita/piano - sequenza.
La macchina da presa assedia Accattone, lo perseguita, gli sale addosso, come la sua drammatica presa di coscienza, che lo porta a liberarsi dalla maschera di sabbia, che simboleggia la sua vita da sfruttatore non più solo di donne, ma anche di sante, laddove, come dicevamo, Stella rappresenta un angelo, e forse addirittura la Vergine, intesa come mediatrice fra due universi distanti, inconciliabili.
La consapevolezza lo trasporta dalla natura alla storia.
Nel suo primo film Pasolini, si mette in gioco e pretende che lo stesso faccia la sua ‘selvaggia’ creatura, costringendolo a guardarsi, a provare repulsione per se stesso. Mette in evidenza come anche l’amore sia spesso concepito in modo ‘culturale’ più che naturale, in nome di questo equivoco Vittorio aderisce per la prima volta ad un ‘modello’ umano, cosa che comporta inevitabilmente la sua fine, intesa come morte fisica o ideologica. Accattone non può sopravvivere alla perdita di individualità, perché in lui sono ancora troppo presenti quelle che E. Fromm definisce “forze vitali [che] lottano per l’integrazione e per la felicità”, non gli resta che morire per non soccombere ad una logica che non gli appartiene perché disumana.


Umani troppo umani

Tutto questo accadeva nel 1961, quando mentre la ripresa economica ancora eccitava gli italiani, una nuova sensibilità cominciava a farsi largo tra studenti, lavoratori e donne, (stanche di essere costrette ai margini dal potere maschile e maschilista, di essere considerate o sante o puttane).
Dopo un trentennio di lotte la vita di chi vive ai margini della società ‘bene’, purtroppo non è cambiata moltissimo.
1994, mentre in Sudafrica vengono svolte le prime elezioni multirazziali e in Messico esplode la rivolta zapatista (in Italia, grazie alla sapiente manipolazione dei mass media, il ‘cavalier’ Berlusconi ‘sale al trono’), Ken Loach, porta sullo schermo una storia di assoluta mancanza di libertà, parlo di LadybirdLadybird, di vita negata, per chi è diverso, per chi non rientra nei canoni ufficiali, dei ‘benpensanti’.
Il cinema di Loach (come quello di Pasolini), è cinema di corpi, di storie scritte su e attraverso essi. La plasticità delle immagini che riempiono lo schermo è data soprattutto dal contrasto tra la rotondità/tridimensionalità delle masse corporee e la piattezza del paesaggio. I luoghi diventano estensioni dei personaggi, sono permeati dall’individualità, insieme contesto e proiezione delle storie vissute dai protagonisti. La periferia urbana diventa un ambiente al tempo stesso naturale e culturale, i palazzi di mattoni rossi non hanno una valenza estetico-simbolica ma sono i posti reali, visitabili, materiali, nei quali Maggie trascorre le giornate. Non c’è nessun compiacimento formalistico, e nessun gusto del pittoresco, non c’è retorica nel mostrare la povertà. E’ vita, è realtà. La morte e la maternità sono, per contrasto, i momenti in cui si concretizza la natura umana ecco perché i corpi (in entrambi i film) diventano il luogo in cui si svolge l’azione, in cui si consuma il dramma.. LadybirdLadybird, ha una struttura che sviluppa in modo esponenziale la tragicità delle situazioni.
Per Maggie è quasi impossibile sperare di sfuggire dal esilio in cui è costretta a causa della sua ‘alterità’, E’ estremo, drammatico e viscerale il suo tentativo di affermare se stessa, di diventare regista della propria esistenza, ogni gesto viene puntualmente vanificato. Ladybird è incatenata alla propria squallida vita, e le catene più strette gliele stringono addosso proprio coloro che dovrebbero aiutarla (gli assistenti sociali).
Maggie è l’ennesima vittima che la società dei benpensanti ha deciso di sacrificare in nome di un ‘ordine’ inumano, disumano, mostruoso, superiore e sacro. LadybirdLadybird, è un film che non inibisce la razionalità (per dirla brechtianamente) e allo stesso tempo colpisce come un pugno nello stomaco. E’ irritante, a tratti insostenibile, eppure pulsante di vitalismo e bello come la verità. E’ un grido, una disperata richiesta d’aiuto. E’ la quintessenza della vita, è una delle migliori dimostrazioni che il libero arbitrio è solo una bellissima favola, non più reale di Babbo Natale.
Maggie è (come) Accattone, i (sotto)proletari di tutto il mondo e di tutti i tempi hanno una comunanza di sogni e delusioni, di frustrazioni e speranze, di lotte e condanne, sono loro che immergono le mani (o la faccia) nel fango e dipingono il quadro dell’umanità più vera, più dolorosa, inconoscibile e disperata.
Per loro spesso non ci sono scelte da fare, sembra che non resti altro che subire la prepotenza di chi, dall’alto della sua presunzione si arroga il diritto di giudicare, dirigere, decidere la vita di milioni di persone ridotte al silenzio, all’annullamento, alla morte. Eppure in molti hanno ancora la forza di sognare, di combattere, di scendere nelle piazze, di farsi ammazzare, per gridare in faccia ai potenti che …“un mondo migliore è possibile”.
Forse…

Fonte: http://www.sentieriselvaggi.it/50/884/UN_MONDO_MIGLIORE_E-_POSSIBILE_di_Silvia_Quadraccia.htm

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Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini, il cinema fino ai confini del Testo.Osservazioni sul metodo degli Appunti

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini, il cinema fino ai confini del Testo.
Osservazioni sul metodo degli Appunti


Il contesto incorniciante, come lo scalpello di uno scultore,
leviga i confini del discorso altrui e nella grezza empiria della vita discorsiva,
taglia un’immagine della lingua: esso fonde e unisce l’aspirazione interiore
della lingua raffigurata e le sue determinazioni oggettivate esterne.
La parola d’autore, che raffigura e incornicia il discorso altrui,
crea a tale discorso una prospettiva, distribuisce luci e ombre,
crea una situazione e tutte le condizioni per farlo risuonare e infine,
penetra in esso dall’interno, vi porta i propri accenti
e le proprie espressioni e gli crea lo sfondo dialogizzante.
(M. Batchin)
*****
...la mémoire cesse d’être une faculté intérieure à l’homme,
et c’est l’homme qui, au contraire, habite l’intérieur d’une vaste Mémoire,
(...) d’une multiplicité virtuelle dont nous ne sommes qu’un degré
determiné de distension et de contraction.
(P.P. Pelbart)
*****
Dal totale: le porte dell’India, la sede del parlamento, il convento di Rishikesh, le acque del Gange, al dettaglio: un corvo e un teschio di vacca, mani e piedi malati. Un montaggio serrato, dall’uno (il totale riportato dal campo lungo) al multiplo (il frammento mostrato in primo piano) per tornare ancora a quello ripartendo da questo, e avere così un insieme di totali punteggiato (per non dire forse dilaniato) da un complesso di multipli (e viceversa) in una dinamica di distensione-contrazione portata ogni volta a con- fondere i profili di quell’ unico moltiplicato con quelli del suo multiplo ri- unificato. Carattere diaframmatico di un dire poetico di lungo respiro intervallato da spasmi contrattili. Su questo sistema di spinte centripete e spinte centrifughe, attivato da un lato dall’estensione discorsiva della voce over dell’autore sui campi lunghi e dall’ altro dalle strategie di resistenza dei frammenti all’assemblamento indifferenziato nel logos, sembra fondarsi tutta la complessa archi- scrittura per immagini degli Appunti per i film “da farsi” di Pier Paolo Pasolini.

Sono immagini, queste del prologo di Appunti per un film sull’India, terzo capitolo(1) del più ampio progetto pasoliniano che avrebbe dovuto assumere il titolo complessivo di Appunti per un poema sul terzo mondo, separate da interstizi incolmabili: un “tra” inserito a margine fra un quadro e l’altro a interrompere il naturale concatenamento delle immagini starebbe a indicare la presenza di una spaziatura(2), la quale, stando a Deleuze, farebbe sì che ogni immagine strappandosi al vuoto, vi ricada. In altri termini, ci si sta riferendo qui ad una sostanziale autonomia di elementi non più suturabili, facenti parte di un’ ampia trama discorsiva destinata a sfilaccicarsi nel corso di un farsi (nel senso proprio di un autoprodursi) del film stesso.

La scelta di ricorrere a un tipo di montaggio inorganico(3) interverrebbe in questo senso a scardinare la logica consequenziale della classica presentazione di immagini, insinuando fra di esse un’atmosfera di mondo. Impedendo di fatto alle singole inquadrature di saldarsi in un unicum totalizzante, questo tipo di montaggio permetterebbe all’organo di riacquisire una sua indipendenza rispetto all’Organico complessivo. Qui Pasolini sembra praticare alla lettera, direttamente sul Corpo istituzionale dell’India, quella che Compagnon arriva a definire propriamente «un’ escissione, una mutilazione, un espianto»: il frammento isolato dal testo, non potrà allora che assumere davvero valore di «membro amputato; non ancora trapiantato, ma già organo espiantato e tenuto in serbo»(4) in attesa di altre configurazioni.

Mi piacerebbe pensare a questo proposito proprio a una sorta di «potenza del gesto» ri-attivata dal dispositivo cinematografico stesso che, ricondotto da Pasolini a una sua primitività (che non è mai nel suo caso ingenuità) essenziale, sarebbe in grado di effettuare dei prelievi come degli innesti sulla base di un terreno caldo, ancora perfettamente malleabile e brulicante di vita, riabilitando in questo modo una pratica originaria del testo la quale acquisterebbe valore di per sé, prescindendo da determinati processi di significazione(5). E «la pratica originaria del testo», Barthes e Compagnon a questo proposito concordano, è nella citazione intesa proprio «come gesto o avvenimento»(6). Vedremo allora come la continua pratica distensiva, dal carattere fortemente gestuale, effettuata attraverso le maglie di un certo tipo di racconto per immagini, dilatate da una serie di intervalli dalla forte risonanza epica(7), potrà in questo senso testimoniare di una specifica prassi discorsiva fondata sui vuoti da intendersi proprio come spazi irrisolti, interstizi tra le immagini e talvolta imputabili alle immagini stesse, abbandonate a una sorta di divenire in potenza. Bisognerebbe pensare a questo proposito a una sorta di potenziale immaginifico(8) fondato sull’ assenza (spesso come in questo caso di raccordi), o meglio, da sprigionarsi in assenza.

Assenza di trasparenza in immagini ricondotte alla loro immanente polisemia, sporche di un’enigmatica complessità. Ma anche assenza di un percorso di senso predefinito, assenza di bordi, assenza di confini. A questo servono i frammenti, o i volti ostinatamente esibiti nella loro individuale storicità e singolare bellezza, a sporcare la Storia di storie e a far slittare continuamente tutti quei limiti (della e nella rappresentazione) che si pensano soliti. È un lavorìo incessante, quello governato da una particolare dialettica riflessiva istituita tra il materiale e l’idea, e portato avanti dalla m.d.p., fino ai confini dell’opera (attraverso quello spazio dal perimetro inassegnabile perché con-fuso nella reversibilità dei profili di una virtualità e di un’attualità costantemente interscambiabili(9)) a operare sui bordi, proprio al confine tra cinema e vita. È proprio in questa riflessività della materia, l’idea precisa di poiesis dell’immagine pasoliniana, in quest’istanza imprescindibile di reversibilità istituita tra realtà e cinema: e la fecondità di tale scambio avviene proprio sul limite, «quel limite» che si incontrerebbe solo «mostrando la relazione tra un’attualità e una virtualità che possono continuamente scambiarsi di posto»(10).

Sarebbero allora queste relazioni più o meno celate, tra un’attualità del dato fenomenico e la sua virtualità di una messa in scena “da compiersi”, a tenere in vita l’organismo del film (vivo di una sua vita propria) influenzandone costantemente lo sviluppo. Uno sviluppo da intendersi qui, come osserva acutamente Marco Dinoi, esattamente nel senso fotografico del termine, «un fare emergere il negativo dell’immagine impressionata attraverso un procedimento»(11). Un procedimento che nel caso specifico dei film in Appunti sembra scandire le tappe proprie di una “verifica” da effettuarsi sulla base di prelievi direttamente estratti dal reale e portati in relazione a una data immagine mitica funzionante in questo senso da pre-testo finzionale: da quest’irrisolvibile dialettica istituita tra i due volti coincidenti del mito e del reale conviventi in una stessa immagine scaturirebbe quel dialogismo “creativo”.

Attraverso queste impressioni di montaggio inizia a prendere corpo quella che fin dall’incipit del primo film Appunti per un film sull’India, non può che apparire allora come l’esplicita dichiarazione poetica di un antilogos (e in un certo senso vedremo quest’episodio d’introduzione al film non avrebbe potuto essere più “programmatico”). Quello che l’autore sembra letteralmente voler portare in scena (si pensi in questo senso all’uso quasi “da quinte” svolto dagli edifici presentati in campo lungo ai due lati della strada, le porte dell’India) è lo spettacolo di un’inedita geografia testuale, inedita perchè da farsi. Inedita perchè resistente a qualsiasi tentativo di demarcazione e quindi di com-prensione solita. Ecco allora che ai simboli superficiali di una mappa (le immagini istituzionali dell’India, quelle religiose e quelle politiche come la bandiera della Repubblica indiana) che pare aver cancellato e dimenticato la realtà fenomenica del suo territorio vivente (la struggente concretezza nel presente dei segni incancellabili di un passato di povertà e malattia), i frammenti sembrano opporsi in tutta la loro irriducibilità semantica, rifuggendo da ogni sorta di facile rappresentazione, ed esponendosi invece in tutta la loro complessità e indecidibilità.

L’indecidibilità nel contesto assai particolare dei film in Appunti, appare a tutti gli effetti come una «pragmatica interna al testo»(12) e questo nella misura in cui si farebbe rivelatrice di tutte quelle istanze di produzione inerenti il testo stesso, illuminandoci delle interazioni che ne sono alla base. Per questo il suo è un carico di potenziale eminentemente creativo, nel senso proprio di una ri-scrittura ( alla luce di un montaggio e di un commento a posteriori) di determinate sequenze sulla base di un’esasperazione di quelle innate possibilità di rischio, come le definiva lo stesso Barthes, connaturate alla loro stessa natura di immagini in successione e quindi di immagini soggette a delle logiche prettamente relazionali. Cos’è del resto una sequenza, si chiede lo studioso francese, se non appunto «una serie logica di nuclei uniti tra di loro da una relazione di solidarietà»? Ma è proprio questa natura relazionale, questa sicurezza della presupposizione reciproca degli elementi relazionati ad esporre la sequenza alla possibilità del rischio e a farne quindi sostanzialmente «una unità logica minacciata»(13).

Dal momento in cui infatti, come abbiamo visto, gli elementi di una data successione di immagini cesserebbero di essere raccordabili fra di loro innescando una sorta di dinamica di disaggregazione delle singole parti costituenti il Tutto, questo stesso processo di sconcatenamento finirebbe con l’assumere in qualche modo di per sé una propria valenza produttiva, nel senso di una ri–enunciazione o di nuova riformulazione di un discorso che è necessariamente altro da quello ufficiale. È un altro logos appunto, quello propagato dal carattere ostensivo delle immagini componenti il discorso non ancora formato degli Appunti; un dire e ri-dire fatto di pause, di sospensioni (“di potenziale”, quindi di senso) indicativo di sempre nuove alternative possibili (nell’alterità continuamente ribadita nei frammenti) e quindi esprimibile solo in termini di rinnovate libertà di senso. La dimensione sempre probabile dell’alternatività delle situazioni, delle ambientazioni ecc., è una conseguenza di quella sostanziale indipendenza della parte rispetto al Tutto di cui abbiamo detto, e che al fine della nostra analisi non può assolutamente essere sottovalutata, soprattutto in merito a quell’impulso dell’autore di operare, come abbiamo visto, direttamente in seno al testo “vivo” praticandovi dei tagli, incidendovi delle “aperture”(14).

Un’idea quella di produrre film per film “da farsi”, aperta perché, come abbiamo detto, indecisa fra un dentro e un fuori del film, e per questo in grado di autorigenerarsi sempre, a partire proprio da quei limiti (resistenze di vario genere incontrate sui luoghi o nei volti, nelle reazioni delle persone allo sguardo indiscreto della m.d.p.) cui questa pratica sembra inevitabilmente incorrere e che puntualmente riuscire ad eludere, riattivandosi di volta in volta alla luce di sempre nuovi stimoli creativi. Creatività propria di quello che abbiamo definito come uno sviluppo in potenza, fondato sui vuoti cognitivi e percettivi prodotti da determinate strategie di montaggio, il quale arriverebbe a tracciare in qualche modo alla lettera, di frammento in frammento, un metodo di regia di tipo trans-testuale come improntato al progressivo smantellamento di ogni riconfortante ri-costruzione del Senso unico e della Storia unica. Nell’ambito di una complessiva, sistematica pratica di decostruzione testuale, che non può trovare altra dimensione di esistenza se non in quella assai poco rassicurante e provvisoria degli “appunti” sempre disposti ad essere resi produttivi nella sperimentazione concreta delle loro infinite «possibilità di senso»(15).

E sembrerebbe essere proprio di un certo cinema del possibile, pre-occuparsi del materiale e delle infinite possibilità espressive da questo offerte, piuttosto che di un fare ragionato e soprattutto di un certo “fare logos” precostituito. Come afferma in un suo saggio Monica Dall’Asta a proposito delle sperimentazioni della pratica seriale riferendosi al caso particolare di Vertov: «questo cinema del possibile non fa scomparire il principio di necessità, piuttosto per così dire, lo posticipa. Il dover essere non è più il presupposto del fare: diventa una sua conseguenza. Non si dice più “lo faccio perchè è necessario” ma “è necessario perchè lo faccio”»(16). Il metodo pasoliniano degli Appunti può trovare dei margini di contatto con questa pratica sperimentale del seriale nella misura in cui, aprendosi ad una prospettiva dialogica nei confronti del materiale raccolto e selezionato sarebbe in grado di inaugurare una specifica operatività mitopoietica rimanendo sempre, in qualche modo, ai bordi di nessun confine. Una prospettiva questa, abbiamo visto, inaugurata dalle infinite possibilità espressive lasciate supporre da un particolare metodo di ricerca ancora da approntarsi e che per il momento sembra non riuscire a trovare altre possibilità di esistenza all’infuori di un certo svolgimento estensivo sul (filo) campo del testo vissuto dall’autore in prima persona in termini di spazio di ricerca da tradurre direttamente in pratica operativa.

In equilibrio (precario) sul filo del testo (non solo cinematografico). Quella di Pasolini è davvero una danza, e non solo sul limite del concreto sensibile(17). Vedremo in che modo con e su tali limiti tale gioco sarà operativo in funzione di una specifica prassi mitopoietica «sia quando si parla di finzione che quando si fa un’inchiesta con i mezzi del cinema»(18).

E in questo senso davvero i due incipit dei film Appunti per un film sull’India e Appunti per un’Orestiade africana, non avrebbero potuto essere più programmatici oltre che indicativi di una specifica pratica di transizione o se vogliamo anche di transazione(19) messa in moto dall’autore nei confronti (non solo) dello spettatore, chiamato direttamente in causa dalla voce dell’autore nella «rilettura» di certe sequenze a intervenire in qualche modo direttamente nel testo (inteso sempre come prassi di ricerca) come co-operatore di senso. In entrambi i casi infatti, si direbbe che l’autore, puntando sull’ambiguità insinuata nell’idea stessa di un cinema in Appunti, giochi letteralmente con i limiti e sui limiti di questa pratica, per mettersi in scena alla lettera come autore, in maniera più “discreta” nel caso del primo film sull’India dove sembra unicamente apparire con il proposito di spiegare l’idea del suo esperimento cinematografico al termine della sequenza iniziale di cui abbiamo detto, per ricomparire ancora e forse in maniera anche più «suggestiva» nel caso dell’Orestiade, attraverso il riflesso di una vetrina mentre si filma con una cinepresa).

È il disvelamento di un dispositivo di creazione e di autogenerazione del film stesso che qui fa problema. E la definizione già di per sé insidiosa di quello spazio individuato solitamente con l’espressione «ai margini del film», sembra qui suscitare delle questioni insolubili nel dar luogo (letteralmente) all’autorappresentazione dell’autore in quanto autore, (o forse a questo proposito si dovrebbe ricorrere al termine di fautore) il quale verrebbe ad appropriarsi di un inedito spazio enunciativo, ulteriore oltre che complessivo di una doppia marginalità. Su un margine, quello del film, spazio già di per sé liminare, la sua figura sta a introdurre «un film su un film da farsi» che è quindi a sua volta d’introduzione a un altro film ancora. Altro a tutti gli effetti.

Tutto questo ovviamente non può che innescare una vertiginosa dilatazione dei margini della visione e della com-prensione soliti (o che si vogliono soliti di un’opera in sé formalmente conchiusa), rimarcata fra l’altro proprio dallo stesso punto di vista formalmente esibito, di un autore che nel suo intervento esplicitamente dichiarato di autopresentazione ci segnala dell’aspetto di una conduzione anomala del film che non potrà allora mai essere percepito come il «solito» film(20). Questa insistenza del film e dell’autore quindi a premere sul film, sui bordi, è prova inconfutabile della malleabilità e della disponibilità del testo nella sua materia costitutiva. In questo senso davvero «focalizzarsi sul limite» come suggerisce Valentina Re, significa sì aprire degli inediti spazi di riflessione «tra testo e contesto» ma anche soprattutto cercare degli altri modelli di organizzazione e comprensione in grado di orientare tali scambi, pur «facendo salva la necessità (non solo metodologica) di potersi rapportare ad un testo che, in quanto tale, abbia un inizio e una fine (mobili, dialogici rivolti sempre verso l’interno e contemporaneamente verso l’esterno»(21)).

È nel contesto di questo complesso sistema di ingranaggi (complessivo di spinte e controspinte come abbiamo visto), che si troverebbe allora ad operare fattitivamente (nel senso proprio di uno specifico programma d’uso) in un apparente contesto di programmatica incompiutezza quella che con Bachtin arriverei propriamente a definire una coscienza dialogica, posta alla confluenza di due lingue, due mondi, due diverse coscienze. Se la prospettiva dialogica in Bachtin ha valore innanzitutto metodologico, essa può venire ad assumere tuttavia dei risvolti “temporali” non meno importanti e densi di significato ai fini della nostra analisi. Una sua affermazione a proposito ci introduce nel vivo di questa problematicità dialettica istituita da Pasolini nei confronti della grezza empiria e della complessa eterogeneità della sua raccolta di materiali(22):

C’è un’idea molto tenace, ma unilaterale e quindi errata, secondo cui per avere la miglior comprensione di una cultura altrui ci si deve come trasferire in essa e, dimenticata la propria, guardare il mondo con gli occhi di questa cultura altrui. Naturalmente, una certa immedesimazione in una cultura altrui, la possibilità di guardare il mondo con i suoi occhi è un momento necessario nel processo della sua comprensione; ma se la comprensione si esaurisse in questo momento, essa sarebbe una mera duplicazione e non arrecherebbe alcuna novità e arricchimento. La comprensione creativa non rinuncia a sé stessa, al proprio posto nel tempo, alla propria cultura e non dimentica nulla. E’ una grande cosa per la comprensione questo «trovarsi fuori» del ricercatore (nel tempo, nello spazio, nella cultura) rispetto a ciò che egli vuole creativamente comprendere(23).

L’impostazione plurilaterale suggerita da Bachtin per una migliore comprensione della cultura altrui ci riporta inevitabilmente all’approccio di tipo transtestuale iscritto in qualche modo nella stessa natura spuria dell’idea originaria di assemblare degli Appunti per produrre film (si pensi al ricorso a un tipo di montaggio alternato di immagini tanto lontane fisicamente oltre che temporalmente e riunite solo da un punto di vista per così dire diegetico, fra quelle girate personalmente da Pasolini, i prelievi di realtà, il materiale delle interviste, i disegni, le immagini d’archivio ecc…)(24).

Per non parlare dei casi di trans-letteralità, nei giochi di semi-apparenza individuabili nella composizione plastica di certe immagini dove i confini del mito vanno a con-fondersi e a perdersi in quelli del reale, in virtù di quei riflessi cangianti di attualità/virtualità di cui abbiamo detto. In questo senso la presenza in entrambi i casi degli Appunti indiani e africani, di una sorta di avan-testo letteralmente pretestuoso (come nel caso del primo l’inchiesta svolta attorno ai nuclei tematici fondamentali del sacrifico, della fame, della sete, sulla scorta della domanda apparentemente ingenua dei tigrotti(25), e nel caso del secondo, la tragedia eschilea) l’approccio transtestuale sembra trovare una sua legittimazione per così dire ideale.

La pretestuosità di tali pre-testi interverrebbe in questo senso a dissimulare il discorso d’autore in una reiterata serie di seduzioni (intese proprio come strategie di conduzione a sé attivate da entrambe le parti e quindi riconducibili solo ai termini di quella dialettica istituita tra idea e rappresentazione) Per questo i pretesti non cesseranno mai di influenzare il testo (e di esserne a loro volta influenzati) continuando incessantemente a ri-produrlo instancabilmente in tutte le sue metastasi.

In conclusione vorrei finalmente rifarmi ad un esempio concreto estrapolato dal complesso di appunti per un’Orestiade africana, che possa essere “visivamente” illuminante in merito a quelle particolari dinamiche che abbiamo visto caratterizzare un’ operare essenzialmente dialogico proprio di una coscienza poetica.

A questo proposito scelgo fra tanti un appunto che Pasolini stesso presenta come «diverso dagli altri»: l’arrivo di Oreste a pregare sulla tomba del padre, l’unico girato stando alle sue parole «come se fosse la scena reale del mio film». Necessaria premessa, poco prima lo stesso Pasolini nello scoprire una tomba nei pressi di un villaggio africano, aveva pregato un padre e una figlia abitanti della capanna vicina di ripetere esattamente i gesti solitamente compiuti per rendere omaggio al loro defunto e li aveva filmati. Questo rituale «realmente» commosso, scandito nei gesti dalla rilettura dei versi di Eschilo e ri-formulato «letteralmente» dalla scansione delle diverse inq. che ci mostrano la scena come la preghiera di Elettra nell’atto di versare l’acqua sulla tomba del padre(26), va letteralmente a confluire nella configurazione realistico- mitica dell’altro «rituale», questa volta del «vero film» che non a caso risulta essere anche una delle scene più montate del film. Anche questo appunto è accompagnato dai versi di Eschilo riprodotti dalla voce ostensiva dell’autore su una messa in scena evidentemente più poetica (si pensi al campo- controcampo del primo piano dell’“Oreste africano” che si rivolge con uno sguardo implorante al “Cielo-Apollo”) ma nutrita anch’essa di una stessa «reale» sacralità.

«Il dolore, la morte, il lutto, la tragedia», aveva già spiegato in precedenza Pasolini per giustificare la convivenza nei suoi appunti di immagini «finzionali» (situazioni e personaggi da adattare al suo film) e di immagini di repertorio girate durante la guerra del Biafra, «sono elementi eterni» e nella loro assolutezza possono fare astrazione del particolare legando indissolubilmente «attualità e fantasia». Così vediamo allontanarsi l’attore africano «perso» nella stessa angoscia straziante di “Oreste”, costretto a vagare per le strade del mondo in attesa del giudizio finale. Allo stesso modo vediamo la rappresentazione ideale del Tempio di Apollo «perdersi» nelle forme neocapitalistiche della moderna università africana. E le fattezze inquietanti delle Furie «perdersi» anch’esse al ritmo di una danza di Eumenidi. La definizione dei confini del reale e quelli del mito risulta a questo punto irrimediabilmente compromessa. Nella trasformazione che si dà ai limiti, non può esserci immediata risoluzione, la conclusione ultima (la forma definitiva), lo dice Pasolini stesso «non c’è», non si dà, «è sospesa». Un’apertura nel finale che non potrà essere contemplabile unicamente come sguardo nostalgico rivolto al futuro, seguendo una mera successione cronologica degli avvenimenti esposti, ma in merito a quanto detto finora a proposito di quell’operare dialogico oltre che diacronico compiuto dall’autore attraverso il testo(27), allora questa è sicuramente da intendersi piuttosto come un invito a ri-guardare, riconsiderare retrospettivamente le tante «aperture» disseminate a più livelli nel testo, tra i testi nella riconfortante certezza di avere davvero ancora tutto un «infinito in cantiere»(28).


Patrizia Fantozzi


1 Il progetto complessivo ideato da Pasolini avrebbe dovuto comporsi di cinque capitoli dedicati all’America del Sud, ai ghetti neri statunitensi, all’India, all’africa nera e ai paesi arabi. Di questi sarebbe stato realizzato solo il capitolo africano e in parte quello indiano.

2 Dice Deleuze: “Data un’immagine, si tratta di scegliere un’altra immagine che introdurrà tra le due un interstizio. Non è un’operazione di associazione, ma di differenziazione (…) dato un potenziale, bisogna sceglierne un altro, non uno qualunque, ma in modo che tra i due si stabilisca una differenza di potenziale, un potenziale che sia produttore di un terzo o di qualcosa di nuovo.” G. Deleuze, Cinéma 2. L’ image- temps, Les Editions de Minuit, Paris 1985, tr. it. L’immagine- tempo, Cinema 2, Milano, Ubulibri, 1989, p.200-201

3 Ivi, p.194-209

4 A. Compagnon, Il lavoro della citazione, in Guagnelini G. e Re V., Visioni di altre visioni, Bologna, Archetipolibri, 2007,p. 93-94

5 E questo avverrebbe proprio nel momento in cui l’atto stesso, introducendo nel testo uno scarto, un’apertura, sarebbe in grado da solo di innescare processi di produzione di senso, in grado di prescindere “dai ‘contenuti’ letterali di una determinata citazione.”

6 Non è un caso che proprio negli stessi anni di sperimentazione del metodo degli appunti per film da farsi, Pasolini giunga alle sue teorizzazioni sul cinema come lingua scritta della realtà, rivendicando fra l’altro proprio l’importanza dell’azione come il primo e principale dei linguaggi umani “in quanto rapporto di reciproca rappresentazione con gli altri e con la realtà fisica.” PPP in Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1974, p. 199

7 L’epicità del racconto pasoliniano è data a mio avviso proprio dalla vertigine prodotta da queste spaziature; un vuoto che come dice Deleuze, non essendo già più “parte motrice dell’immagine e che l’immagine oltrepasserebbe per continuare” appare come la messa in questione radicale dell’immagine stessa “proprio come esiste un silenzio che non è più la parte motrice o la respirazione del discorso, ma la sua messa in questione radicale.” V. I. T., p.201. La potenzialità straordinariamente evocativa del metodo degli Appunti starebbe allora nella radicale messa in questione delle tradizionali modalità operative del mezzo di riproduzione cinematografica. E questo potenziale procederebbe nel senso dell’incompiutezza, della provvisorietà, del vuoto della rappresentazione, del silenzio quindi.

8 L’espressione di André Gaudreault ( v. “Dal semplice al Multiplo o il cinema come serie di serie…” in Antonini A., a cura di, Il film e i suoi multipli, Forum, Udine, 2003 p. 29 ) che sta a evidenziare un certo potenziale magico iscritto nella stessa fotogrammatica della cinematografia a partire proprio dall’ illusione di unità e continuità data dai fotogrammi multipli iscritti su un supporto unico e quindi caratterizzato da un costante passaggio dialettico dall’uno al multiplo e viceversa, vorrebbe qui riferirsi invece a una sorta di potenziale creativo, più che magico direi forse poetico, il quale verrebbe attivato attraverso il ricorso a un uso particolare del montaggio fondato su una trascorrenza di piani ( e quindi di riprese ) non immediatamente giustificabile da un punto di vista esclusivamente interno al testo.

9 Gilles Deleuze è chiaro a questo proposito “La confusione tra reale e immaginario è un semplice errore di fatto e non concerne la loro discernibilità (…) L’indiscernibilità invece costituisce un’illusione oggettiva; non sopprime la distinzione delle due facce, ma la rende in assegnabile, poiché ogni faccia assume il ruolo dell’altra, in una relazione che si può definire di presupposizione reciproca o di reversibilità.” In L’immagine- tempo, Milano, Ubulibri, 1989, p. 83

10 In Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Firenze, Le Lettere, 2008, p. 168

11 E’ questo procedimento che nel caso specifico degli Appunti sembra scandire le tappe proprie di una “verifica” effettuata sulla base di prelievi direttamente estratti dal reale in rapporto a una data immagine mitica e quindi meramente funzionale, a originare quell’irrisolvibile dialettica dialogica tra i due volti coincidenti del mito e del reale conviventi in una stessa immagine.Ivi, p.164

12 La presentazione della serie di “possibili” personaggi, situazioni, ambientazioni del film

13 V. analisi di Cosetta G. Saba sulle “disgiunzioni di probabilità” nei rapporti tra un testo matrice e un testo remade, in Antonini A., (a cura di) Il film e i suoi multipli, Forum, Udine, 2003, p.48-49

14 Ivi, p.87

15 In “Film che producono film..”, cit.p. 372

16 Ivi, p. 371

17 Il titolo del saggio di Marco Dinoi “Secondo interludio, sul limite del concreto sensibile”, in Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Firenze, Le Lettere, 2008, p.155 è un chiaro riferimento all’intervista rilasciata da Pier Paolo Pasolini Le cinéma selon Pasolini ai Cahiers du cinéma. In quest’occasione il regista si trova a riflettere con Comolli e Bertolucci sulla questione dell’utilizzo o dell’applicazione di una lingua della poesia al cinema, evidenziando soprattutto l’aspetto contraddittorio che una simile operazione potrebbe suscitare rispetto a quelli che sono da sempre i naturali obbiettivi e mezzi dello strumento cinematografico “che sono innanzitutto in situazione e in funzione realistica”, Pasolini parla di un “naturalismo fatale” connaturato allo stesso meccanismo del cinema. E in questo contesto torna ad avvicinare la parola all’ immagine, sostenendo per entrambe la presenza di uno stesso “limite del contrario”: il “limite del concreto sensibile” appunto. Ma se nel caso della parola sarà ancora possibile affermare oltre questo concreto sensibile un significato simbolico astratto assoluto, ciò non sarà possibile nel caso dell’immagine cinematografica per la quale questa operazione non potrà che realizzarsi in maniera incompleta, poiché afferma il regista: “non credo che nessun film abbia mai passato questo limite- nemmeno il più poetico dei film”.

18 Ibidem.

19 È da qui che lo stesso autore cerca di organizzare il passaggio dello spettatore dal mondo extratestuale a quello testuale: di gestire dunque un transito, ma anche una transazione (confermando ad esempio aspettative già formate nello spettatore, ed attivandone delle nuove) V. Ai margini del film. Incipit e titoli di testa, di V. Re, Pasian di Prato, Campanotto Editore, 2006, p.11

20 Un’anomalia che si verificherà soprattutto in condizioni di inassegnabilità di “punti di vista” almeno secondo le modalità di percezione classiche. In questo senso il discorso relativo all’uso della soggettiva libera indiretta meriterebbe un’analisi a sé, per quanto ci riguarda è utile sottolineare la sua importanza in merito a certe modalità operative di messa in scena dello sguardo d’autore attraverso quello dei suoi personaggi o presunti tali.

21 Ivi, p. 14

22 “L’immensa quantità di materiale pratico, ideologico, sociologico, politico che viene a costruire un film del genere impedisce obiettivamente la manipolazione di un film normale. Esso seguirà dunque la formula “un film su un film da farsi”. In M. Mancini e G. Perrella (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Corpi e luoghi, Theorema, Roma 1981, p. 37

23 M. Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, p.XV E’ il “trovarsi fuori” dello sdoppiamento effettuato dall’autore attraverso la soggettiva libera indiretta: p. 167 I.T.

24 “Stilisticamente il film sarà dunque molto composto, complesso e spurio: ma a semplificarlo provvederanno la nudità dei problemi trattati e la sua funzione di intervento diretto rivoluzionario.” In M. Mancini e G. Perrella (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Corpi e luoghi, cit.p. 37

25 I nuclei tematici della fame, della fede ecc..non sarebbero che un pre-testo per una loro messa alla prova, operativa nel senso di quella mitopoiesis che caratterizzerebbe il metodo sperimentale degli appunti. “ Non si può immaginare un Pasolini tanto ingenuo, come quello che scaturirebbe da una comprensione letterale della domanda, posta nel film indiano, sulla possibilità che un maragià doni la propria vita per sfamare dei tigrotti” come suggerisce Marco Dinoi “se non in termini di operatività mitopoietica di tali figure” In Lo sguardo e l’evento, cit.p. 159

26 In questo senso si potrebbe parlare di una citazione nella citazione: la citazione come prelievo del reale che si dà come cinema in natura potenzialmente iscrivibile in un discorso mitico e citazione letterale del pre-testo della tragedia Eschilea in seno al testo degli Appunti inteso come “modus operandi”. In questo senso il testo di Eschilo è perfettamente leggibile nel montaggio pasoliniano: «Dio dell’Inferno, re dei vivi e dei morti, fa che ascoltino questa mia preghiera gli spiriti che stanno sotto terra testimoni terribili dell’assassinio di mio padre e la terra stessa madre di tutti noi che ci ha nutriti e in sé ci raccoglie a germinare nuova vita mentre versando quest’acqua ai morti io prego mio padre».

27 Le “smagliature” del Tempo cronologico in funzione dell’instaurazione di un regime di Tempo “mitico”.

28 G. Genette, in Guagnelini G. e Re V., Visioni di altre visioni, op. cit.p. 129

Fonte: http://www.lafuriaumana.it/index.php?option=com_content&view=article&id=317:pasolini#_ftn18


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